Tiranni condannati al culmine di un’epoca remota, i dinosauri del Cretaceo conoscevano soltanto un modo per raggiungere la cima trofica della catena alimentare: essere più grandi e forti, imponenti, crudeli, orribili a vedersi. E ben pochi, in questo, superavano lo Spinosaurus aegyptiacus, maggiore teropode scoperto fino ad oggi, 18 metri di lunghezza e 20 tonnellate di peso, mascella in grado d’ingoiare una mucca intera (se soltanto fossero esistite…) E una grande, impressionante vela. Disposta sopra la struttura vertebrale, usata forse per attrarre la compagna, oppure farsi ombra, tra un combattimento e l’altro, dissipando il suo preistorico calore. Ma l’evoluzione, come è noto, opera per strade assai contorte. E può talvolta capitale che una bestia simile, sebbene su una scala differente, viva soverchiata da un diverso tipo di terrore. E adotti come approccio di sopravvivenza, piuttosto, la scaltrezza e la rapidità di movimento!
Ombra grigia sulle fronde della giungla di alberi decidui, ali grandi e un’affilata testa incoronata con il copricapo di Toro Seduto, il becco lievemente aperto, quasi per assaporare l’aria dai molteplici sentori misteriosi. Un grido, è il segno, l’ora della caccia della Pithecophaga jefferyi, il più grande e più temuto tra i rapaci delle Filippine. L’aquila ornata che piomba verso un lieve movimento rivelatorio, compiuto da una forma strana ma riconoscibile, lunga all’incirca un metro, di una lucertola poggiata lievemente sopra i rami. Ma la preda condannata, lungi dal restare immobile, fa un guizzo e poi si volta a 180 gradi, quindi compie un balzo di almeno cinque o sei metri, che sorprende, ma non può certo confondere la vista esperta di quell’aquila affamata. Poiché lei ricorda bene, come tutti gli altri carnivori che cacciano in zona, che lì sotto scorre un fiume, lungo il quale il suo nemico conta di fuggire via nuotando; “Poco importa, NEIGH” Pensa il super-predatore “I miei artigli possono ghermirla anche tra i flutti. Non ha scampo…” E cala giù in picchiata, in mezzo al canalone disegnato dall’assenza di vegetazione lungo l’asse gorgogliante, se non che i suoi padiglioni auricolari, fondamentali per dirigere l’ultimo tratto della caccia, non colgono lo SPLASH che si era immaginata, bensì una serie di piccoli tonfi in rapida sequenza. Ed è allora, mentre si solleva per un secondo passaggio, che scorge l’impossibile, a cavallo: il rettile che corre sopra l’acqua. Una zampa dopo l’altra, i piedi piatti con gli artigli disposti a raggera, la lunga coda tesa in senso longitudinale, con la cresta sulla schiena che s’innalza fieramente verso il cielo. In due battiti di ciglia, che l’uccello in ogni caso non possiede, il pranzo balza sulla riva e riesce a scomparire tra il più fitto e oscuro sottobosco. Dove non puoi vincere, meglio affrettarsi. Ed essere anfibi ha chiaramente i suoi vantaggi: non per niente il suo nome scientifico è Hydrosaurus pustulatus, benché da queste parti siano soliti identificarla come “Drago dalla coda a vela” in forza del suo segno di riconoscimento più evidente. Eppure molte sono le qualità e non solo di natura estetica, mostrate da questo lontano cugino della lucertola dei deserti rocciosi (gen. Uromastyx) e quella barbuta… (gen. Pogona)
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Ignota yooperlite: pietra in fiamme sulle rive di un lago distante
Nel fatidico momento, all’inizio dell’estate scorsa, in cui il barbuto Erik Rintamaki si recò verso le ore dell’alba presso la solita spiaggia del lago Michigan in cerca di opali, agate o altri preziosi tesori mineralogici del mondo, tutto egli poteva aspettarsi, tranne questo: un uovo di drago? Il nucleo di un motore alieno? Il guscio fossile di una magica lumaca viaggiatrice? Ovvero l’oggetto il quale, puntando la sua fida torcia a raggi UV, rispose a quel bagliore in modo stranamente vivido, mostrando sulla superficie punti e venature di uno splendido color arancione acceso. Qualcosa che nessuno da queste parti, mai e poi mai, poteva dire di aver visto prima. Il che è davvero molto significativo, quando si considera la propensione assai marcata delle genti dello stato settentrionale, omonimo col suo maggiore lago, in cui la ricerca di pietre è una sorta di hobby assai diffuso ad ogni