Mille torri di cristallo nelle viscere del mondo

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Battere la pietra per l’intero periodo della propria giornata lavorativa, alla faticosa ricerca di zinco, piombo e argento: non costituisce esattamente un’attività invidiabile, quella svolta quasi quotidianamente dai fratelli Eloy e Francisco Javier Delgado, volenterosi abitanti dello stato messicano di Chihuahua, non troppo distante dal confine degli Stati Uniti. Nonostante ciò, è indubbio che la loro lunga carriera al servizio della compagnia mineraria Industrias Peñoles’ gli abbia regalato dei momenti di notevole soddisfazione. Come quando, nell’anno 2000, stavano scavando dei nuovi tunnel di prospezione a 300 metri di profondità dal suolo, sopportando faticosamente temperature prossime ai 40 gradi Celsius, soltanto per ritrovarsi all’improvviso di fronte ad un qualcosa di apparentemente impossibile: un alto pilastro trasparente dal diametro di tre metri, simile alla colonna di un antico tempio, ma fatta di quello che sembrava essere a tutti gli effetti… Ghiaccio! Impugnati a due mani gli strumenti di scavo, picconi, trivella e gli altri attrezzi a disposizione, i due aprirono uno stretto varco nella pietra rossa tipica del distretto di Saucillo, in cui Francisco, coraggiosamente, scelse di strisciare carponi. Restando, tuttavia, estremamente coscienti di un punto chiave: tutto quello che si vedeva qui sotto, allo stato corrente dei fatti, risultava raggiungibile soltanto grazie alle pompe della miniera sovrastante. Qualora queste avessero cessato di funzionare, in pochi minuti la grotta sarebbe ritornata totalmente sott’acqua. E mai scelta di vita fu più soprendentemente ben riuscita di così: perché all’altro lato della parete, nel distretto della piccola città di Naica, si nascondeva da tempo immemore l’equivalente geologico della tomba di Tutankhamon, del museo del Louvre, del parco dei mostri di Bomarzo… Di tanti altri luoghi perduti, fantastici, misteriosi…. Ovvero: la Camera dell’Occhio della Regina. Così chiamarono un tale ambiente di 8 metri di diametro, in cui un antico titanico gioielliere sembrava aver smarrito il suo intero repertorio di sproporzionate gemme, ciascuna perfettamente candida, ed accuratamente tagliata fino ad essere quasi tagliente. Cristalli alti quanto palazzi di tre piani, incastrati nella roccia e fra di loro, posti ad ogni grado possibile d’inclinazione, sopra cui camminare, ai quali aggrapparsi mentre si tenta di dare un senso allo scenario ultramondano. La luce della torcia di Francisco, rimbalzando da un alto all’altro di una tale meraviglia (presumibilmente) naturale, sembrava congregarsi ai margini, evitando di raggiungere uno spazio globulare al centro dell’ambiente sotterraneo. Tale varco, simile ad un orbita oculare vuota, dava la strana sensazione di essere osservati. E offriva un’ulteriore strada per discendere nel Labirinto.
Negli anni immediatamente successivi, come potrete facilmente immaginare, il varco fu ampliato, e vennero portate a termine le prime, affrettate esplorazioni. La temperatura delle grotte di Naica risulta essere purtroppo, come precedentemente accennato, estremamente elevata, il che unito ad un’umidità prossima al 100%, rende l’aria contenuta al loro interno virtualmente irrespirabile. Il richiamo della scoperta, tuttavia, risultava difficile da ignorare. Anche perché fin dal 1910, incidentalmente, era già nota a una profondità minore (-120 metri) l’altra meraviglia sotterranea della caverna cosiddetta delle Spade, le cui pareti si presentavano ricoperte da una fitta rete di cristalli di gesso, già eccezionali in termini generali ma singolarmente non più lunghi di un mezzo metro ciascuno. Varie ipotesi esistevano sulla loro formazione, tra cui la maggiormente accreditata faceva riferimento a una versione sovradimensionata del processo di formazione del tipico geode, la pietra cava di origine ignea che nasconde al suo interno un reticolo di meraviglie semi-trasparenti. Ma l’opportunità di conoscere l’origine di una simile stranezza grazie ai fratelli enormi alle profondità maggiori, gettando nel contempo ulteriore luce sull’origine di questa Terra e delle forme di vita che la chiamano casa, non ci mise molto ad attirare l’attenzione della scienza internazionale. Nel 2006, quindi, grazie ad un’iniziativa finanziata da diversi sponsor tra cui le stesse Industrias Peñoles’, venne costituita l’organizzazione del progetto Naica, costituito da un variegato team di studiosi, documentaristi e sperimentatori, assolutamente determinati a risolvere il mistero delle grotte. A guidarli, come in un viaggio dentro agli Inferi danteschi, c’era molto giustamente un gruppo d’italiani.

