Sotto il sibilo del vento ad un quota superiore di svariate migliaia di metri a quella del mare, l’energia del mondo si era accumulata per un tempo sufficientemente lungo. Finché le radici serpeggianti, attorcigliate in un groviglio concepito per assolvere a uno scopo, scaturirono dal suolo tutto attorno a quel bacino vasto e calmo, dando vita a una foresta, che potremmo definire…Differente. Centinaia di metri quadri e poi chilometri di canne, parallela l’una all’altra, formate da quella lacustre forma di vita vegetale che oggi definiamo scientificamente Schoenoplectus californicus, ma che in tutta l’America Meridionale, sull’esempio peruviano, tutti chiamano totora. L’epoca non è del tutto chiara: qualche secolo, se vogliamo risalire a fonti storiografiche, benché per quanto desunto da un’analisi genetica degli abitanti locali questo popolo possa risalire fino a 3.500 anni prima dell’epoca moderna, con aspetti, usanze e tradizioni lievemente differenti. Ma probabilmente, lo stesso apprezzamento per la pianta che con cui è solito costruire le proprie case, imbarcazioni, ornamenti, mobili, cappelli, mantelli e addirittura, mediante l’impiego di una tecnica soltanto sua, lo stesso suolo sopra cui sorge la propria antichissima società galleggiante. Già perché gli Uru, o Uro che dir si voglia, possono vantare l’originale caratteristica di aver costruito l’interezza dei propri insediamenti al di sopra di vere e proprie isole artificiali di cui restano circa 120 allo stato attuale, create a partire dalle canne intrecciate di totora sopra uno strato di torba flottante, capaci di offrire un terreno ragionevolmente solido a patto di continuare ad effettuare continuamente la laboriosa manutenzione di tutto questo. In merito alla ragione di un simile modus vivendi, per inciso, abbiamo le idee piuttosto chiare: ancora dopo l’inizio dell’impero Inca nel XIII secolo, infatti, il bisogno primario dei popoli relativamente poco numerosi di queste regioni sudamericano era quello di mantenersi indipendenti e poter proteggere se stessi dalle imposizioni di gruppi etnici più forti. E quale miglior fortezza poteva essere immaginata, di un’intera città che poteva spostarsi nel momento di più grave e imprescindibile necessità?
Le piattaforme degli Uru, costituite da una serie modulare di blocchi chiamati idli di 4×10 metri, sono un vero capolavoro dell’architettura primitiva, capaci di offrire non soltanto l’equivalente sulla superficie acquatica di fondamenta solide ma anche un terreno fertile che poteva essere coltivato primariamente con patate o vegetazione adatta a nutrire il bestiame, benché la fonte principale di cibo resta tutt’ora quella tipica dei cacciatori-raccoglitori e soprattutto, pescatori delle antiche società umane. Altro interessante approccio alla sussistenza, nel frattempo, quello dell’allevamento degli uccelli, usati sia come aiuti nella cattura dei pesci (cormorani) che per le loro uova e la stessa carne (ibis sudamericano) mediante metodologie comprovate da molti secoli di prassi valida ad incrementare l’approvvigionamento delle rispettive famiglie “isolane”. Come per molti altri appartenenti a minoranze distinte dalla collettività moderna, dunque, viene mantenuta in atto la naturale solidarietà del gruppo nei confronti dei singoli individui, che ricevono aiuto nella costruzione delle proprie nuove case o piattaforme, mentre la stessa manutenzione dell’isola di appartenenza diviene un costante impegno collettivo, data la costante tendenza dell’umidità a infiltrarsi nei blocchi di torba facendo marcire le radici ed infine, distruggendo lo strato superiore di totora. Ragion per cui, giorno dopo giorno, anno dopo anno, la loro opera di costruzione continua indefessa, come avvenuto attraverso le interminabili generazioni…
imbarcazioni
Uccide il fiume per salvaguardarlo, macchina trapanatrice dei fondali
Poco a poco, l’impianto idroelettrico lungo il corso del fiume As ad est di Bethlehem provincia sudafricana dello Stato libero, stava perdendo potenza, per la più semplice, ma inesorabile delle questioni: il progressivo accumulo di sedimenti, sabbia, detriti poco prima delle chiuse, in grado di rallentare sensibilmente lo scorrimento delle acque. Lo stesso passaggio delle chiatte trasportatrici, usate dalle aziende agricole locali per la consegna di macchinari, appariva nel frattempo minacciato, causa riduzione progressiva del pescaggio possibile tra quelle rive. Fu allora, dunque, che un consorzio formato da investitori dell’industria con sensibili interessi nell’intera faccenda mise in campo uno strumento la cui forma ed efficienza, in senso lato, apparivano capaci di trascendere ogni aspettativa pregressa. Ora nella nostra descrizione dimostrativa, vagamente ispirata alla realtà, potremmo attribuire una simile impresa alla compagnia specializzata Dredging Africa, effettiva responsabile di operazioni simili nella regione; oppure una delle poche altre, capaci di ricevere dai produttori (per lo più europei ed asiatici) un esemplare perfettamente funzionale di battello CSD, smontarlo nei suoi singoli componenti e trasportarlo via terra fino al luogo d’utilizzo designato. Potreste del resto rimanere sorpresi nel conoscere quanto limitate, nei fatti, siano le capaci di spostamento acquatiche di quella che nei fatti sembra una barca, ha la forma di una barca, ma il cui singolo motore fa ruotare un qualche cosa di molto diverso da un’elica. Ovvero quella testa distruttrice, il cui rombo sconvolgente, durante l’impiego, sarebbe in grado di far sollevare il sopracciglio a un Dio sopito dei Fulmini e delle Tempeste.
