Nel giardino delle zanzare nerborute

Elephant Garden

Silenziosamente orribile, l’orco prataiolo giace presso la distesa di puntali semi-articolati ove gli erbivori vengono a brucare. È una tipica scena in stile “National Geographic” in cui ci viene mostrato il cacciatore nel suo ambiente, mentre l’alpaca dai grossi bulbi oculari tondeggianti si avvicina a quella grossa bocca della fine. Ma le regole, in questo particolare caso, sono molto differenti: c’è una mimèsi, a ben guardare, che conduce il gioco della storia. Ed è una capacità perfettamente realizzata dall’evoluzione, o una versione contorta di quella stessa forza, per cui il bruto vagamente antropomorfo può per così dire, sconfinare dall’inquadratura. Per palesarsi, solamente all’improvviso, con la grossa mano verde, afferrando e fagocitando però molto, molto lentamente. C’è dell’arte, in tutto questo. Dello sconto ironico tra ciò che è, quello che potrebbe verificarsi, alternativamente, in dimensioni o giorni contrapposti. Senza menzionare il ferreo controllo di una visione autorale che probabilmente, nonostante le dichiarazioni fatte in autorevoli interviste, compone con una visione chiara e ferrea nell’intento, Mancano, semmai, metafore interpretative: tutto è chiaro per chi guarda. Infatti osserva bene, che ci ha messo, Felix Colgrave nella bocca del titano pelleverde: una doppia fila di denti oppressivi e sinuoseggianti, nell’aspetto identici a quella distesa prima divorata, ora divoratrice, per l’ironica alternanza dell’ecologia situazionale.
Ma una simile scena, talmente inquietante e memorabile, non è in effetti che l’inizio di un fantastico viaggio negli ambienti fantasiosi dell’ultramondano. Specifichiamo: sarebbe questo luogo, come da titolo della composizione, un pianeta che fluttua trascinato via dagli elefanti, grazie all’uso di altrettanti lunghi cavi. Tre bestie colossali, una meno che nell’Amarakosha indiano (enciclopedia del quinto secolo) in cui talmente erano forti e fermi, tali pachidermi, da giacere sopra il dorso di una tartaruga. E sotto quella? Beh, ci sono varie valide interpretazioni. La migliore e maggiormente accreditata, ormai da molto tempo è un’altra tartaruga e un’altra ancora. Fino a…Ma questo non è un problema che sia giunto a porsi l’artista. Il quale si prefiggeva piuttosto, con il suo “The Elephant’s Garden” vincitore del premio Best Australian Film al MIAF 2014, di offrirci uno sguardo su di un universo del tutto autosufficiente, sebbene incompleto; perché circondato da…Un qualcosa. Una sorta di deserto all’idrogeno, il media cosmico del nulla, in cui i pianeti si urtano l’un l’altro, a mo di palloncini. Ed uno solo è vivo, grazie, per l’appunto, all’intervento del demiurgo allevatore, anch’esso dotato di proboscide, che appare per qualche fotogramma nel finale.
Ma prima di arrivarci, quante astruse meraviglie… Il tema centrale del cortometraggio, che al momento del completamento era stato senz’altro il più lungo articolato dell’autore, sembrerebbe essere la fame predatoria. Quanti modi esistono per la natura serpeggiante, se così si può chiamare in questo caso, di mordere la propria stessa coda, senza perdere in lunghezza complessiva o numero di scaglie. Anzi, tutt’altro!

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L’uomo dei motori fa una nuova miniatura