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La reale dimensione dei paesi sopra e sotto l’equatore

Mercator Projection

Ehi, tu! Osserva il contenuto di questa immagine. La vedi quella minuscola cosa rossa, accanto alla massa giganteggiante dell’Australia? Ecco, stai guardando la Gran Bretagna. Si, con Inghilterra, Scozia e Galles. L’isola più grande con tutte le altre, e soltanto un pezzettino dell’Irlanda settentrionale, che Brexit a parte, continua a incoronare qualsiasi immagine dell’Europa. La quale nella visualizzazione più spesso usata delle nazioni, sembrerebbe poter facilmente rivaleggiare con l’estensione longitudinale di alcune parti del paese dei canguri. Si, come no. La realtà, signora mia, la stai vedendo solamente adesso… Forse addirittura per la prima volta: uno scricciolo, un pacchetto di fiammiferi, un ciottolo sperduto nel deserto. Questo dovrebbe sembrarti, persino l’isola più vasta d’Europa, al confronto di quello che pur sempre resta uno dei cinque continenti che compongono le complessive terre emerse del Pianeta. Ed allora perché, normalmente, non sembra affatto così? La colpa, che tale è diventata solamente col trascorrere dei secoli, va attribuita ad una singola persona, vissuta tra il 1512 e il 1594 nella regione delle Fiandre, sita presso il Belgio settentrionale: Gerhard Kremer, passato alla storia con la versione liberamente latinizzata del suo nome, Gerardus Mercator. Matematico, astronomo, cartografo. Geniale manipolatore della geometrica realtà effettiva. Che potrebbe aver modificato in modo indiretto, grazie alla creazione di un sistema fin troppo diffuso di preconcetti (piccolo=meno importante?) La storia stessa dell’intera Terra.
Passiamo quindi alla spiegazione del problema di massima. Che potrebbe sembrarvi, a seconda dei casi, scontata ed automatica, oppure un qualcosa di assolutamente sorprendente ed inaspettato. Il che è del resto molto logico, visto come si tratti di una tematica che viene comunemente affrontata, o almeno DOVREBBE esserlo, nel corso del quinquennio che compone la scuola, per l’appunto, elementare. Cosa che tuttavia risulta spesso problematica, per tutta una serie di ragioni. In genere, la spiegazione va così: “Bambini, sappiate questo. La Terra non è piatta, ma ha la forma di un ellisse irregolare, che in geometria viene chiamato il geoide. La mappa che vedete appesa sopra la mia cattedra, invece, non è altro che un’immagine stampata su di un foglio di carta. Questo significa che per rappresentare una cosa tridimensionale in due dimensioni, essa deve scendere a compromessi con la vera forma e dimensione dei paesi. Ricordate, quindi, che non tutto quello che vedete è verità.” Un bravo maestro, a questo punto, potrebbe far seguire a tutto questo degli esempi: “La Russia in realtà non è tanto più larga degli Stati Uniti” Oppure: “La Groenlandia non raggiunge l’estensione verticale dell’Argentina” Ma simili affermazioni del tutto contro-intuitive rispetto all’evidenza dell’illustrazione, penso sia facile capirlo, in mancanza di un’efficace dimostrazione pratica rimangono del tutto indifferenti. Così questo è un dato che una volta assunto in via teorica, scivola via ben presto, per poi tornare nella mente degli adulti solamente nel caso di chi lavora con le mappe quotidianamente. Il fatto è c’è un solo modo, a questo mondo, per dimostrare in maniera evidente la falsità del senso comune in materia: un’animazione, possibilmente interattiva, visionabile attraverso lo schermo di un computer. Un qualcosa come il sito The True Size.com, presso cui il visitatore può scrivere il nome di un qualsiasi paese al mondo, quindi iniziare a spostarlo in giro per il globo, vedendolo deformarsi in proporzione agli altri che costellano la mappa. Scoprendo, senza alcun ombra di dubbio, l’incredibile realtà. Che tutto quello che si trova al di sopra della linea ideale dell’equatore, ovvero la circonferenza massima della Terra perpendicolare all’asse di rotazione, ci appare innaturalmente più grande. E ciò che è posizionato al di sotto di essa, invece, rimpicciolito di parecchie volte. La principale vittima dell’intera faccenda, assai probabilmente è l’Africa. Che nell’opinione comune, non dovrebbe essere molto più estesa dell’Europa Occidentale. E invece…Potrebbe contenerla tutta intera…NEL SOLO DESERTO DEL SAHARA. E allora perché? Per quale assurda ragione, la più erronea visualizzazione del globo terrestre viene comunemente insegnata nelle scuole, e tutti noi cresciamo abituati a considerare il mondo con una prospettiva notevolmente falsata? Continuate a leggerlo per scoprirlo. Ma il punto principale a priori è che nessuna proiezione bidimensionale di uno sferoide, per sua imprescindibile natura, potrà mai mostrare la realtà. Ed è per questo che nelle aule, dovrebbe esserci sempre almeno un mappamondo. O ancora meglio, un PC.

