La ruggine sommersa di Vanuatu, strana eredità dello Zio Sam

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La più grande spinta allo sviluppo economico e delle infrastrutture dell’area del Pacifico la subì probabilmente l’isola di Espiritu Santo, nell’arcipelago delle Nuove Ebridi a largo dell’Australia orientale. Nel giro di pochi mesi, quella che era una terra emersa per lo più rurale, presso cui prosperava ancora un’economia tribale basata sulla sussistenza, l’allevamento di bestiame e la coltivazione della pianta del Taro sotto l’autorità coloniale di Francia e Inghilterra, guadagnò all’improvviso 3 ospedali, 5 aeroporti, 10 accampamenti, 30 cinema e circa 50 Km di strade, costruite coi frammenti di corallo che l’alta marea portava, regolarmente ogni giorno sulle bianche spiagge di un simile luogo. Le periferie della piccola città di Luganville, dove i nativi Ni-Vanuatu si recavano per ascoltare la messa dei missionari cristiani, diventò letteralmente sfolgorante per l’effetto dei tetti semi-cilindrici delle capanne Quonset, i prefabbricati tutt’ora più popolari ed utilizzati nell’intero ambiente militarizzato d’Occidente. Completato questo passo architettonico fondamentale, la popolazione locale di 50.000 anime si arricchì in un letterale battito di ciglia di altre 40.000, in quello che potrebbe definirsi come l’atto di immigrazione organizzata più travolgente della storia. Per lo meno, quando visto in proporzione. La nazionalità di provenienza di questi insoliti invasori, per la maggior parte in uniforme, era sempre un unico distante, e benestante paese: gli Stati Uniti d’America. Era l’anno 1942. Ormai da parecchi mesi, infuriava il conflitto epocale che passò alla storia con il nome di guerra del Pacifico. Dunque ai capi di stato, nella persona del loro rappresentante in-loco il generale Douglas MacArthur, premeva soprattutto che le porte dell’Australia fossero sufficientemente impervie ad eventuali tentativi d’invasione giapponese.
E dei tentativi, effettivamente, furono fatti: le forze dell’impero del Sol Levante avevano occupato alcune isole della Nuova Guinea, e da lì lanciarono missioni di bombardamento contro l’intera regione dei Territori del Nord, colpendo in modo particolare la città australiana di Darwin, che a seguito dei reiterati attacchi fu ridotta a un sostanziale cumulo di macerie. Ma il contrattacco degli alleati fu fulmineo, ed efficace: nel secondo terzo del 1942, dopo un’apocalittica battaglia nel Mar dei Coralli, la flotta statunitense avanzò contro la marina giapponese guidata dall’ammiraglio Yamamoto, respingendo il fronte di battaglia fino alle Solomon e poco dopo, presso le infernali giungle di Guadalcanal. Nel giro di pochi mesi, la zona calda della guerra si era spostata di un migliaio di chilometri più a nord, e la base di Espiritu Santo, che era stata appena completata assieme a svariate altre nell’area delle Nuove Ebridi, fu relegata ad un ruolo marginale di supporto. Ben presto, non avrebbe più avuto neanche quello. Il conflitto fu glorioso, il conflitto fu terribile. E terribilmente distante. Costò una quantità spropositata di vite umane, fino a raggiungere l’apogeo con il bombardamento nucleare che avrebbe scritto con il sangue la parola fine alla più grande follia che l’umanità ha mai avuto il dubbio onore di sperimentare. Tutto quello che rimaneva, a quel punto, era fare i bagagli e ritornare a casa. Un’operazione che si rivelò più facile a dirsi, piuttosto che a farsi! Queste basi infatti, che avevano processato