età. Nonché un’effettiva fonte di sostentamento, oltre che di svago, per le molte dozzine di venditori online e altrove dei propri migliori ritrovamenti, attentamente catalogati per peso, rarità e bellezza estetica. Un merito, quest’ultimo, che praticamente nessuno si sarebbe mai sognato di negare a tali fluorescenti pietre, il cui scopritore si affrettò a identificare con il neologismo yooperlites, con tanto di marchio di fabbrica velocemente registrato presso gli enti responsabili del suo paese. E un’etimologia decisamente insolita, derivante a quanto pare dall’unione tra yoopers, slang usato normalmente al fine d’identificare gli abitanti della penisola maggiormente settentrionale (“upper“) tra le due che compongono il Michigan, e un’assonanza con la parola light, che significa luce. Senza neanche un misero riferimento al già noto suffisso greco di lithos (λῐ́θος) che dovrebbe significare in campo scientifico, per l’appunto, pietra. Il che non avrebbe impedito comunque al collezionista di minerali Raymond Laughlin e al geologo Shawn Carlosn di segnalare la faccenda ai ricercatori della vicina Università del Saskatchewan, che senza un’attimo di esitazione, verso la fine di quel maggio stesso, fecero in modo di acquistare una certa quantità di rocce dallo scopritore del misterioso materiale luminescente.
Il quale finì per rivelarsi, dopo un’approfondita analisi chimica e mineralogica, come un qualcosa d’effettivamente nuovo per la sua regione di provenienza, benché tutt’altro che inusitato: sostanzialmente, l’unione estremamente distintiva tra rocce sienitiche (i.e, simili al granito) e copiose quantità di sodaliti, tectosilicati usati spesso in gioielleria, proprio per la propria innata fluorescenza e qualche volta, addirittura tenebrescenza, ovvero la capacità di cambiare colore sotto determinate e specifiche fonti di luce. Come le torce che oggi vengono impugnate, per l’appunto, dagli innumerevoli e speranzosi cercatori di queste rive, frementi nell’attesa di poter portarsi a casa un così affascinante e misterioso souvenir della natura…
La iena bruna, latrante nemesi dei cuccioli di foca
Oh, Grande Spirito di tutte le belve, concedimi l’abilità di abbattere il possente erbivoro. La scaltrezza di aggirarlo e tendergli una trappola. La resistenza per corrergli dietro attraverso le ondeggianti distese della savana. OPPURE, molto semplicemente, la faccia tosta e forza bruta necessaria al fine d’intromettersi tra cacciatori molto più efficienti e il loro lauto pasto, perché il furto si trasformi in un pilastro stesso della mia esistenza. Anche a discapito dell’opinione che il mondo potrà riservare alla mia prole: iena, mangiatrice di carcasse o essere rissoso che destabilizza i già difficili rapporti tra felini e cani. E se vi dicessi che nel più profondo meridione, ne persiste ad oggi una particolare specie che risulta essere, in effetti, persino peggiore? Questa è la tetra leggenda dello strandwolf, fuori dal Sudafrica chiamato “lupo della costa” o in termini latini H. brunnea, unico rappresentante, come le altre tre specie appartenenti alla sua stessa famiglia, di un genere tassonomico soltanto suo: Parahyena. E per questo praticante di un sistema di sopravvivenza estremamente distintivo, in funzione del difficile habitat occupato, sin da tempo immemore, dalla sua famelica genìa: niente meno che la rinomata Costa degli Scheletri, sul lato atlantico della Namibia settentrionale, luogo in cui il principale punto di riferimento risultavano essere un tempo i rimasugli dei cetacei catturati e poi scarnificati dagli umani cacciatori di balene. E in cui ben poca vita sulla terraferma riesce a prosperare, fatta eccezione per minuscoli mammiferi o speciali insetti il cui metabolismo si è adattato, nei secoli e millenni, a una carenza d’acqua e umidità capace di durare multiple stagioni. E da cosa potrebbe mai trarre nutrimento, dunque, un predatore con la folta criniera marrone e dal peso di fino a 60-70 Kg e 144 cm di lunghezza, bastanti a renderlo la seconda iena per dimensioni dopo la Crocuta crocuta dal manto a macchie e l’iconica risata sghignazzante? Ovvio: creature che provengono da un altro mondo. Nonché esseri, in un certo senso, simili a lei: le otarie orsine del Capo (Arctocephalus pusillus) che