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Come creare una sfera di terra giapponese

Dorodango

Per chi è alla ricerca di un nuovo hobby. Per chi ha una mensola vuota sul camino. Per chi ha il giardino. E tempo, voglia, predisposizione, di accovacciarsi per raccogliere qualche manciata di comune vecchia terra, la cara polvere del suolo. Allo scopo di…Mettiamola in questo modo: nella perenne e articolata ricerca del perfetto manufatto decorativo, ovvero un oggetto degno della nostra ammirazione e spazio casalingo sopra i mobili, troppo ci lasciamo dirigere dal gusto e dalla concezione collettiva! Perché esistono parametri “oggettivi” come l’antichità, il valore dei materiali, la finezza estetica di quanto siamo a valutare. Ma non è forse vero che nell’epoca del puro ed assoluto soggettivismo (io, io, io nerd, io neet, otaku, surfista, vegano…) disponiamo ormai degli strumenti tipologici e mentali per trovare quello che ha importanza per noi, e porlo su di un piedistallo che tutto sovrasta? I giapponesi, dopo tutto, questo l’avevano in qualche maniera intuito. Ed è per questo che si erano industriati, fin da tempo immemore, ad insegnarlo alle loro più giovani generazioni. Passando attraverso, tra le tante cose, ad un’arte semplice, oppure gioco che dir si voglia, definito dello hikaru dorodango (光る泥だんご), letteralmente: lo gnocco splendente di fango. Oggi questa tecnica, diventata internazionale, viene insegnata al popolo di Internet da numerosi siti e portali dal vario grado di specializzazione, soprattutto in forza della sua relativa semplicità realizzativa, ma anche per la bellezza del prodotto finale, che si è potenzialmente dimostrato degno di trovare posto nel tokonoma (床の間) familiare, la nicchia al centro della stanza in cui si accoglie un ospite, dinnanzi ai più bei tesori della propria casa.
Il più famoso produttore occidentale di dorodango è senza dubbio Bruce Gardner di Albuquerque, nel New Mexico, che a partire dal 2002, a seguito della lettura di un articolo sulla cultura giapponese della rivista TATE, scritto da nientemeno che il famoso autore fantascientifico e saggista William Gibson, decise che avrebbe iniziato a vagare per i molti deserti sabbiosi del suo stato. Ritrovando, e quindi raccogliendo, i più diversi tipi di sabbie colorate per mettere in pratica la tecnica che consiste, essenzialmente, nel compattare quanto di dovuto, renderlo massimamente sferoidale, quindi procedere a una speciale tecnica di disidratazione e lucidatura, fino all’ottenimento di un qualcosa che sia, al tempo stesso, umile e perfetto. Qualità