nel corso degli anni di guerra un numero stimato di mezzo milione di soldati, erano ormai cresciute a dismisura, risultando letteralmente assediate dai surplus della catena di rifornimenti bellica, tra cui camion, jeep, carri armati e una quantità spropositata di merci alimentari, incluse tonnellate incalcolabili di razioni K e Coca-Cola: la vera colazione dei campioni che sparavano nel nome della libertà. Fu così ben presto fin troppo chiaro che le navi da carico messe a disposizione dallo stato per quella che aveva preso il nome di operazione Roll-Out sarebbero state appena sufficienti a riportare in patria gli uomini, ma non i loro veicoli, le loro merci e i bagagli. Nacque quindi una febbrile attività, in relazione al tentativo di piazzare ad un buon prezzo le comunque preziose merci e i veicoli presso la colonia franco-inglese, che ormai da mezzo secolo aveva preso il nome istituzionale di Condominium. Che apparve interessata, ma non al punto da scucire le corpose cifre richieste. Passarono i giorni, le settimane, mentre si avvicinava il giorno della definitiva chiusura della base americana. Capendo che la situazione non si sarebbe sbloccata in tempo utile, i comandanti diedero l’ordine che il prezzo fosse rivisto al ribasso, al punto che il tesoro fosse quasi letteralmente regalato ai vecchi alleati del conflitto che si era concluso. Ma a quel punto i coloni non si smossero dal loro acuto e continuativo disinteresse; la ragione è presto detta: giunti a quel punto, era chiaro che se non si fosse verificata alcuna vendita, l’esercito degli Stati Uniti non avrebbe potuto fare altro che lasciare i beni sulla spiaggia, e finalmente andare via, lasciando il tutto ai nuovi legittimi proprietari. Ma come potrete facilmente immaginare a questo punto, le cose non andarono esattamente così…

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La nave del futuro è già rimasta senza munizioni

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Molto spesso, nella storia del pianeta, la vittoria in una guerra non è stata conseguita tanto grazie alle migliori scelte strategiche, alla superiorità degli ufficiali o del morale dell’esercito, all’impiego di particolari stratagemmi politici o soluzioni di compromesso. Quanto piuttosto, grazie allo sfruttamento del sistema d’armi più terrificante e potente in assoluto, il Dio Denaro. E fino a tal punto, il sistema dell’economia fondata sul concetto alla base del capitalismo è intessuto nello stesso funzionamento di un’entità nazionale moderna, che non esiste ormai praticamente nulla, a non esserne in qualche maniera condizionato: le risorse necessarie, i treni di rifornimenti, persino la stessa forza lavoro nelle fabbriche in patria, la cui motivazione può essere incrementata (o rinnovata) tramite un sapiente aumento degli stipendi. Nel profilarsi di una situazione d’ingaggio, ci si aspetta quindi che un comandante responsabile realizzi uno studio di fattibilità operativo, in cui vengano messi sulla bilancia i rischi di un’eventuale esito soltanto parzialmente positivo. Perdite in termini di vite umane, vantaggi tattici e poi alla fine, quasi per un ripensamento, la cifra spropositata in dollari, relativa al danno finanziario che una campagna fallimentare potrebbe arrecare alla nazione. Se si sceglierà quindi di proseguire, e se le cose dovessero davvero andare per il verso sbagliato, il referente militare tra i ministri di governo avrà l’arduo compito di presentare questa problematica al capo di stato, che agirà di conseguenza.
