La super-sfera che ha trovato un quantum di sapienza nella vastità del sottosuolo canadese

Scienza oltre ogni limite, lo studio delle verità nascoste. Uno sguardo gettato, sulla base di un bisogno, oltre il sottile velo che divide l’apparenza fisica dalla più profonda sostanza dell’Universo; il che non è possibile, né in alcun modo praticabile, senza l’impiego delle giuste conoscenze pregresse. Che comportano l’impiego di strumenti. Apparati simili a una cosa come questa: 2092 metri sotto la riserva dei nativi americani di Atikameksheng, appartenuta sin da tempo immemore alla nazione di Anishinabek, l’uomo bianco ha scavato un profondo e contorto reticolo di gallerie. La ragione è presto detta: scovare le preziose riserve di nickel, rame, metalli del gruppo del platino (PGE) al fine di portarli alla luce del Sole, con immediato ed ottimo guadagno da parte del popolo di superficie. Una ragion d’essere del tutto sufficiente, almeno finché il fisico dell’Università della California Herb Chen non pensò di porsi un interrogativo in merito alla natura di quell’astro stesso che ci da la vita. E parlandone col suo esimio collega George T. Ewan, professore presso l’Università di Queens sulle rive del grande lago Ontario, i due non giunsero a una conclusione in grado di approfondire notevolmente l’intera faccenda: “Che ne dici se costruissimo un laboratorio, nelle profondità della Terra. Dove nessun raggio cosmico, né radiazione estranea, possa interferire coi rivelamenti. Riuscendo finalmente a catturare l’ineffabile, inconoscibile scintilla subatomica della Realtà?” Questa l’idea, forse non proprio queste le parole, di un discorso in grado di ottenere un finanziamento di 73 milioni di dollari canadesi dall’ente preposto alla ricerca scientifica nazionale. Per ampliare ed attrezzare l’area più remota dello scavo di Sudbury una sfera geodetica di 17,8 metri diametro, riempita con 8.000 tonnellate d’acqua, di cui 1.000 del tipo ricco di deuterio (pesante) normalmente usata al fine di sollecitare il fenomeno della fissione nucleare. Oggetto sulle pareti interni del quale, neanche a dirlo, campeggiavano 9.456 tubi fotomoltiplicatori da 20 cm di diametro ciascuno. Uno dei più sofisticati, nonché sensibili, strumenti utili a rivelare la luce mai creati dall’uomo.
Un approccio estremamente valido e diretto, se vogliamo, ad uno dei più grandi interrogativi nati durante il corso di quest’ultimo secolo di scienza. Quando verso la fine degli anni ’60 presso un’altra miniera, quella d’oro ad Homestake nel Dakota del Sud, Raymond Davis e John Bahcall dell’Università della Carolina trasportarono a 1478 metri di profondità 380 metri cubi di tetracloroetene, ingrediente comunemente usato nella pratica del lavaggio a secco. Al fine di controllare, per un periodo lungo mesi se non anni, quanti e quali atomi del cloro contenuto in questa sostanza si fossero trasformati in un isotopo radioattivo del gas argon. Per l’effetto del passaggio di quelle particelle infinitesimali generate dai processi di decadimento all’interno del nucleo atomico, che per primo Enrico Fermi stesso, durante gli anni trascorsi presso il celebre istituto di via Panisperna a Roma, giunge a definire in una sua celebre conferenza del 1932 come “Piccoli neutroni, ovvero… Neutrini” sulla base delle ricerche precedenti del fisico austriaco Wolfgang Pauli, il quale in seguito adottò anche lui tale nomenclatura. Mentre già il grande scienziato italiano, che pensava di trasformare lo studio di quel concetto nel fondamento stesso delle sue ricerche sul decadimento beta, si sarebbe ritrovato a dare piuttosto il suo contributo più duraturo ad altre branche della fisica, con maggiori e più immediate applicazioni in quel particolare periodo storico di gravi conflitti. Ma il seme era stato gettato, di una particella impossibile da osservare, ed a tal punto priva di massa da essere influenzata unicamente dalle “forze nucleari deboli” e l’attrazione gravitazionale. Qualcosa che poteva attraversare, in altri termini, questo intero pianeta come un fantasma. A meno di essere individuata tramite un approccio tanto complicato, ingegnoso e complesso. Ma il problema presentato dall’esperimento di Homestake, quando tutto questo fu finalmente possibile di distanza di oltre un trentennio, sarebbe stato niente meno che terrificante. Poiché per la piccola, minuscola quantità di neutrini rilevata dall’osservatorio sotterraneo, pari a circa un terzo di quelli previsti, una soltanto di due eventualità apparve immediatamente possibile: primo, che ogni cosa che sapevamo sulla fisica era del tutto sbagliata. O secondo, che il nostro Sole stesse morendo molto più velocemente, e irrimediabilmente, di quanto avessimo mai temuto…