che Gibson, in effetti, nominava solamente di sfuggita, come tenue strumento metaforico per definire l’auto-isolamento delle nuove generazioni nipponiche. Nonché una vera dimostrazione terrena, se mai ce n’è stata una, dei meriti della meditazione e dello Zen. È tuttavia indubbio come da questo recente video del National Geographic, che mostra il fenomenale risultato del suo lavoro, sia difficile desumere alcun tipo d’informazione procedurale o effettivo segreto dell’artista. La terra, se semplicemente raccolta ed appallottolata, come potrete facilmente immaginare (o provare) non dimostra certo questa innata capacità di coesione e quindi, predisposizione alla lucidatura. Un approfondimento, dunque, viene reso estremamente necessario.
La moderna versione dello hikaru dorodango (nella pronuncia, è importante che la “h” iniziale sia aspirata) rinasce essenzialmente dagli studi e dalle pubblicazioni del professore di psicologia e ricercatore Fumio Kayo dell’Università di Kyoto, che nel 2001 pubblicò un famoso articolo sull’argomento. In cui egli narrava, in modo alquanto affascinante, del periodo trascorso collaborando con un asilo, all’interno del quale aveva interagito e giocato con i bambini, ritrovandosi a intraprendere, su precise istruzioni dell’insegnante, l’apparentemente semplice tecnica dello gnocco di fango. Scoprendo quasi subito come, per la mente dei giovani creatori, simili oggetti diventassero immediatamente preziosissimi, alla stregua di ninnoli acquistati a caro prezzo, e il modo in cui per ciascuno di loro, la propria creazione apparisse essenzialmente perfetta. Persino nel caso in cui essa fosse tutt’altro che tonda. Nonostante il duro impegno, tuttavia, il Prof. Kayo racconta di non essere riuscito, in un primo momento, a raggiungere la compatta lucentezza della palla creata dal suo collega locale, ricavandone un cruccio che l’avrebbe accompagnato fino al suo ritorno nel dipartimento all’università. Iniziò così un periodo di approfondito studio, da parte sua, completo di numerosi esperimenti e addirittura dell’impiego di un microscopio per studiare la superficie delle sfere, al fine di elaborare un metodo creativo delle migliori palle splendenti che non fosse più soltanto il frutto dell’istinto e dell’esperienza, ma che tutti potessero apprendere attraverso una serie di semplici passaggi. Tale sistema, ad oggi, risulta ancora ufficialmente pubblicato sul suo sito personale all’interno del portale dell’università…

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Come salvarsi dalle sabbie mobili di Morecambe Bay

