Come altrettante carovane nel deserto o membri di equipaggi delle navi disseminate in un mare in tempesta, dozzine di comunità isolate percorrono le terre infertili delle penisole di Kola e Taymyr nel corso del gelido inverno. Nel settentrione siberiano, oltre i confini del Circolo Polare Artico, dove la semplice sopravvivenza è un obiettivo che richiede una notevole attenzione per i dettagli, verso l’acquisizione e messa in pratica di specifici espedienti. Così le loro renne, l’effettiva linfa che permette alla collettività di riconoscersi in tale cultura, diventano parte inscindibile della comunità dei Nenezi (o Nenet) una delle ultime comunità nomadi all’interno del territorio della Federazione Russa. Connotando e condizionando le loro usanze. Dipendere a tal punto dall’allevamento di una specie animale, che diviene in questo modo fonte di sostentamento, ricchezza tangibile, materia prima per abiti, abitazioni ed altri beni primarie nonché addirittura l’essenziale pegno di una dote necessaria per portare a compimento un qualsivoglia matrimonio, ha perciò sempre comportato dal loro punto di vista l’acquisizione almeno parziale del loro stesso e imprescindibile stile di vita. Il che significa non solo essere pronti a spostarsi periodicamente, come avviene per altre comunità pastorali dedite alla prassi operativa della transumanza, bensì farlo letteralmente di continuo, al concludersi di ogni periodo di circa 3 o 4 giorni, ovvero il tempo necessario affinché il cervide dei climi freddi per eccellenza consumi interamente la collezione di muschi e licheni che costituiscono da tempo immemore la sua dieta. Per cui l’alternativa che resta è soltanto quella di spostarsi, o perire.
Un duro approccio all’esistenza, quest’ultimo, idealmente in grado di condizionare e complicare profondamente la serenità di coloro che accompagnano i propri animali nel viaggio, sebbene approcci antichi permettano di mitigarne gli aspetti almeno apparentemente più difficili da gestire. Primo tra questi, quello di un’abitazione che possa essere smontata e rimontata in pochissimo tempo, ovvero la grande tenda conica del chum, dalla conformazione simile a quella di un tepee dei Nativi Americani ma sensibilmente più grande e soprattutto, isolata dall’impressionante freddo di queste terre, in grado di raggiungere durante la notte anche i -40 o -50 gradi. La casa dei Nenezi è dunque un ingegnoso concentrato di soluzioni tecnologiche, convenienza e senso pratico, al confronto del quale persino gli approcci alternativi più moderni dovrebbero fare un passo indietro fino al tavolo da disegno, se anche fossero mai stati presi seriamente in considerazione: semplice come i 33 pali, che tradizionalmente vengono posizionati in un cerchio di fino 6 metri diametro attorno al punto individuato dal capo famiglia mediante il posizionamento al suolo della sua verga pastorale, usata normalmente per guidare la stessa slitta con le renne incaricata di trasportarli (un oggetto un tempo considerato magico e capace di concedere il potere del volo). Affinché si possa procedere tutti assieme nel farli convergere al vertice negli appositi punti d’incastro, poco prima di collocare gli elementi trasversali utili a garantire un’ulteriore stabilità della struttura. Passo seguente, nonché forse il più importante, è quello che consiste nella copertura dello spazio architettonico risultante mediante l’impiego dell’apposito telo di un doppio strato di pelli di renna cucite assieme, con il pelo rivolto rispettivamente verso l’interno e l’esterno al fine di veicolare un’innata capacità d’isolamento che è il letterale prodotto di millenni e intere epoche d’evoluzione. Tanto efficace da riuscire a garantire, successivamente al tramonto quando gli occupanti sono soliti spegnere la stufa per risparmiare il carburante, una temperatura che può tendere verso i -10 o persino gli zero gradi: praticamente, un piacevole tepore, per chi è abituato fin dalla nascita a occupare latitudini così estreme…
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La cicogna con la sella sul becco, iridato pterodattilo dei nostri giorni