Patelo

E questa volta, Patelo, ti sei superato. Non 6, 12 o 18 cilindri ma addirittura 32, ciascuno lungo quanto un fiammifero, ma pur sempre estremamente conduttivo a quella voglia ed il suo scopo di partenza, la Potenza. Trasformazione di uno stato neutro verso l’energia: un artista che lavora, per giorni, settimane o mesi, all’assemblaggio manifesto della sua immaginazione. E a un certo punto giunge, sul passaggio ennesimo del suo rasoio mattutino, a poter sentire quel vagito ripetuto, leggermente sferragliante, di un complesso meccanismo eppure semplice, per lui. La continua manifestazione di quel passatempo e nel contempo, la passione di una vita: per i motori di marina, prima, e quelli per gli gnomi inesistenti di Galizia, adesso e chissà fino a quando. È per certi versi conforme allo stereotipo del pensionato, José Manuel Hermo Barreiro detto Patelo, famoso su Internet come il costruttore del motore V-12 più piccolo del mondo, creato dall’assemblaggio puntiglioso di una lunga e variegata serie di minuti componenti. Però e questo è soprattutto il bello, lui non visita negozi del settore modellistico, per comprare e/o far venire dalle fabbriche lontane ciò che avrebbe poi impiegato successivamente. Bensì indossa, di persona, la sua tuta da lavoro di un profondo azzurro cielo. E ogni giorno puoi trovarlo, lì nell’officina, che lavora al tornio verso il prossimo soggetto dell’inarrestabile creatività. Bronzo, acciaio e ferro, scolpiti minuziosamente verso il limite di tolleranze microscopiche, tanto inferiori vista la necessità di fare il tutto in scala. Ne ha messi a punto e poi sfoggiati molti, negli anni, ciascuno ben documentato sul canale YouTube di Yesus Wilder (un figlio? Un nipote?) Facendo per ciascuna volta incetta di centinaia di migliaia di visualizzazioni, fino al record notevole di 8 milioni di persone che in qualche maniera, forse per sentito dire, hanno deciso che era giunta l’ora di vederla pure loro. La meraviglia senza tempo, l’insieme di componentistica perfezionata fino a un tale punto che, introdotta l’opportuna spinta, può tenere in equilibrio una moneta sopra il corpo della macchina(ina).
Ma il tempo scorre e sovrappone ai limiti presunti l’onda di un continuo e inarrestabile miglioramento. Così Patelo lo ritroviamo giusto la settimana scorsa, dopo un lungo periodo di preparazione, mentre rende pubblico il suo ultimo capolavoro; senza ombra di dubbio il modellino più sofisticato della sua carriera-dopo-la-carriera: 850 pezzi fatti a mano, 632 viti e bulloni e 2520 ore calcolate di lavoro, per una cilindrata finale di “appena” 47,5 cm, eppure, chissà quanti cavalli potenziali? Se soltanto si potesse prendere questo dispositivo ed inserirlo in un veicolo di qualche tipo, si giungerebbe assai probabilmente a nuove conclusioni sull’allometria applicata al mondo delle cose inanimate. Lo studio del rapporto che esiste tra dimensioni di un sistema, la sua forma e il modo in cui si muove: esiste infatti un limite, ben definito dalle leggi della fisica, su quanto può essere forte o veloce un piccolo organismo biologico; ma che dire, del resto, di una simile creazione, fine frutto del cervello e delle mani degli umani…

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Il respiro dei mutanti di alluminio

U-Ram Choe

Primo movimento: un insetto sfavillante giace sul mio comodino, attento a ogni dettaglio dell’ambiente circostante. Dal silenzioso flettersi delle sue elitre proviene un’inquietante luce ultramondana. Secondo movimento: nel vasto foyer dell’Art Station Foundation, a Poznan, pende un’astro preoccupante ed agitato. si presenta come “l’ombra nascosta della Luna” ma piuttosto rassomiglia all’interpretazione gigeriana di un ferroso bozzolo d’insetto, le cui costole s’ischeletriscono in un continuo susseguirsi di sussulti. Terzo movimento: il corpo morto di una foca, o di un cetaceo con il teschio stranamente tondeggiante, ansima in un lungo autunno della sua esistenza. Mentre tutto attorno si allarga una biancastra pozza dei suoi fluidi, dalle scaglie della bestia derelitta sorgono dei fusti vegetali, simili a capelli, le cui foglie si agitano spinte da una forza misteriosa. Ma l’aspetto complessivo, e questo è strano, non ha un che d’organico. Per lo meno, nel senso tradizionale di un simile concetto. Per così dire rappresenta, più che altro, la possibile futura evoluzione delle cose, come i meccanismi semoventi delle compagnie robotiche, che progressivamente tendono alla movimentazione di creature. Cani, cavalli, gatti e altri quadrupedi, soprattutto: perché non è facile, nel concepire ciò che ha una funzione, differenziarsi troppo da ciò che si conosce sufficientemente o troppo bene. Di quel campo ulteriore, immancabilmente, se ne occupano gli artisti.
U-Ram Choe è lo scultore coreano che costruisce, assieme alla sua equipe personale e in un laboratorio del quartiere Yuhnee-Dong di Seul, ogni sorta di mutante artificiale, la realizzazione puramente meccanica di ciò che sogna al volgere del giorno, oppure nel profondo delle notti senza stelle o interruzioni. Le sue sculture cinetiche, magistrale unione di motori, forme e processori, nascono dall’incontro tra una completa preparazione tradizionale e la più sfrenata applicazione delle tecniche di prototipazione moderna, ivi inclusa la progettazione informatizzata e successivo taglio dei materiali, o purissima estrusione, tramite macchine industriali. Eppure, nonostante questo, l’aspetto finale delle sue opere è volutamente sorpassato nell’aspetto, tanto arcaico da richiamarsi a quell’estetica, fatta d’ingranaggi ambrati e grossi dadi di raccordo, che recentemente ha preso ad essere inserita nel ramo filologico dello steampunk. Frutto della concezione di una storia alternativa: cosa sarebbe successo, subito dopo la rivoluzione industriale, senza qualche geniale mente avesse messo assieme il primo accenno di computer, macchina sapiente in grado di risolvere i problemi…O soprattutto, passo inevitabile e ulteriore, se una scienza arcana fosse nata a margine di quell’àmbito per noi perduto, degli automi fatti solamente per stupire, dare un senso a filosofiche disquisizioni su cos’è la vita, dove inizia e a cosa porta, prima o poi!?