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Viaggio fantastico nella fabbrica del sushi robotizzato

“Se potessi riportare indietro una cosa soltanto…” Disse il cuoco Hanaya Yohei, rivolgendosi all’essere di pura energia che l’aveva trasportato 200 anni nel futuro attraverso il magico portale sotto il ponte di Ryōgoku, “Sceglierei una di queste. Si, si. La mia vita sarebbe molto più semplice allora.” Le spesse pareti della fabbrica isolavano quel luogo dai rumori impressionanti della metropoli, le carrozze senza cavallo, la folla niente meno che spropositata. Neanche l’ombra di un “altoparlante” o “televisore”, i meccanismi cacofonici di cui la sua memoria aveva all’improvviso preso in prestito la conoscenza, dopo un lampo di luce proveniente direttamente dal bulbo oculare sinistro della creatura, ma soltanto quel ripetitivo suono dalla semplice cadenza: ca-claak, ca-claak, ca-claak! Ah, fantastiche meraviglie di un pensiero filosofico distante! La cosa antropomorfa, a quel punto, fece vibrare lievemente i suoi contorni privi di una netta linea di distinzione, mentre il suo naso si allungava e assottigliava in modo esponenziale, cominciando ad assomigliare alla pericolosa lama di una katana. E con un rombo crepitante, scarsamente riconoscibile come una voce una umana, declamò: “ACC-OR-DATO”. Sparisce Tokyo, torna la cara vecchia Edo, lasciando l’uomo col kimono a strisce in mezzo ad una strada affiancata da negozi, venditori ambulanti, ogni possibile familiare manifestazione del commercio all’epoca del tramonto dei samurai. Yohei si guarda dietro, e lo vede: sopra un carretto adatto al traino muscolare, un orpello abbastanza ingombrante da renderne complesso lo spostamento. E sotto una coperta di paglia, uno di quei pratici, magnifici, del tutto anacronistici “robot”.
È stato fatto oggetto di lunghe disquisizioni, il quesito su chi fosse stato, e in quale epoca, il primo uomo in grado d’inventare quello che i moderni sono soliti chiamare 酸し, o per meglio dire sushi, che poi altro non significa che “[gusto] acido”, per l’effetto delle sostanze usate per favorire la conservazione del pesce oltre un tempo eccessivamente breve. Il che non era sempre stato il metodo in effetti preferito, a partire dall’epoca remota del Neolitico, sia giapponese che continentale, durante cui le popolazioni dell’Estremo Oriente avevano imparato a preservare il proprio cibo facendolo fermentare nel riso, con una pratica che in queste lande avrebbe preso il nome di narezushi (馴れ寿司 – letteralmente, pesce salato) almeno fino all’invenzione durante l’epoca del primo shogunato (Muromachi – 1336-1573) non fu scoperto l’effetto trasformativo esibito dai batteri gram-negativi sul vino di qualsiasi provenienza, tale da riuscire a trasformarlo in una magica sostanza in grado di sostituirsi alla fermentazione: l’aceto. Nacque in questo modo l’oshizushi (押し寿司 – sushi pressato) tipico della città di Osaka, per la prima volta in grado di prendere forma dall’impiego di uno stampo in legno di forma rettangolare. Ma se dovessimo associare ad una singola persona questa tipica pietanza, oggi tanto rappresentativa dell’intero arcipelago giapponese, costui sarebbe senza ombra di dubbio l’innovatore gastronomico della capitale che tutti chiamavano Yoshi, il primo ad inventare il nigiri (握り) piccola polpetta di shari (しゃり – riso appiccicoso) con sopra un pezzetto di pesce o altro cibo di origini oceaniche, preferibilmente proveniente dalla vicina baia di Edomae. Frutto diretto di un gesto molto umano ovvero l’appallottolamento, di una malleabile sostanza non del tutto newtoniana: il cereale cotto e candido come la neve che proviene dal fondo fertile di un campo allagato.
E se invece proprio il nostro amico avesse posseduto, in un qualche possibile universo alternativo, l’assistenza sovrannaturale di un magnifico strumento, la tecnologia frutto di un anacronismo? Troppo perfetti avrebbero potuto risultare i piatti che venivano serviti dentro il suo ristorante. Eppure, proprio per questo, ancor più straordinariamente popolari…

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L’eleganza dell’ultimo edificio creato dal maestro del bambù vietnamita