“Kongamato, signore… L’uccello del tuono. Lui non ha pietà. Divora l’anima dei viventi!” Nel 1925 Edward Albert Christian, futuro re d’Inghilterra destinato a salire al trono e successivamente abdicare entro 12 mesi rinunciando al prestigioso titolo di Edoardo VIII, si trovava in Nigeria per visitare le ex-colonie britanniche nella regione di Taraba, non troppo lontano dalla palude di Jundu, inspiegabilmente temuta dai nativi. E fu allora che assieme al suo accompagnatore e guida, il giornalista J. Ward Price, venne avvicinato da un abitante indigeno ferito e sconvolto, il quale parlava con enfasi di una misteriosa creatura volante simile a un enorme pipistrello, priva di piume e con il becco pieno di una quantità di denti, che lo aveva attaccato infliggendogli una significativa ferita sulla schiena. Preso da parte e fatto descrivere l’accaduto con calma, l’individuo finì quindi per riconoscere alcune immagini di antichi dinosauri volanti, mettendosi a tremare e fuggendo via terrorizzato. Che cosa avesse visto il malcapitato africano riesce tutt’ora difficile da definire, non sono pochi i critpozoologi ad insistere che un raro esemplare di Pterodactylus antiquus possa essere sopravvissuto fino ai nostri giorni, tenuto al sicuro dal folklore e la natura irraggiungibile di un tale ambiente. I più razionali commentatori di questo fatto tuttavia, assieme agli avvistamenti simili verificatosi in sporadici episodi databili fino agli anni ’50 e ’60, tra Camerun, Rhodesia e Zambia, concordano nell’aver identificato un possibile colpevole nella specie volatile di comprovata esistenza dell’Ephippiorhynchus senegalensis, la cui relativa rarità all’interno del suo vasto areale, unito alle dimensioni di fino 1,5 metri d’altezza, contribuiscono all’inclusione in un possibile profilo di colpevolezza. Sebbene non si abbiano notizie di comportamenti aggressivi, da parte di alcuna delle cicogne oggi esistenti.
Sia tuttavia chiaro come, nonostante il comportamento timido e poco territoriale, questa mitterna spesso associata geneticamente al Jabiru sudamericano (J. mycteria) costituisce pur sempre un agguerrito carnivoro nonché uno dei più grossi e pesanti uccelli viventi. Con un altezza superiore, ed un peso di poco inferiore, al marabù mangiatore di carogne (Leptoptilos crumenifer) dal collo stranamente pendulo e la pelle della testa glabra. Il loro aspetto, tuttavia, non potrebbe essere più diverso e nei fatti a un’osservazione più approfondita, la nostra cicogna dal becco a sella del Senegal appare perfettamente conforme alla cognizione universale del bello: slanciata e snella, di color nero iridescente e con generosi apporti di bianco, nonché una piccola macchia rossa e priva di piume sul petto, la cui colorazione diviene stranamente MENO accesa durante la stagione degli amori. E all’altezza della testa dal punto di vista di un’ideale birdwatcher, ciò che la caratterizza e distingue maggiormente: un becco tra i 27 e 36 centimetri, che dall’aspetto generale sembrerebbe essere stato dipinto da un’artista surrealista. Guardatelo, ammiratelo, stupite voi stessi; ben poco di comparabile, al giorno d’oggi, continua ad esistere sulla Terra! Di un arancione acceso inframezzato al nero, e coronato da uno scudo color banana (la programmatica “sella”) dal quale pendono, nel maschio due piccoli bargigli simili a campanelle, anch’esse di un giallo intenso. Il tutto coordinato ad un paio di grandi occhi che pur essendo di un comune marrone scuro nel caso dei maschi, diventano arancioni tendenti al rosso per le loro controparti femminili, creando l’illusione di trovarsi di fronte a un vero e proprio demone alato proveniente da dimensioni parallele. In una differenza tra le due metà del cielo, accentuata ulteriormente in determinate circostanze, che fa di questo essere il più significativo esempio di una cicogna sessualmente dimorfica. Se vi riesce, s’intende, di osservarla in quei momenti di panico con la sufficiente oggettività e conoscenze pregresse…
Lo svelto animale che poteva nascere soltanto sotto il sole abbagliante della Patagonia