Una volta sparato il primo colpo, tuttavia, nessuno si aspetta che i “ragazzi al fronte” agiscano in economia. Che senso avrebbe risparmiare sulle munizioni? È impossibile che esista a questo mondo, un implemento bellico il cui costo di utilizzo superi il valore anche di una singola vita umana, faticosamente reclutata ed addestrata alla presente, ed alle innumerevoli future missioni. O meglio, era impossibile fino all’altro ieri. I governi cambiano, i generali voltano lo sguardo, mentre i progetti originariamente ragionevoli crescono, mutano e diventano dei mostri. Draghi scagliosi tra le onde dell’oceano, serpenti marini assetati di vittoria e sangue verde dollaro e pecunia. Guardate, per studio, l’attuale condizione della USS Zumwalt, la prima di una nuova classe di cacciatorpediniere statunitensi da quasi 15.000 tonnellate, create per costituire la prima delle navi da combattimento più potenti mai create. E che ora sta incontrando un enorme ostacolo evidenziato poco dopo la sua entrata in servizio, avvenuta lo scorso 15 ottobre al completamento di una lunga serie di test: l’eccessivo costo delle munizioni per i suoi due cannoni principali. Mentre appare problematico, dal punto di vista operativo, pensare di sostituirli, visto come essi costituiscano l’elemento principale, ed una delle stesse ragioni d’esistenza, del suo intero scafo a prova di radar. Il problema ha iniziato a palesarsi nel remoto 2005, quando diventò evidente che il governo, che aveva approvato un appalto per la sostituzione di 32 delle sue 62 navi lanciamissili Arleigh Burke col nuovo avveniristico modello, allora definito DDG-1000, aveva deciso per una riduzione del budget in corso d’opera, riducendo l’ordine a sole tre navi. Il che, data l’esistenza dell’economia di scala, aveva fatto crescere il costo unitario fino alla cifra impressionante di tre miliardi e mezzo ciascuna, benché da considerare in progressiva diminuzione per ciascun singolo pezzo ultimato. Una spesa, ad ogni modo, potenzialmente giustificabile, in vista della necessità di mettere alla prova la nuova tecnologia, e di poter disporre di strumenti produttivi per approntarne quantità superiori, qualora se ne palesasse effettivamente la necessità. Molto meno ragionevole, tuttavia, era diventato schierare lo strumento del Long Range Land Attack Projectile (LRLAP) il proiettile che avrebbe consentito alla nave d’ingaggiare il nemico da potenziali 100 Km di distanza, senza ricorrere ad approcci straordinariamente costosi e soggetti ad intercettazione, quali i missili guidati Tomahawk. Ma c’è una certa differenza, tra lo spendere un singolo milione e mezzo di dollari, con la ragionevole sicurezza di colpire un obiettivo strategico di alta importanza, ed effettuare l’attacco simultaneo di bersagli multipli in mare, sparando colpi dal costo unitario di 800.000 dollari ciascuno. Volete sapere la cadenza di fuoco di questi cannoni? 10 spari al minuto. Con un caricatore di 300 e più colpi, stiamo parlando dell’intero erario di una piccola nazione.

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Il carro armato progettato per resistere alle bombe nucleari

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Una nube a fungo che si staglia all’orizzonte, oltre i limiti del cielo e del tempo. Fuoco, fiamme, vento e cenere imperversano sopra il confine della Germania dell’Ovest, in prossimità dell’area collinare a nord di Francoforte sul Meno. Nello stretto e vibrante spazio del veicolo a motore, quattro persone condividono l’orribile momento: pilota, addetto al caricamento, artigliere e comandante. Ciascuno fermamente convinto di una cosa: il mondo, ormai è finito. Ma la guerra… Un’altra deflagrazione proveniente dai fianchi dello schieramento, probabilmente dovuta alle armi portatili del nemico occidentale. Piccole atomiche, perché ormai quelle più grosse hanno già portato a termino lo sporco lavoro, venivano scagliate innanzi dal nemico con cannoni a mano, oppure persino l’equivalente moderno delle catapulte medievali, che più volte avevano infranto le alte mura del principato di Rus’. Da cui ogni volta, l’orgoglioso popolo si era ripreso. Dopo ciascuna catastrofica invasione, l’ideale di un paese unito era risorto più forte di prima. Eppure, l’ultimo giorno aveva continuato ad avvicinarsi…C’è soltanto il tempo di un grido: “Reggetevi! Arriva!” Quattro, cinque chilometri percorsi in un istante. L’onda d’urto raggiunge la formazione di carri armati, incuneandosi tra di essi come il vento distruttivo dell’Apocalisse. Gli ultimi T-54/55 rimasti operativi, uno dopo l’altro, si sollevano come foglie nel vento e scompaiono dall’equazione delle forze in gioco. Nel frattempo, il pesante Object 279 simile a una tartaruga aliena, coi suoi quattro cingoli piantati nella neve, viene spostato di parecchi metri da una parte. La sua forma aerodinamica da esattamente 60 tonnellate, in qualche maniera misteriosa, riesce a deviare l’energia e gli consente di restare operativo. La spessa armatura dell’abitacolo, perfettamente impenetrabile dall’esterno persino all’aria, in funzione di un’alta pressione indotta artificialmente, impedisce all’aria radioattiva ed ai veleni i contaminare l’equipaggio. “Ancora vivi?” Fa l’ufficiale in capo. “Да!” rispondono i suoi compatrioti. Con un sospiro di sollievo misto a rassegnazione, quindi, egli fa cenno di rimettere in moto il carro. I pochi superstiti del blocco Ovest aspettano più avanti. Tempo di combattere l’ultima battaglia.