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Questa carpa vale quanto una Ferrari

Koi Fish

Nella favola numero 173 di Esopo, un taglialegna lascia accidentalmente cadere la sua ascia dentro a un fiume e poiché tale strumento, visto lo stato critico delle sue finanze, era per lui sia indispensabile che impossibile da rimpiazzare, si siede, piange lacrime tardive e si dispera. Ma il dio Hermes (che i romani chiamavano Mercurio, oppure meno formalmente il Messaggero) casualmente si trovava a fare il bagno in quelle acque, e vista l’imprevista occorrenza di una greve e rugginosa lama presso il ruvido fondale, decise di mettere alla prova quel distratto abitante del consorzio naturale. “Ascoltami, umano” Uno può facilmente immaginarsi la mano perfetta che emerge dall’acqua con un manico ben stretto tra le dita, mentre una voce roboante piega gli alberi nella foresta: “Sei tu che hai perso questa…Cosa?” A riflettersi sui flutti turbinanti, un’ascia interamente fatta d’oro. Secondo la tradizione, se a quel punto il taglialegna avesse detto di si, non avrebbe ricevuto nulla e sarebbe, anzi, stato punito dall’ira del dio, infastidito dall’interruzione delle sue abluzioni. Ma poiché costui l’uomo, che era pur sempre l’immagine dell’onestà o forse della furbizia, restituì un cenno chiaramente negativo, la mano divina ritornò ad immergersi sott’acqua. Per tornare poco dopo in superficie: “E che mi dici di quest’ascia, invece, d’argento?” La luce del sole, amplificata dal filo splendido del mirabile implemento, tendeva a riflettersi in 380 direzioni: “Nossignore, niente affatto, non è questa, la mia.” Così, d’un tratto, egli aveva superato l’imprevista prova. Il kami dei greci risalì la riva e ancora grondante, un gran sorriso sopra il volto, porse al taglialegna la sua vera ascia, assieme alle altre due.
Stranamente, o forse niente affatto, questa favola di un altro mondo è particolarmente cara ai giapponesi. Si potrebbe quasi pensare ingenuamente, non conoscendo l’originale e approcciandosi tramite il punto di vista moderno, che l’avessero inventata loro. Nella versione che ricompare, lievemente modificata, in innumerevoli videogiochi, manga ed anime, al posto di Hermes viene messa “la grande dea” un expy, o ersatz che dir si voglia, meno spiccatamente sacrale dell’ormai arcinota Amaterasu, simbolo vivente dell’astro solare, personificazione shintoista del ruolo degli uomini nell’universo. Mentre al posto dell’ascia, mille alternative: c’è talvolta uno specchio, c’è una pietra, c’è la spada, l’arco oppure addirittura il cellulare. Qualsiasi oggetto caro al suo proprietario, che riavendolo indietro grazie all’intercessione sovrannaturale, non solo riesce a dimostrare la sua onestà. Ma scopre, assieme a tutti noi, che la ricchezza può manifestarsi in modi e tempi inaspettati. Un concetto estremamente utile a coloro che applicano la propria sapienza alla pratica raffinata di allevare la carpa koi. Argento, oro e Platinum Ogon!
Avvenne infatti, a quanto pare nei remoti tempi della dinastia cinese dei Song, che un’imperatrice non meglio definita (è una vicenda quasi leggendaria) si fosse appassionata nel collezionare un certo tipo di particolari pesciolini, rigorosamente appartenenti alla famiglia dei Ciprinidi, piccoli nuotatori per una bizzarra e inspiegabile mutazione biologica tendevano ad una tonalità di scaglie fra l’arancione e il giallastro. La quale, con un notevole balzo di fantasia, poteva essere definito color-oro. Seguendo immediatamente l’esempio della sovrana (vera e propria trend-setter dei suoi tempi) i frequentatori della corte iniziarono ad acquistare grandi quantità di quella stessa specie di animali, ma poiché il giallo era da tempo immemore un simbolo della sovranità, i loro pesciolini tendevano prudentemente al vermiglio, grazie ad un sapiente incrocio tra due specie di carpa: la cruciana e la prussiana. Così nacque, nel giro di appena qualche generazione, il sempiterno pesce rosso. Ma le cose belle, nei secoli remoti, hanno pur sempre teso a crescere in maniera incontrollata. E non può esserci un’ascia d’oro, senza un’altra d’argento, platino e perché no. A macchie rosse e bianche, con qualche vistosa macula d’inchiostro sumi sopra il dorso fatto a scaglie…

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