Nell’odierno schema degli stili architettonici sfruttati attorno al mondo, alcuni costituiscono la conseguenza finale di molti anni di ricerca estetica, altri la realizzazione di un ideale atto a perseguire determinate tipologie di obiettivi, in merito ad utilità, funzionamento e prestazioni degli edifici. Ma non è particolarmente semplice, talvolta, distinguere tra l’uno e l’altro principio operativo, per il tramite di quanto nasce, cresce e si trasforma dalla penna di determinate figure professionali. Uomini e donne che hanno fatto della loro opera una tangibile dichiarazione d’intenti, nata da un sincero desiderio di riuscire a migliorare le cose. Architetti come il celebre Vo Trong Nghia, più volte premiato dalle testate internazionali e che ha costituito un punto di rilievo nella progressione di questi ultimi anni per quanto concerne lo stile modernista ed in modo particolare la corrente contemporanea della cosiddetta architettura “verde”. In cui non è soltanto la sostenibilità dei mezzi e i materiali farla da padrone, ma anche un’effettiva ricerca di quello che lui stesso definisce l’ancestrale principio dell’animo umano. Ovvero in altri termini, un modo d’interfacciarsi con tutto ciò che ha origini di tipo naturale che sia in ultima analisi scevro delle ingombranti sovrastrutture moderne, proprio perché coadiuvato dall’istinto implicito che tende a guidarci verso un qualche tipo di risoluzione apparente.
Vagamente simile alla forma di un’antica longhouse vichinga, edificio lungo e stretto costituito da una sola stanza, la nuova Club House “Casamia” che sorge presso la foce del fiume Thu Bon nella città storica di Hoi An, non troppo lontano dal centro geografico di questo paese peninsulare, invita l’occhio dei passanti e sguardi tanto maggiormente approfonditi, tanto più si riesce a cogliere dall’esterno il profondo significato della sua notevole commistione di stili. Con il tetto in paglia costruito secondo lo stile tradizionale, che già basta a distinguerla dagli edifici circostanti in cemento e metallo, i 1.600 metri quadri della casa e punto di ritrovo comunitario si trovano racchiusi, alle due estremità più corte, da enormi vetrate in grado di lasciar entrare una notevole quantità di luce. Soluzione utilizzata anche sui lati, con una serie di aperture inframezzate da flessuosi pilastri acuti, la cui forma e cadenza sono state concepite per riprendere la naturale curva flessuosa della locale Nypa fruticans, unica palma facente parte del raggruppamento palustre delle mangrovie. Ma è soltanto avvicinandosi, ed entrando da una delle numerose porte laterali apribili per ventilar l’ambiente, che il visitatore potrà giungere a comprendere realmente la natura concettuale di questa notevole costruzione; il cui elemento primario non è un tipo qualsiasi di semplice legno, bensì quello risultante dalla complicata processazione della più alta e svettante erba del pianeta Terra, appartenente alla famiglia delle Poaceae, sottogenere Bambusoideae. Così strettamente associato alle molte culture dell’Estremo Oriente quanto spesso frainteso, in assenza di conoscenze pregresse sull’effettivo significato metaforico e folkloristico derivante dalla sua trasversale presenza. Nella pittura, in letteratura e perché no, anche nell’effettiva costruzione di strutture semi-permanenti, come impalcature, spalti per il pubblico e altri orpelli utili alla fruizione di un qualche tipo di transitorio evento. Questo perché il zhu, come lo chiamano in Cina, o take presso il distante arcipelago giapponese, risulta essere ancor più di altri tipi di legno oggetto di attacchi distruttivi da parte dei parassiti, il che tende a farlo durare non più di 4-5 anni senza un qualche tipo di costoso trattamento chimico dell’Era moderna. O in alternativa l’applicazione di un particolare sistema ben noto fin dall’antichità del Vietnam, consistente nel raggiungimento di una marcescenza parziale all’interno di una quantità d’acqua, finalizzata a privare il legno di tutti i suoi oli e il contenuto in grado di attirare un tale genere d’attenzione indesiderata. Ma anche seccando il legno ed affibbiandogli un odore non propriamente gradevole, a meno di sfruttare il vantaggio offerto da un ulteriore, quanto innovativo passaggio…

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La nave che permette di restare asciutti mentre si cammina sul fondo del Reno