Perfetta unità di tempo e luogo. L’astro allo zenith illumina dall’alto le cocenti rocce della montagna. L’aria sferzante del vento proveniente dai mari del Sud, formando vortici, rincorre se stessa con casualità evidente tra le asperità consequenziali del paesaggio. Eppure l’aria sembra carica di aspettativa, a dimostrazione che qualcosa d’importante stava per accadere in quel novembre attentamente individuato sull’inesorabile marcia del calendario. Come se la sagoma marroncina dal lungo collo posizionata in modo da stagliarsi contro l’azzurro cielo, concentrando tutte le sue forze ed ottime speranze per l’estate, stesse per celebrare un rito fondamentale ed antico: quello che avrebbe condotto, senza falle né contrattempi, verso l’immortalità della sua stessa specie.
Cammello? Pecora alta due metri? Cervo? Cavallo? Adesso provi ad ascoltarmi per qualche minuto: le sto dicendo che non troverà una soluzione migliore, neanche si facesse costruire l’animale su misura. Quanto stiamo per mostrarle è snello, agile, ma anche grosso e resistente. Al punto che nessun predatore, neanche il più temibile, potrà pensare di sfidarlo, senza rischiare letteralmente l’osso del collo. Il Lama guanicoe, come sono soliti chiamarlo nel Dipartimento Erbivori, è talmente ben adattato alla vita nell’ambiente andino da poter quasi affermare che gli sia stato cucito letteralmente addosso, alla stessa maniera in cui gli occasionali “clienti” umani erano soliti realizzare abiti, cappelli ed ornamenti con la sua pregiatissima lana. Almeno fino alla trasformazione in animale domestico e la graduale deriva genetica verso quello che oggi siamo soliti chiamare Lama glama o più semplicemente IL lama. E lei potrà decidere di fare altrettanto, in base alle specifiche esigenze del caso, ma è importante notare come ciò in effetti rappresenti al massimo il 50% delle potenzialità sul piatto di questa rara offerta. Poiché come creatura selvatica conforme al progetto originario, ancora oggi diffusa nelle ampie distese meridionali del Nuovo Mondo, il guanaco è perfettamente in grado di sopravvivere sfruttando unicamente le proprie forze, in un vasto areale che si estende in modo naturale tra Perù, Bolivia, Cile, Patagonia e Paraguay. Senza che niente o nessuno possa efficacemente porsi innanzi alla prolungata esistenza della sua efficiente specie. A parte il freddo, s’intende. Nient’altro che un rischio calcolato, s’intende, lei non deve assolutamente preoccuparsi! Trattasi di una caratteristica di poco conto, o se vogliamo addirittura una questione affascinante, che distingue il guanaco dai quadrupedi suoi concorrenti nella grande marcia dell’evoluzione quadrupede sul pianeta Terra. Perché ecco, vede, pare che la lunghezza della sua lingua sia stata calcolata secondo linee guida non del tutto conformi alle norme imposte dal progetto. Ovvero in altri termini, osservando la questione dal lato opposto, le sue labbra sono un po’ troppo prominenti, impedendo alla madre di leccare il cucciolo successivamente al parto. Il che significa che soltanto una, tra le possibili forze innate della natura, può contribuire effettuando questo importantissimo passaggio successivamente alla sua caduta nella valle dei viventi. Ciò che ci saluta, da lassù in alto, all’inizio di ogni infuocato giorno della nostra complicata esistenza…
Lo sguardo del demonio che appartiene ai gufi della foresta pluviale
“O diablo, te digo. Porque você não acredita em mim?” Il tono di voce dell’uomo era stridulo, il suo sguardo atterrito. Francisco aveva preso in esame l’interlocutore che si era precipitato all’interno del centro di protezione degli uccelli della città di San Isidro, a 23 chilometri da Buenos Aires, visibilmente ubriaco già verso la metà di un caloroso pomeriggio d’estate. “Non è che non ti credo. Vorrei capire perché sei venuto da me!” Aveva risposto, rivolgendosi al testimone della strana presenza fuori contesto, il quale immediatamente assunse un’espressione offesa ed indecifrabile. Quindi, spalancando gli occhi, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un qualcosa di piccolo, peloso ed a giudicare dal sangue, transitato recentemente a miglior vita. Francisco lo guardò bene: era un topo morto. Al topo morto mancava la testa.
