Toc, toc. “Chi è?” Sono Mosso. Mare Mosso. Fatemi passare, oppure… Un turbine di spruzzi che ricoprono mura, finestre, ogni singolo centimetro della veranda. Infissi che insistentemente scricchiolano, per assorbire il duro impatto delle onde alte fino al secondo piano. “Siamo pronti, fai pure del tuo peggio.” Risponde il popolo in solenne attesa. Non esiste la paura se la mente resta calma in ogni situazione, superando il principio del dubbio mediante l’impiego di espedienti concettuali ed associazioni finalizzate ad uno scopo. Ad esempio: Terra=ferma, cognizione totalmente arbitraria che permette agli uomini di dar forma, in ogni luogo, alle proprie soluzioni abitative immanenti. Niente di Strano, giusto? Una casa coloniale assemblata coi metodi moderni, materiali solidi, fondamenta profonde, sarà destinata a durare un minimo di… 60, 90, 120 anni? Certo, ma potrebbe diventare un sottomarino. Ed in fondo, chi può dirlo? Siamo in America. Dove tutto ciò che è VERAMENTE antico è stato recintato da secoli all’interno di una riserva. Mentre la lingua degli antenati sopravvive unicamente in alcuni toponimi, come nel caso del sobborgo della grande città di Boston identificato con l’inusuale termine di Scituate, una versione modificata del significante “indiano” Satuit, originariamente usato per riferirsi al concetto di un gelido ruscello. 18.000 abitanti di classe medio alta, molti di loro con seconde abitazioni, sopraggiunti nell’ultimo paio di decadi all’esaurirsi dell’antico ruolo produttivo dell’insediamento, fondato nel 1628 da un gruppo d’immigrati provenienti dall’Inghilterra, che avevano scoperto qualcosa di potenzialmente assai redditizio. Ovvero quella quantità di rocce sulla spiaggia ricoperte della fitta peluria vegetale largamente nota come muschio irlandese o carragheen (Chondrus crispus) un’alga tipica delle acque temperate di entrambe le coste atlantiche. Largamente usata, in forma sminuzzata e semi-liquida, in qualità di chiarificatore della birra ed addensante nella preparazione del pudding, oltre che ingrediente in una larga varietà di piatti trasportati fin qui dal vecchio continente. Fino alla successiva integrazione nei moderni processi dell’industria, capace di fare della carragenina un addensante usato nei dentifrici, le creme per il viso e persino lo yogurt. Così che ben presto la popolazione aumentò fino all’apice del XIX secolo, grazie a alla crescente quantità di abitanti dalla discendenza pari all’alga (tanto che Scituate è stata definita, in precedenza, la città “più irlandese” dell’intero New England) e praticanti di una sottile arte, che consisteva nell’impiego di un lungo rastrello utile a staccarne redditizie quantità da mettere sopra le proprie piccole barche a remi.
Furono gli anni della grande crescita economica, quando l’imprenditore Daniel Ward, nel 1847, diede un avvio formale a questa redditizia industria, assumendo ampie fasce di popolazione rimaste colpite dagli anni precedenti di carestia e crisi economica, permettendo alla città di crescere in tutte e quattro le direzioni cardinali. Inclusa quella fronte-oceano, dove in un momento imprecisato ci si preoccupò di costruire, molto appropriatamente, una difesa muraria dalla furia del moto ondoso pressoché costante. Ma simili soluzioni, si sa, contribuiscono comunque all’erosione della costa ed è già nei resoconti del primo Novecento, che si trovano notizie di allagamenti della strada principale dell’insediamento, tra cui in modo particolare l’importante officina del fabbro, che dovette essere ricostruita più volte. Eppure niente, a quei tempi, avrebbe potuto preparare gli abitanti al destino futuro della loro proficua penisola di calma tra i caotici bisogni del mondo moderno…
costa
Lungo è il baffo dell’uccello che compete contro quelli della sua signora
“Mi stai prendendo in giro! Ma che razza di pinguino è quello?” Esclamò Lauren, all’indirizzo del capannello che costituiva l’animo e il significato della festa. Uno strano compleanno, il mio, che avevamo scelto di trascorrere sbarcando presso la Isla Lobos de Tierra, situata a 19 Km dalla costa del Perù. Iniziativa di dubbia legalità, dato lo status di santuario protetto popolato da una ricca varietà d’uccelli, molti dei quali soggetti a un rischio d’estinzione incipiente. Ma non lui, almeno non troppo a breve! Pensai, mentre impugnando il binocolo d’ordinanza per chi naviga in mare, spostavo lo sguardo dalla compatta barca da diporto verso l’entroterra distante, oltre l’alta montagna di guano. Per scorgere la piccola figura color grigio d’ebano, alta circa 40 cm, incorniciata tra le rocce proprio in mezzo alle sagome riconoscibili dei pinguini di Humboldt. Un uccello dal becco arancione scuro, la cui sagoma, persino