E così mentre si spostava lungo il pascolo dei propri luoghi ombrosi, la creatura del mondo di Sotto avvertì il presagio di un evento nefasto. Come un’ombra sopra il suo destino, testimoniata in modo sinestetico dal suono poderoso di un continuo rombo fuori dal suo contesto. Rumore come quello che in moltissime diverse circostanze, aveva avuto già modo di udire, meditando sulle molte implicazioni di una tale anomalia, che poi tanto anomala non è mai stata. Non per niente si usa dire “muto come un pesce” mentre delle creature del mondo di Sopra, nessuno avrebbe mai potuto immaginare di affermare la stessa cosa: lunghi, vasti, lesti bastimenti, che correndo sopra l’onde alzavano gli spruzzi via dal fiume, percorrendolo per dar la caccia a questo o quell’obiettivo. Eppure questa volta, percepì il pinnuto nuotatore, c’era qualcosa di profondamente diverso. Poiché il grande Leviatano, piuttosto che spostarsi gradualmente altrove, si era fermato in un singolo luogo. Per andare in cerca, usando la sua propaggine meccanizzata di un QUALCOSA. Ora egli non avrebbe mai potuto pretendere di capire, con il suo cervello dedicato a una limitata serie di gesti, l’effettiva missione attribuita dagli umani ad una tale macchina giganteggiante tra le acque del suo vicinato. Pur immaginando cosa, d’altra parte, avrebbe potuto finire per capitare. Nulla di buono, come al solito… E mentre pensava questo, l’arto rumoroso riempì i margini superiori del suo campo visivo. Con occhi bulbosi e prossimi a sfuggire dalle orbite, il pesce osservò le mura curvilinee della sua nuova metallica prigione. “Poco male, poco male” pensò quindi; siamo a quasi 600 anguille di profondità, ben presto dovrà tornare da dov’è venuto. Quindi udì qualcosa di assolutamente inaspettato: voci, chiacchiericcio nell’acuta lingua di coloro che vivono Sopra. Essi erano a poca distanza, tanto che avrebbe potuto balzare fuori dall’acqua e toccarli… Fuori… Dall’acqua? Surreale, terrificante ed impossibile visione. Il fondo stesso del suo fiume stava adesso denudandosi, mentre il mondo stesso appariva prossimo a un drammatico capovolgimento. Poco a poco, i confini dell’acqua presero ad allontanarsi. Granchi impazziti correvano da ogni parte. Come una vittima circostanziale del guado d’antichi Profeti, l’acquatica creatura si trovò improvvisamente a boccheggiare. Fuori dall’acqua, proprio dove l’acqua, fino a quel momento, c’era sempre stata!
Secoli dei secoli dei secoli. E millenni. Per un simile periodo, uno dei fiumi più importanti d’Europa ha continuato a scorrere indefesso fino al mare. Draghi hanno abitato le sue anse dalle forme serpentine. Popoli leggendari, nascosto il proprio oro sotto il terreno friabile delle antiche foreste ripariane. Eppur niente di simile, fino all’inizio dell’epoca moderna, aveva mai potuto capitare: che un titanico bicchiere fosse fatto scendere fino alle pietre e i sedimenti del fondale. Per “risucchiarne” (ma forse il termine giusto e spingerne) via quel fluido che più d’ogni altro caratterizza qualsivoglia percezione universale del concetto di Fiume, permettendo a chi non ha le branchie di poggiarci facilmente le scarpe. Il suo nome è dunque tauchglockenschiff Carl Straat, che poi vorrebbe dire “nave con campana da immersione” riuscendo a costituire un chiaro riferimento a quell’esperimento del mondo antico che per primo seppie compiere Archimede di Siracusa nel III secolo a.C, quando apparve chiaro come aria ed acqua, all’interno di uno spazio chiuso che si stringe da un lato, tendessero a premere intensamente l’una contro l’altra. Senza mai riuscire, in un tempo rilevante, a mescolarsi. Casistica abbastanza priva d’applicazioni all’epoca delle poleis greche, ma capace di trovare validi propositi d’impiego una volta compiuto un rapidissimo balzo in avanti fino alle tecniche metallurgiche del XVI secolo d.C. quando Guglielmo de Lorena e Francesco de Marchi, archeologi degli abissi, ne costruirono il primo esempio a dimensione umana per andare in cerca di un relitto sotto le profonde acque del lago di Nemi. Primo timido approccio destinato a solamente a migliorare, attraverso validi perfezionamenti e soprattutto grazie all’invenzione della macchina vapore in Epoca Vittoriana, per la prima volta capace di pompare e ripristinare l’ossigeno all’interno della campana mano a mano che veniva consumato. Mentre di pari passo, in forza delle semplici ragioni di contesto, aumentavano in maniera esponenziale le applicazioni. Il che ci porta, con tutta la rapidità di una cascata lunga molti secoli, fino alla questione della qui presente macchina acquatica di un teutonico ingegno procedurale…

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