Thor delle mondane circostanze idriche? Perché no. Oppur Trivella che vorrebbe ritornare giù nell’Ade. La Cut & Suction Dredger o come dovremmo chiamarla in italiano, draga tagliatrice/aspiratrice, benché sia piuttosto raro vederne una in funzione nel nostro paese. Letterale piattaforma da 10-15 metri con un tubo e una pesante Verga, azionata da un’impianto diesel (generalmente) al cui termine trova posto un’escrescenza bulbosa a forma di fungo ricoperta da inquietanti denti diamantati. Ma poste da parte eventuali analogie di tipo fallico, questa tipologia di macchinario risulta avere nei fatti una funzione ben precisa: quella di raschiare e triturare in mille pezzi il sostrato solidificato sotto i flutti, risucchiandolo e facendolo portare via come una sorta di testa di serpente filtrante. Il tutto mentre opera in maniera che potremmo, sostanzialmente, definire affine a quella di un metronomo sovradimensionato. Dev’esser stato quindi un attimo di significativo trionfo e senso di liberazione! Quando all’altro capo del lungo tubo galleggiante, sospeso lungo l’estendersi del bacino fluviale, hanno iniziato ad accumularsi piccole colline letterali di sabbia fluviale pronta per la processazione, pronta a diventare una preziosa materia prima da impiegare nel campo delle costruzioni. Oltre all’energia, il guadagno…
L’oggetto più imponente mai fatto passare tra il Pireo e il Peloponneso
Un poco alla volta, procedendo a ritmo rallentato, il titano si convinse di poter riuscire a compiere la sua missione. Per il tramite di un singolo individuo, o cellula pensante del suo vasto corpo, con il compito di far passare, letteralmente, tale inusitata massa per la cruna invalicabile di un ago. Motori a ritmo rallentato, per ordine del capitano, fino alle propaggini del primo ingresso, o insenatura. Quinti totalmente spenti, mentre l’aiutante nella pilotina, imbarcazione piccola, ma… Erculea, riceve il capo estremo di un lungo cavo per il traino, ed inizia a incedere con passo (d’elica) del tutto privo d’esitazioni. Quasi come se una cosa simile, per tale controparte, fosse questione d’ogni giorno. La data è l’11 ottobre scorso, la nave in questione, il vascello da crociera MS Braemar, lungo 195 metri e largo 22,5. I testimoni almeno 1.300, quelli situati a bordo dei suoi molti ponti dall’arredo sobrio ed elegante. Mentre il valico, con la larghezza di 25 appena per gli interi 6,4 Km della sua estensione… Ah, il valico!
Costruire ponti, non muri, avrebbe potuto essere lo slogan di Periandro, tiranno di Corinto tra il 627 ed il 587 a.C, mentre la Grecia vedeva le sue principali città stato chiuse dentro fortificazioni progressivamente più imprendibili, contro la minaccia incipiente dei propri vicini ed il pericolo pendente delle mire espansionistiche persiane. Ponti d’acqua, niente meno, tra le due masse dello stesso fluido situate nelle intercapedini tra il continente ed una grande foglia topografica di gelso, allora nota come Πελοπόννησος – Il Peloponneso. Giusto “poco” prima che (nel Medioevo) i conquistatori provenienti dalla città di Venezia la ribattezzassero terra, per l’appunto, di Morea. Mentre il sogno di quel grande governante di un’epoca tanto remota, ancora una volta, dovette essere inserito tra le cose potenzialmente utili, ma semplicemente troppo costose, onerose o difficili da costruire. Sin da quando nel settimo secolo a.C, Periandro stesso ebbe a decidere come piuttosto che tagliare un profondo canyon tra le due masse di terra, ove far passare i principali scafi commerciali della Grecia, sarebbe stato assai più conveniente costruire il Δὶολκος, una rampa con strada sopraelevata, lungo cui gli equipaggi potessero sollevare i propri scafi e trasportarli, faticosamente, dal golfo di Corinto fino a quello Saronico, e viceversa. Una scelta comprensibile, quando l’alternativa risultava esser il completo periplo (circumnavigazione) della penisola del Peloponneso. Il che non fu, nei fatti, solamente una rinuncia, ma anche una precisa scelta strategica mirata a mantenere i porti della sua città nel massimo stato di rilevanza per l’intero mondo Greco.