ad una simile distanza, presentava almeno due tratti distintivi degni di nota: piccole macchie gialle sotto gli occhi, ed a partir da quelle, lunghe piume candide e arricciate, simili per forma ai famosi baffi dell’artista Salvador Dalì. “È una sterna, mia cara, della specie più particolare e riconoscibile della sua intera famiglia. Larosterna inca, uccello unico al mondo!” Mentre tentavo di metterlo a fuoco nella migliore possibile, il volatile dall’aria elegante si alzò d’un tratto in volo, puntando dritto verso il tratto di mare diametralmente opposto alla nostra posizione. Con poche agili falcate delle sue ali di gabbiano, passò sopra le nostre teste, tuffandosi agilmente in mare. Il cerchio, per un piccolo abitante con le pinne dell’azzurro ed infinito mare, a quanto sembrò in quel momento, si era compiuto…
Le leggende del popolo degli Inca, fondatore di uno dei più vasti imperi pre-colombiani, parlano di un creatura leggendaria simile ad un drago delle civiltà europee, chiamata Amaru. Esso aveva due teste, una d’uccello e l’altra di puma, con ali piumate ed una lunga coda di serpente. Ma soprattutto, l’abitudine insolita di vivere all’interno di caverne sotterranee, occultato agli occhi dell’umanità incostante, finché ritornava per portare in essa il rammarico e il timore nei confronti degli Dei. Caratteristica, quest’ultima, che possiamo ritrovare nello stile di vita della più famosa terna sudamericana, portata dal suo istinto a nidificare in terra nei pertugi più nascosti del vicino entroterra sudamericano, a patto che sia ancor possibile sentire il rumore del mare. Il che la porta, tanto spesso, ad approfittare proprio nelle tane scavate tra il terriccio e il guano ad opera dei più imponenti pinguini. Sebbene siano tra i più grandi e voraci rappresentanti della loro famiglia, necessitando di un continuo accesso ai branchi di anchovetas, le anguille Engraulis ringens oggi tanto spesso oggetto di pressione ad opera dell’industria della pesca contemporanea. Il che ha contribuito, di contro, a ridurre progressivamente l’habitat inerentemente adatto alla sopravvivenza continuativa di questi uccelli non particolarmente inclini alla migrazione, fino ad alcune specifiche isole presso il lato del Pacifico dell’America Meridionale. Col che non voglio dire che ve ne siano particolarmente pochi, allo stato corrente delle cose, vista la popolazione stimata dalla IUCN attorno ai 150.000 esemplari, capaci di donare una qualità riconoscibile al verso estremamente udibile di questa specie piena d’energia. Che la letteratura scientifica ama paragonare al miagolìo di un gatto, nonostante alle mie orecchie suoni assai più simile a un’orchestra infernale…
Alto faro spagnolo visitato dall’artista che colora ogni cosa sul suo cammino
Svegliarsi all’improvviso per vedere un qualche cosa di diverso. Come una scintilla, il fuoco, l’ultima propaggine dell’arco iridato. L’arcobaleno che converge nella torre, a implicito memento di un ritorno. Succede al termine di un lungo periodo dedicato alla meditazione, di riemergere dalle profonde stanze per riuscire ad apprezzare, finalmente, una diversa prospettiva sulle molte difficoltà disposte lungo gli alterni sentieri dell’esistenza. Così quello che si presentava in precedenza come candido e incolore, stagliandosi contro le nubi di un cielo qualche volta in tempesta, può trasformarsi nell’insolita tela pronta per ricevere un apporto di trasformazione, profonda e inevitabile, a pilastro che sostiene l’alta volta del soffitto dell’Arte. Arte, immagine, pubblicità, occasione (di farne). Ovvero quel frangente che può meritarsi di trascendere la semplice definizione categorica, ponendosi ad esempio di un potente presupposto di accrescimento. Sull’inizio di un decennio forse tormentato (o almeno, così sembra) e lungo il paesaggio erboso ma non sempre verdeggiante della costa cantabrica, verso i confini di quella parte d’Europa che prende il nome di Spagna, affacciata sull’Oceano Atlantico settentrionale. Un luogo battuto dalle antiche tempeste che in un’epoca lontana, a tante navi costarono l’estremo prezzo del naufragio, almeno finché qui trovaron posto un certo numero di fari per illuminare il cammino, tra cui quello più recente si trova presso il capo Ajo e venne concepito originariamente nel 1907, sebbene ci vollero 23 anni perché le autorità regionali, trovando i fondi e il desiderio, riuscissero finalmente a completarlo. Ed altri 90 affinché il graffitaro e scultore di fama internazionale originario della vicina città di Santander, Óscar “Okuda” San Miguel Erice, si trovasse bloccato in patria per un periodo sufficientemente lungo da poter dedicare i soli tre giorni necessari a trasformarne completamente il volto.