in funzione della propria ecologia, sono propense a radunarsi in gigantesche colonie di fino a 1.500 esemplari, essendo programmate per fare ritorno, svariate volte l’anno, presso il luogo stesso della propria nascita, per procreare. Segue dunque un difficoltoso e vulnerabile periodo, durante il quale fin troppo spesso, una sensibile percentuale di cuccioli muore inevitabilmente di stenti, per il clima inclemente e la continuativa carenza di cibo: un letterale banchetto potenziale, per divoratori opportunisti che dovessero “accidentalmente” transitare di lì. Ma le iene, si sa, non eccellono certo per la loro pazienza, ragion pere cui può capitare, spesse volte, che un rappresentante di quel popolo decida di aver atteso abbastanza. Intervenendo, per così dire, al fine di accelerare la pinnipede dipartita delle giovani speranze di quel mondo, ahimé, soltanto in parte marino. Segue, a questo punto, scena prelevata in modo pressoché diretto dal più orribile e terrificante splatter movie…
I temibili tamburi della vespa metallica sudamericana
Nei paesi del Nuovo Mondo in cui si parla portoghese, ma anche, talvolta, nell’Argentina dalla lingua nazionale spagnola, il termine tatu viene usato normalmente per riferirsi alle appartenenti maggiormente fastidiose dell’ordine degli insetti sociali noti come imenotteri: le pungenti, aggressive e fin troppo spesso invadenti vespe. Ma basta aggiungere a questa parola il nome comune marimbondo, che significa armadillo, per scatenare nel cuore della gente un senso atavico ed istintivo di paura, per non giungere persino a un sentimento di vero e proprio terrore. Poiché non c’è un singolo altro insetto, fatta eccezione per la sempre ingiustamente sottovalutata zanzara, che abbia propensione a causare lo stesso numero di vittime o feriti sul territorio della splendida ed azzurra Synoeca cyanea, in forza della rinomata indole aggressiva, la frequenza delle punture e il potere lesionante di quel terribile veleno. Classificata nel sempre rilevante indice del masochista entomologo J. Orvel Schmidt a un abbondante livello 3.0+, caratterizzato con la dicitura descrittiva di “Tortura. Come essere incatenati per lungo tempo nella lava incandescente di un vulcano.” Sostanza, questa, consegnata al destinatario mediante l’impiego di uno speciale pungiglione ricurvo fatto per piantarsi nella pelle e non uscire tanto facilmente, il che inerentemente causa, successivamente all’inoculazione veicolata con perizia senza pari, l’inevitabile morte dell’insetto, anche troppo felice di sacrificarsi per il bene collettivo dei suoi fratelli e sorelle all’interno del favo. Struttura costruita, quest’ultima, secondo modalità ed accorgimenti particolari, tra cui quello di venire posto con le celle direttamente a contatto con la parte superiore di un tronco, con l’unico involucro protettivo di un involucro esterno fatto in polpa di legno dalla superficie vistosamente ruvida e zigrinata un po’ come, per l’appunto, la corazza del piccolo mammifero corazzato capace di chiudersi formando l’approssimazione di una sfera. Proprio per una specifica ricerca aposematica auditiva (“finalizzata ad avvisare i predatori”) che consiste, nel momento in cui ci si trova sotto assedio, nell’iniziare a produrre un suono battente e ripetitivo, mediante la percussione all’unisono di tali increspature con tutta la forza delle proprie piccole ali, moltiplicate per le centinaia, persino migliaia di abitanti. Dal che deriva un altro nome comune di questo piccolo genere composto da sei specie appena con un comportamento ecologico piuttosto uniforme, identificato talvolta come quello delle “vespe guerriere” proprio per la loro personale interpretazione del concetto di un tamburo da battaglia, usato per intimorire il nemico poco prima dell’autodistruttiva carica finale. Alternative queste, tuttavia, che non paiono possedere lo stesso fascino innato della marimbondo, con la sua riconoscibile colorazione nera a macchie blu metallizzate ed il clipeo (scudo facciale) di un rosso intenso, benché nel momento in cui si riesce finalmente a vederlo, risulti essere nella maggior parte dei casi già troppo tardi per salvarsi. Un’esperienza, purtroppo, fin troppo nota agli abitanti delle sopracitate regioni all’altro capo del mondo…