Nel primo secolo a.C, quindi, il filosofo Apollonio di Tiana avrebbe profetizzato dalla sua città in Anatolia come chiunque avrebbe mai tentato, allora o in futuro, di mettere in atto il piano originario di Periandro, avrebbe inevitabilmente fallito, finendo per perire in maniera violenta. E per i secoli successivi, alquanto incredibilmente, tale sfrenata ipotesi venne più volte riconfermata dalla macabra realtà dei fatti…
Le molte missioni di un drone militare sottomarino
Su una spiaggia in prossimità del confine, quattro uomini in tenuta da infiltrazione lasciano la presa sulle loro armi d’assalto all’unisono, lasciandole ricadere sulla cinghia che passa al di sopra della spalla destra. Con un movimento fluido, i militari si spostano attorno al contenitore anonimo consegnato tramite il paracadute, protetto da un codice di chiusura segreto. Il capo del gruppo si china sul tastierino e inserisce una serie di numeri all’esaurirsi dei quali, con un lieve sbuffo d’aria causato dall’equalizzazione atmosferica, il coperchio si solleva e scivola di lato. Per mostrare, all’interno, quella che potrebbe sembrare a pieno titolo una semplice imbarcazione giocattolo. Se non fosse del tipico color nero opaco anti-radar, nonché aerodinamica e “cattiva” in ogni aspetto tranne la bulbosa macchina da presa meccanizzata che spicca sulla parte superiore dello scafo, dotata di un doppio obiettivo per catturare un feed da inviare al pilota e illuminare con il laser, allo stesso tempo, potenziali bersagli per il satellite o l’artiglieria. Un addetto alle manovre il quale, si capisce più o meno subito, dovrà necessariamente trovarsi “altrove” o per essere maggiormente specifici, al sicuro all’interno di una base protetta in territorio amico. Perché in quale assurdo altro modo, una persona e in carne ed ossa potrebbe mai trovare posto a bordo di un natante che misura appena 1,10 metri di lunghezza, incluso lo spazio per i motori, i sistemi, l’informatica di bordo e la batteria? Veicolo che in questo preciso momento sta per essere sollevato di peso dalle quattro nerborute teste di cuoio, prima di venire accompagnato di peso oltre i quattordici passi che lo separano dal bagnasciuga e lanciato in maniera corrispondente a quella di un grosso cucciolo di tartaruga.
Questa inusuale caratteristica, della compattezza e un peso assai contenuto (appena 6 Kg) costituisce in effetti il punto cardine delle classi più piccole di Mantas, l’UUV (Unmanned Underwater Vehicle) progettato e prodotto dall’azienda MARTAC – Maritime Tactical Systems di Satellite Beach, Florida, benché la versione più grande e dotata della maggiore autonomia, denominata T-12, giunga a misurare i 3,6 metri per una massa complessiva di ben 95 Kg. Pur sempre un ingombro accettabile, quando si considera cosa possa effettivamente fare, ed a quale esigenze possa rispondere, un rappresentante a pieno titolo di questa innovativa tecnologia.
Potrebbe sembrare probabilmente assai singolare, per non dire del tutto inaspettato, che l’applicazione militare di questo concetto delle operazioni con controllo remoto, ormai largamente accettata per quanto concerne i mezzi d’aria con armamento più o meno pesante, stia trovando un applicazione all’interno dei think tanks dell’Esercito Americano soltanto nell’ultima decade, attraverso una serie di appalti e concessioni nei confronti dei fornitori storici, o piccole ed agili compagnie come la produttrice di quanto mostrato nel video di apertura. Un sommergibile controllato tramite l’impiego di onde radio, capace a seconda delle necessità di effettuare rilevamenti di natanti o strutture sommerse, sorvegliare le coste, consegnare dei materiali, condurre operazioni di sminamento o offrire supporto di vario tipo alle truppe rimaste bloccate dietro le linee nemiche. E benché ciò non abbia ancora trovato un’applicazione pratica nel mondo reale, sarebbe difficile fare a meno d’intravedere nell’immediato futuro degli UUV un qualche tipo d’armamento, potenzialmente utile a sbloccare situazioni di stallo nei conflitti di tipo acquatico tra compagini operative avverse. Il che non potrebbe far altro che avvicinare ulteriormente i dispositivi, con la loro linea idrodinamica e la forma affusolata, allo squalo famelico che li ha ispirati…