Per un’iniziativa di derivazione incerta ed effettuata dietro un compenso non particolarmente chiaro (probabilmente per evitare eventuali critiche) facendo seguito alla quale, l’artista quarantenne si è arrampicato sui familiari ponteggi, per portare a termine l’opera temporanea intitolata Infinite Cantabria. Che per quanto concerne l’immagine superficiale affine ad uno slogan, si presenta come la sua familiare realizzazione fatta di triangoli e figure d’animali poste in comunicazione tra di loro, con l’aggiunta di alcune ancore che si richiamano all’ambiente marinaresco, sebbene l’effettiva collocazione ed il messaggio potrebbero collocare questo ultimo intervento tra i più importanti nella già lunga carriera del creativo. Visto come l’occasione costituisca, nei fatti, l’opportunità di rendere omaggio alla terra natìa ed alla particolare fauna delle foreste miste cantabriche, con figure che alludono all’orso, il lupo ed il capriolo di questo habitat, con l’ulteriore aggiunta ben contestualizzata del profilo di un gabbiano in pensierosa attesa. Il tutto comunque concentrato dalla parte rivolta verso l’entroterra lasciando l’edificio relativamente monocromatico per quanto sia osservabile dal mare antistante, al fine di rispettare le leggi e regolamenti per gli ausili alla navigazione in ambito costiero. Verso l’ottenimento di un prodotto finale che si è già dimostrato utile ad attirare 1.800 visite nel singolo giorno della sua apertura, un risultato non da poco considerato la posizione remota e l’attuale situazione spagnola della pandemia, sebbene come spesso capiti per le opere di questo artista, non siano mancate le consuete critiche di un particolare mondo politico, per l’implementazione ritenuta inappropriata degli schemi espressivi, da loro ritenuti ancora oggi d’avaguardia, della Pop Art…
Cultura e religione nella terra dei vulcani di fango
Possente, inarrestabile flusso che proviene dal profondo, spinto innanzi dal potere del sottosuolo. Candida emanazione che fa seguito all’annuncio: “Gioia, giubilo, trionfo! Sta eruttando il Chandragup.” Poiché fredda è questa sua colata, ed incapace di arrecare danno alle persone. Oppure al tempio che da tempo immemore, sorge all’ombra delle sue pendici. Hinglaj, questo il suo nome, a partire dal colore (rosso acceso) dei pigmenti che ricoprono la pietra circostante. Un luogo di raccoglimento posto al termine di un viaggio, cui fa seguito l’evento più importante: arrampicarsi sulla conica montagna, sotto il sole ardente del Balochistan, regione sulla costa pakistana, con il fine di chiamare a se la l’attenzione della divina Sati, un tempo stata la consorte di Shiva, grande distruttore cosmico della Trimurti. Colei che più di ogni altra può comprendere le debolezze che ci affliggono, essendo morta suicida per il solo disamore di suo padre, poco prima che altri esseri del pantheon indù, temendo la furia ed il dolore del suo vedovo marito, ne smembrassero spietatamente il corpo, disseminandone i resti in diverse regioni della Terra. Luoghi come questa regione desertica di Makran, ove la testa di costei, precipitando fino alle regioni più profonde dell’esistenza, avrebbe scatenato una tempesta geologica che dura tutt’ora. Come altri rilievi appartenenti a questa specifica categoria, l’interessante “Vulcano della Luna” espleta la sua funzione come valvola delle pressioni sotterranee soprattutto in forza degli spostamenti gassosi in senso verticale, che risalendo il suo camino trascinano una certa quantità di componenti minerali e acqua, generando in questo caso una commistione di colore biancastro dalle caratteristiche sostanzialmente innocue, eppure giudicate molto significative. Poiché si intende che il pellegrino, una volta completato il suo lungo e preferibilmente faticoso viaggio, compia le sue offerte di cibo e preghiere tenendo il proprio sguardo fisso sul cratere ribollente in vetta, nella speranza che esso espliciti la propria ribollente inquietudine in maniera tale da implicare il sommo perdono della Dea. Questa regione dal clima particolarmente inclemente, famosamente descritta da un inviato militare del califfato Rashidun (643 d.C.) come “Terra in cui il terreno è roccioso; l’acqua scarseggia; i frutti sono incommestibili; gli uomini tradiscono; niente è chiaro e la virtù ha poco valore […]” ha invece assunto attraverso l’epoca un valore sincretistico, attraverso l’alta considerazione da parte delle tribù locali di religione islamica, pronte anch’esse a visitare occasionalmente il santuario di Hinglaj. In epoca moderna, del resto, l’area del Balochistan circondata da oltre 80 vulcani di questa natura ha più volte dimostrato la propria furia nei momenti peggiori, tra cui il terremoto del 1935, a seguito del quale un rilievo a nord di Quetta continuò ad eruttare il suo freddo contenuto per un periodo di circa 9 ore continuative. O quello ben peggiore, in termine di pericolosità e perdite di vite umane, verificatosi nel 1945 con epicentro nell’area antistante del Mar Arabico, con conseguente tsunami dell’altezza di 13 metri che finì per costare la vita a 4.000 persone. Attività sismiche meno significative hanno inoltre l’abitudine di verificarsi continuamente al confine tra terra ed acqua, portando alla rinomata comparsa temporanea di un certo numero di isole di fango tra cui l’ultima del 1999, quella di Maran, venne sommersa soltanto un anno dopo per tornare nuovamente nel 2010. A solenne testimonianza degli inconoscibili misteri, che ancora resistono al di sotto del transito dei nostri piedi immanenti.