Puntando la sua telecamera lontano dalla luce dei lampioni e verso la piccola isola di giungla completamente circondata dai palazzi della periferia urbana, l’uomo degli uccelli con specializzazione nei rapaci pensò nuovamente alla sua prima impressione: “Ho davanti a me un fole visionario, per di più inebriato” ma poi aveva iniziato ad interrogarsi in merito alle specifiche circostanze del caso. Creature cornute, demoni dell’inferno, misteriosi uccisori di tutto ciò che corre rumorosamente nel sottobosco: il folklore dei secoli ne aveva nominati molti. Ed ogni volta che si provava a scavare a fondo, la verità dei fatti finiva sempre per puntare nella stessa indiscutibile direzione. Quella dei gufi, allocchi e civette che si stagliano contro la luce della Luna notturna. Passarono altri 40 minuti di appostamento, mentre Francisco ripercorreva nella sua mente tutte le specie che avrebbero potuto palesarsi innanzi a lui da un momento all’altro. E fu allora che un suono sommesso, al culmine dell’attesa, attirò la sua attenzione verso il confine tra la zona illuminata e l’abisso inscrutabile degli alti arbusti. Puntò la torcia elettrica, e fu allora che le vide: due sfere rosse sospese nell’aere, come gli occhi dello stregatto di Alice, con sotto una serie di righe di color bianco e nero. Francisco trattenne un’esclamazione udibile di trionfo “Louvado seja, zebra” Gufo dei miei sogni proibiti. Agente alato di colui che può decidere, nel regno degli uomini che mai furono in grado di annichilirne l’esistenza.
Persecuzioni, superstizione, odio immotivato hanno per lungo tempo contribuito a ridurre la diffusione dei gufi nell’interno territorio sudamericano, qualificando l’uomo come principale nemico di questi esseri che avrebbero dovuto costituire, idealmente, dei superpredatori all’interno del proprio ambiente. Caratteristica tale da giustificare un’indole marcatamente solitaria, rendendo gli occasionali avvistamenti tanto più rari e con il proseguire dei secoli, significativi. Ragion per cui tutto quello che sappiamo su alcune particolari specie, caratterizzate da un areale vasto ma che tende a interrompersi ogni qualvolta ci si avvicina a territori più densamente abitati, deriva dagli occasionali avvistamenti ed alcune sporadiche osservazioni, d’esemplari finiti per lo più fuori dal proprio habitat naturale, per scontarsi ancora una volta con le credenze pregresse del malaugurio ed il sacro terrore folkloristico/religioso. Un’ideale condizione in cui possiamo facilmente collocare, nel nostro filo d’analisi, la vicenda in epoca moderna e contemporanea del magnifico uccello chiamato in territorio locale Coruja-preta (gufo nero) o più correttamente, gufo dalle strisce bianche e nere o ancora, allocco zebrato. E che in ambito scientifico, sembrerebbe conservare un certo livello d’incertezza in merito alla sua posizione nell’alto e complesso albero della vita…



