Non è cane, non è coccodrillo. Sa soltanto quello che non può saziarlo a dovere

È una questione largamente acclarata nel campo della paleontologia che le balene attualmente presenti all’interno dei nostri mari, in origine, discendessero da creature ungulate di terra risalenti ad un periodo di 50 milioni di anni fa. Principalmente carnivore, dotate di denti aguzzi e muscoli scattanti, capaci di cacciare in gruppo la loro preda come fossero dei lupi. Perché non anche il coccodrillo, allora? L’impressionante quadrupede loricato, membro dei diapsidi dal cranio fenestrato, che oggi passa larga parte della propria vita immerso in acque placide nel tentativo e nell’attesa di poter ghermire la sua preda malcapitata. Siamo soliti affermare, a tal proposito, che tale belva sia il prototipo di fossile vivente, mai cambiato in modo sostanziale fin dall’epoca dei dinosauri, quando il corso dell’evoluzione riuscì a generarlo in modo tangibile, fatto e (pericolosamente) finito. Il che non significa che in tempi già trascorsi, il mondo mancasse di conoscere creature ragionevolmente simili, benché dotate di caratteristiche e prerogative nettamente diverse. Come nel caso dell’appena scoperto e classificato genere Kostensuchus, i cui appartenenti correvano nelle pianure sopra zampe lunghe e forti. Al fine d’inseguire, ghermire e fare a pezzi con i propri denti seghettati le cosiddette “lucertole sovrane” che un tempo avrebbero dovuto dominare la Terra. L’epoca è il tardo Cretaceo, 72-66 milioni di anni a questa parte, così come databile dal materiale geologico costituente il sostrato della cosiddetta formazione Chorillo, campo arido e pietroso situato nella parte estrema della Patagonia, non troppo lontano dalle bianche sponde prossime al discioglimento del famoso ghiacciaio Perito Moreno. Lì, dove negli anni immediatamente antecedenti al Covid un gruppo di ricercatori del Museo Argentino di Scienze Naturali, potendo occasionalmente contare sull’aiuto di colleghi provenienti dall’Università di Tokyo, era impegnata nella laboriosa ricerca di quella che continuerà, ancora per lungo tempo, a costituire l’esportazione principale di questa zona totalmente disabitata: i resti mineralizzati, talvolta in condizioni parziali ed incomplete, certe altre quasi totalmente privi di difetti apprezzabili, di creature che un tempo percorrevano le alterne strade di questo spietato pianeta. Non che ci fossero molti dubbi quando Fernando Novas e Marcelo Isasi, all’inizio di marzo del 2020, s’imbatterono nell’ennesima concrezione interessante, l’agglomerato di sedimenti chiaramente formatosi attorno ad un nucleo di origini generalmente organiche. Ed in quel caso particolare, dotato di una forma pienamente riconducibile nella forma anatomica fin troppo nota di un cranio affusolato, con grandi orbite oculari nella parte superiore, per certi versi riconducibile a quello posseduto da un grosso cane. Fu a questo punto deciso di concerto dai membri della spedizione che l’importanza della scoperta giustificasse il ritorno alla vicina città di El Calafate, se non che il dinamico duo l’avrebbe trovata saldamente chiusa per l’inizio del lockdown che tutti ricordiamo. Il che li avrebbe trasformati in una carovana destinata a proseguire per 2.400 fino a Buenos Aires, dove Novas avrebbe preso in custodia il misterioso fossile, con l’obiettivo di lavorarci facendo uso degli attrezzi presenti nella sua dimora. Seguirono lunghi mesi, con l’uso di piccoli martelli pneumatici, scalpelli e frese di precisione, durante cui l’esperto paleontologo imprigionato come tutti dalla pandemia avrebbe riportato alla luce l’auspicata quadratura del cerchio: la prova inconfutabile che in Argentina, a quei tempi, un predatore insospettato faceva concorrenza ai megaraptoridi e gli altri predatori occasionali della Preistoria. Qualcuno che ci sarebbe apparso sottilmente alieno, e al tempo stesso, dotato di uno strano alone di familiarità…

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Scoperto l’antenato del piccolo canguro di velluto, con muso da levriero e coda di un topo