Morecambe Bay

Il 5 febbraio del 2004, in un freddo giorno d’inverno del Nord-Ovest d’Inghilterra, un gruppo di 38 migranti cinesi stavano per iniziare la propria nuova vita. Assunti illegalmente e senza alcun tipo di permesso, da un duo padre-figlio di commercianti locali per il tramite di un gangmaster, il tradizionale intermediario della loro stessa nazionalità, erano partiti di buon ora da Slyne-with-Hest, sub-contea della città di Lancaster, per inoltrarsi oltre la costa presso la località di Hest Bank. Là dove il cielo era più limpido e l’acqua distante, camminando sulla sabbia color spento, fino al centro di un deserto letteralmente privo di specifici punti di riferimento. Ciascuno di loro, generalmente caratterizzato da un’età che andava dai 20 ai 30 anni, di sesso maschile, volenteroso e in buona forma fisica, iniziò quindi ad eseguire le specifiche istruzioni ricevute dai datori di lavoro: chinarsi, inserire lo strumento di carotaggio, ricavare un buco nel terreno e poi metterci dentro la mano. Una, due, tre volte, finché da quel pertugio non tornava su, miracolosamente, una o più cockles, le particolari vongole native di questo luogo, unico in tutta l’Europa Settentrionale. Un lavoro ingrato, e come spesso capita in simili casi, mal pagato: stiamo parlando, per intenderci, di 5 sterline ogni 25 K. Bene o male, un giorno intero di lavoro. Senza casa, senza famiglia, senza possibilità. Una condizione per uscire dalla quale, si sarebbe disposti a fare qualunque cosa. Praticamente tutto, tranne perdere la vita.
Ad oggi non è totalmente chiaro, nonostante il riuscito recupero di 15 sopravvissuti, che cosa esattamente sia successo per causare il decesso per affogamento dei loro 23 compagni. Né probabilmente, ci fu una sola causa determinante: il fatto è che pianure simili, del tipo quotidianamente ricoperto dall’alta marea, sono sempre infuse di un senso di calma apparente, la stasi più totale. Niente pare disturbare la loro pura essenza, finché la forza gravitazionale della Luna, assistita dalla rotazione terrestre, non causa un lieve innalzamento del livello del vicino mare. E quello, delicatamente, inesorabilmente si propaga fino all’entroterra, ricoprendo tutto e tutti quelli che si trovano sul suo cammino. In particolare nella baia di Morecambe, che in realtà non è affatto un’insenatura costiera ma il vasto delta risultante dalla confluenza tra i fiumi Leven, Lune, Kent, Keer e Wyre, si dice che l’avvenire di questo spaventoso e reiterato fenomeno avvenga “alla rapidità di un cavallo al galoppo”. Potrebbe sembrare un’esagerazione. Forse, dopo tutto, lo è. Ma resta ad ogni modo improbabile, per chi sente una tale storia per la prima volta, il fatto che dei giovani perfettamente abili, sebbene privi di conoscenze approfondite della geografia locale, non siano riusciti in qualche modo a trarsi in salvo dal pericolo, scorgendolo sull’orizzonte da lontano. Ciò perché la vera ragione della loro dipartita, in effetti, è nascosta sotto un velo di apparente sicurezza: la superficie del suolo stesso. E trae l’origine da una sostanza assai temuta, eppure mai abbastanza, uno dei fluidi più comuni al mondo. Il puro fango. Che naturalmente, può trovarsi caratterizzato dalle forme o consistenze più diverse. Ma che nella sua versione maggiormente deleteria, finisce per assumere caratteristiche pseudoplastiche, ovvero diventare un denso fluido non-newtoniano che “si assottiglia al taglio” (espressione tecnica) perdendo la solidità, qualora sottoposto a una sollecitazione improvvisa. Come il passo di un pesante essere umano.
Ciò che succede, allora, è facilmente dimostrabile, come fatto per l’appunto dal nostro Jonny Phillips, l’inviato del National Geographic per la serie I Didn’t Know That, che nell’occasione qui mostrata decise, non senza pentirsene immediatamente, di mettere alla prova le leggende su una delle singole località più pericolose di tutte le isole britanniche. L’avventura risultante, a giudicare dallo stato d’animo dimostrato sul finire del video, sarà destinata a restargli bene impressa nella memoria.

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