Il fatto che i Russi fossero dei grandi estimatori del concetto dei mezzi corazzati super-pesanti, non era affatto un gran segreto: fin dagli anni ’30 dello scorso secolo, mentre le potenze politiche e militari dei vari paesi del mondo si preparavano alla catastrofica deflagrazione della seconda guerra mondiale, il governo centrale di Mosca si era affidato non ad uno, bensì a quattro dipartimenti di progettazione dei carri armati. Di cui tuttavia, soltanto due contavano davvero: quello di Leningrado, sotto il comando di Zhosif Ya. Kotin e la fabbrica di Khar’kov, comandata da Mikhail I. Koshkin. Ora Kotin era un amico personale di Iosef Stalin, nonché il genero di Kliment Efremovič Vorošilov, generale e politico tra i primi ad essere insigniti del prestigioso titolo di Maresciallo dell’Unione Sovietica. Le sue idee mirate a stupire il nemico ed incutergli timore ad ogni costo, dunque, godevano di un certo peso per definizione. Ed è indubbiamente a questo eclettico ingegnere, che dobbiamo molti degli strani esperimenti che il suo paese schierò sui campi di battaglia di quell’epoca, con spesso trascurabile successo: come il ponderoso T-28, una belva da quasi 29 tonnellate costruita in un tempo in cui difficilmente si arrivava alla metà, e che in mancanza di corazzatura adeguata non poteva in alcun modo resistere all’urto dei nuovi e ben più agili Panzer tedeschi. O l’ancor più improbabile T-35 da 54 tonnellate, con gli stessi problemi ma in più 5 (CINQUE) torrette ed un equipaggio di fino a 14 persone, del quale, incredibile a dirsi, furono costruiti ben 61 esemplari. Continuando ad esagerare, tuttavia, volle il caso che Kotin dovesse alla fine indovinarne una. E fu così nel 1940 che, tra lo stupore generale di molte delle personalità coinvolte, uno dei suoi carri venne effettivamente messo in servizio sulla linea del fronte: era questo il KV-1, denominato dalle iniziali del suo rinomato suocero, ovvero un carro pesante stranamente convenzionale per lui, con singola torretta ed un peso di 43 tonnellate. Risolti gli inevitabili e soliti problemi di corazzatura, propulsione e affidabilità, il carro si dimostro terribile in battaglia: semplicemente non esistevano ancora, in effetti, armi in grado di penetrarlo. E fu così, che si giunse alla realizzazione che per la particolare dottrina bellica dell’Unione Sovietica soggetta alle pressioni provenienti dalla Germania nazista, non ci fosse nulla di meglio che costruire veicoli sempre più grossi, possenti, inarrestabili. Col proseguire dei lunghi anni, la questione finì per sfuggire un po’ di mano.

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Quella volta in cui un caccia atterrò sopra una nave container

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Quando sei abbastanza disperato, tutto può sembrarti una portaerei… Vedi il caso in cui la gloriosa HMS Illustrious, punto di partenza per l’esercitazione indetta dalla NATO, pare essersi volatilizzata alla maniera dei vascelli fantasma, ed a te restano, si e no, cinque minuti di carburante. “Se tiro questa leva, sarà la fine.” Aveva pensato cupamente il sottotenente Ian Watson detto Soapy, poco più che 25 anni d’età nel 1983, mentre compìva un altro giro come un condor affamato attorno al grosso scafo da trasporto, che aveva avvistato per un mero colpo di fortuna, lungo uno dei corridoi marittimi più usati per gli scambi commerciali a largo del Portogallo. Ed al quale aveva già chiesto, via radio, di inviare una scialuppa a salvarlo. Certo, il seggiolino eiettabile del BAE Sea Harrier era un dispositivo costruito all’assoluto stato dell’arte, in grado di salvare la vita del pilota (ed i soldi investiti nel suo costoso addestramento) anche in caso di utilizzo al livello del terreno, una caratteristica definita in gergo zero-zero. Ma lui era pienamente cosciente, assieme a tutti gli altri allievi del suo corso, di come il suo impiego costituisse la fine quasi certa di qualsiasi carriera: perché il considerevole stress d’accelerazione a cui veniva sottoposto il fisico dell’utilizzatore, generalmente, comprimeva in modo irreparabile le colonna vertebrale, rendendo potenzialmente rischioso un successivo utilizzo. Inoltre, saltare in mare comportava il rischio sempre presente di non essere trovati in tempo. C’era poi il “piccolo” dettaglio dei 13 milioni di sterline, costo unitario del velivolo affidatogli dal comando centrale, a torto o a ragione visto ciò che stava per succedere. Ma lui, l’aveva giurato a se stesso ed al cielo: “Io non ti abbandonerò. Fino all’ultimo gallone!”