Nei Territori Settentrionali dell’Australia, in un’epoca collocata entro i confini del tardo Miocene (6-8 milioni di anni fa) la lotta per la sopravvivenza vedeva coesistere scontrarsi specie dalle proporzioni e capacità singolari. In un’anticipata, e forse ancor più enfatica realizzazione dell’idea memetica del “paese più selvaggio” qui si stagliavano contro il paesaggio gli alti e inamovibili diprodontoidi, bradipi dalle proporzioni di un rinoceronte, i cui potenti artigli avrebbero potuto fare a pezzi un’automobile dei nostri giorni. L’uccello carnivoro dromornitide alto fino a 3 metri, noto anche come mihirung, il cui forte becco avrebbe potuto fare ancor più danni di quello di un causario. Ed il rapido leone marsupiale Wakaleo vanderleuri, che pur non essendo più grande di un cane di taglia media, avrebbe cacciato in branco, lasciando ben poche speranze ad un preda convenzionale. In questa terra implacabile, tuttavia, esistevano anche animali dal contegno più pacifico e condizionati dall’assenza di sistemi di autodifesa in grado di evocare lo spirito supremo del combattimento. Creature come quella scoperta recentemente da Isaac A. R. Kerr della Flinders University e descritta in un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Alcheringa verso l’inizio di luglio. Sopra un declivio noto come “Collina dello sterco bovino” (Cowpat Hill) un corredo d’ossa la cui provenienza sarebbe stata assai più logica nelle profonde foreste della Papua Nuova Guinea ancora più a nord: a tutti gli effetti un macropodide, eppure dalle dimensioni sensibilmente minori rispetto ad un canguro dei tempi odierni. Il che non significhi che manchi di moderni eredi, essendo l’appropriatamente denominato Dorcopsoides cowpatensis estremamente simile, nei fatti, agli odierni appartenenti al genere Dorcopsis, endemici per l’appunto del vicino paese insulare. Ed è proprio questo il nodo fondamentale dell’enigma, poiché se risultava fisicamente e biologicamente simile a tal punto, quali modifiche nel suo comportamento potevano permettergli di sopravvivere in un territorio climaticamente arido, nonché frequentato da carnivori tanto famelici ed intrinsecamente pericolosi?
La risposta è che forse non conosciamo questo gruppo di cinque specie simili da molti punti di vista eccetto il colore quanto, ormai da tempo, siamo inclini a ritenere. Per lo più grazie all’associazione con i wallaby continentali, rispetto ai quali possiedono determinati punti di contatto, ma non solo. Ponendoci nei fatti a dover colmare, sotto più di un punto di vista, le molte lacune di un progetto di studio che ancora oggi procede a rilento. Un po’ per l’ambiente remoto di queste creature, ma forse soprattutto per la quantità di ambiti di studio adiacenti offerti dall’ambiente straordinariamente distintivo dell’intero territorio d’Oceania. Che ha portato gli studiosi nei trascorsi delle loro carriere, per una ragione o per l’altra, a focalizzarsi in passato sulle discendenze la cui eredità fossile risultava maggiormente chiara e definita in modo puntuale. Una situazione che potrebbe, nell’incedere dei prossimi anni, trovarsi presto a mutare…

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La parete preistorica più a lungo percorsa dai dinosauri della paleontologia boliviana

Un icnofossile costituisce, nello studio della biologia sparita, il tipo di traccia lasciata inconsapevolmente da un essere vivente, prima che il presentarsi di particolari condizioni climatiche, geologiche o situazionali possano permettere a tali testimonianze di entrare a far parte di un sostrato immutabile, capace di oltrepassare integro il ponderoso volgere dei millenni. O interi eoni, addirittura, ovvero molte volte gli anni trascorsi dall’inizio dell’umana civilizzazione, così come potrebbe capitare dopo l’esaurimento delle nostre innumerevoli aspirazioni, oltre le ceneri di tutto ciò che è stato, sussiste ancora o potrebbe palesarsi a beneficio dei nostri predecessori. In circostanze come quelle della celebre formazione rocciosa di Cal Orcko, dalla lingua quechua “Cal Urqu” o “Colle Calcareo” sebbene non sia la sua mera composizione a costituire il fondamento dell’importanza concettuale di questo sito. Bensì la caratteristica che emerge, già a parecchi metri di distanza, in questo sito poco fuori la capitale Sucre della Bolivia, non appena la si osserva con la giusta luce o inclinazione a notare i particolari: le almeno 5.000 o fino a 10.000 impronte, molte delle quali perfettamente visibili, di quelli che possiamo facilmente identificare come grosse creature preistoriche, ovvero in altri termini, gli abnormi dinosauri al centro delle nostre ipotesi e fantasie, ormai da plurime generazioni di approfondite deduzioni. Nessuna maggiormente approfondita, o utile, del tipo derivante da questa tipologia di tracce, letterale cronistoria cristallizzata non di un singolo momento ecologico bensì una serie distinta, sovrapposti uno all’altro e inclini a emergere attraverso la progressione delle decadi, come nella successiva esfoliazione di una cipolla. Siamo effettivamente qui davanti ad una situazione rigorosamente in divenire, causa processi d’erosione e terremoti che sostanzialmente non hanno mai avuto fine, per non parlare delle vibrazioni prodotte dalla vicina miniera della compagnia produttrice di cemento Fancesa. Il che tende a lasciare inevitabilmente perplessi: come può essere che non siano state vietate operazioni di questo tipo, a pochi metri da una zona d’importanza inalienabile dell’antichità stimata di almeno 65 milioni di anni? Senz’altro c’è qualcosa d’insolito in tali circostanze, come del resto niente di prevedibile può essere notato in merito alla storia pregressa di questo luogo unico al mondo. Quando nel 1994, attirato dalle storie degli operatori di scavo che circolavano ormai da oltre una decade, il paleontologo amatoriale Klaus Pedro Schütt non si recò a scattare alcune foto della parete calcarea, inviandole presso destinatari appartenenti alla scena accademica internazionale. Il che avrebbe suscitato l’interesse, ed in seguito motivato la visita in prima persona da parte del Prof. Christian Meyer, studioso svizzero destinato a pubblicarei primi lavori sull’argomento. Semplicemente il giacimento d’icnonofossili più esteso, ed uno dei maggiormente rilevanti in assoluto, nell’intera storia della paleontologia umana…

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I dinosauri che si baciano sull’autostrada, massiccio monumento ai confini del Gobi

Di miraggi mentre ci si spinge oltre le dune abbiamo molti resoconti, che siano appartenenti all’epoca moderna o quelle che l’hanno precorsa nell’ultimo giro della ruota del tempo. Occorre tuttavia percorrere a ritroso molti dei suoi raggi, oltrepassando gli stessi limiti della vicenda storica umana, al fine di raggiungere l’ispirazione della porta principale dedicata ai visitatori di Erenhot (alias Erlitan) città cinese situata nella regione autonoma della Mongolia Interna. Un’elevata meraviglia, una svettante antonomasia, una dimostrazione di creatività, una coppia di realistiche (?) rappresentazioni in acciaio color verde rame del secondo dinosauro più grande mai scoperto al mondo, il Brachiosaurus altithorax del Giurassico Superiore. Il che sarebbe stato già abbastanza stupefacente, anche senza entrare nel merito della scena rappresentata: gli abnormi rettili, di un’altezza di 19 metri e lunghi 34, sembrano impegnati nell’attività tipicamente umana di un bacio appassionato, all’incontro delle loro teste perpendicolare al centro esatto di una grande strada di scorrimento. Niente meno che l’arteria stessa che permette di raggiungere quel centro cittadino, intenzionato a evidenziare in questo modo valori come armonia, amicizia e fraternità. Nonché ricordare, ai suoi visitatori più o meno turistici, di essersi attribuito ormai da tempo il prestigioso titolo di “Capitale Mondiale dei Dinosauri”, onore soggettivo ma non del tutto privo di una base logica, visto il posizionamento di tale luogo sopra la faglia geologica di Erlitan-Hegenshan, ai margini esterni della placca continentale siberiana. Corrispondenti ad un fenomeno di parziale scioglimento del mantello terrestre iniziato 250 milioni di anni fa, dando inizio a una significativa e duratura fuoriuscita di magma acido, tale da causare l’affioramento a ondate di minerali come quarzo, mica, feldspato. Ma anche permettendo la conservazione, attraverso gli eoni successivi, delle schiere letterali di resti appartenuti alle più celebri e imponenti creature degli albori dei continenti, esseri capaci d’instillare nella gente di ogni paese un senso istintivo di terrore e meraviglia. Per oltre 50 anni prima di oggi dunque, spostandoci a ritroso nell’asse temporale, possiamo verificare l’intercorsa costituzione di numerosi siti di scavo e spedizioni scientifiche, nei dintorni aridi ed irti di pendii a questo possibile confine della civiltà. Fino a un’episodio destinato ad essere inserito negli annali, relativo alla scoperta nel giugno del 2005, durante l’Iniziativa di Protezione del Patrimonio Geologico istituita direttamente dal partito al governo, di una creatura precedentemente del tutto ignota alla scienza. Sto parlando del Gigantoraptor erlianensis, un dinosauro rapitore di uova (o “raptor”) vissuto nel Cretaceo Superiore con la propria altezza significativa di 8 metri, tale da aver fatto scambiare inizialmente le sue ossa per quelle di un tipico tirannosauro dei perduti lidi. Fino a studi maggiormente approfonditi e quella che potremmo definire, per intercessione dell’amministrazione urbana locale, una vera coincidenza illuminata dalla fortuna…

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