Quindi, più o meno calmo mentre ogni luce e spia dell’abitacolo tentava di trasmettergli un senso estremo d’urgenza, aveva fatto mente locale sullo spazio orizzontale formato da un enorme container posto al centro della nave sottostante, di forma pressoché quadrata, e misurante uno spazio ragionevolmente simile a quello delle piattaforme da eliporto usate durante il suo addestramento sul caccia Sea Harrier, probabilmente il più celebre, ed efficace aereo militare VTOL del mondo. “Io posso… Posso farcela!” Come un mormorio vagamente udibile, mentre quell’unica interruzione nella distesa di un mare quasi immobile e del tutto uniforme, rapidamente scompariva sotto il muso dell’aereo, e il rombo ritmico del motore iniziava a diminuire d’intensità, e le ruote del carrello, coi freni rigorosamente tirati, si avvicinavano gradualmente allo spiazzo metallico sottostante. Piano, piano… Finché, d’un tratto…L’atteso CLANG, seguìto da un senso di profonda soddisfazione, seguìto a sua volta dal più puro e orribile terrore: “Si, si, no, nooo!” Una mano che batte sul casco per la rabbia, mentre l’altra prendeva ad armeggiare furiosamente con il sistema di apertura della cabina. Dritto davanti a se, proprio di fronte alla cupola del proprio cockpit, Soapy scorse la plancia di comando della nave, dove un uomo, forse il capitano, lo fissava a bocca aperta e con un’espressione indecifrabile ma preoccupata. Il fatto è che la mattina di quel giorno, aveva piovuto. Ed ora l’intera superficie dei container della Alraigo, nave da trasporto battente bandiera spagnola, erano bagnati e sdrucciolevoli. Così l’Harrier Jet, coi motori ormai spenti e privo della capacità di riaccenderli di nuovo, stava scivolando in modo inesorabile verso il bordo del suo piano di sostegno, apparentemente allineandosi per un glorioso tuffo tra le onde dell’acqua gelida e salmastra: “Se questo arnese supera i 45° d’inclinazione, o arriva addirittura a girarsi, non potrò più eiettarmi in alcun modo. Allora sarò morto, morto…” Pensò lui, senza ancora tirare la leva. E i secondi continuarono ad accumularsi, e la coda dell’aereo ad abbassarsi, mentre il cielo pareva farsi più vicino assieme all’occasione di rivivere la scena finale del film Titanic (quello del ’53 con Clifton Webb, naturalmente. Di Caprio aveva 9 anni.)
Ma come sempre capita mentre l’epilogo più orribile pare ormai dominare l’intero firmamento del Destino, proprio mentre l’aereo e il suo pilota stavano per fare un salto al di là della murata dell’imbarcazione, l’inesorabile discesa all’improvviso si arrestò. Con un suono improvviso di lamiere contorte e vetri rotti: Deus Ex Machina. Parcheggiato accanto al container, proprio in mezzo al ponte della nave, c’era un grosso furgone per le consegne. Che accartocciandosi ad arte, si era trasformato nel sostegno della coda del jet. La sua metamorfosi, in quell’epico momento, parve un dono di Mercurio stesso, nume tutelare di chi vola per mestiere o divertimento…

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