L’enorme serpe cosmica dei primi costruttori di geoglifi americani

Serpe, serpe delle mie brame, puoi dirmi qual è il destino del reame? Ove soggiace l’implacabile speme? Sotto il pietrame ed ogni traccia di legname, ove potemmo sacrificare il bestiame… A ridosso del possente fiume. Così chinandosi, la testa parallela al suolo, gli occhi spalancati ed ogni aspetto della propria postura configurata in quell’atteggiamento che taluni erano soliti chiamare “stupore e tremori” gli anziani e i capi del villaggio si approcciarono al sito sacro non troppo distante dalla valle del Mississippi. Dove l’antica stella era caduta, lasciando tracce chiare della sua imponenza, tali da rialzare i bordi di un cratere ma anche dare forma a un altopiano centrale. Il luogo ideale, tra tutti, per raffigurare l’immagine suprema di un’oscura divinità. Non un geco e neanche una tartaruga, i due rettili impiegati come talismani dalle madri, rispettivamente dedicati a un figlio maschio ed una figlia femmina, bensì quell’essere spiraleggiante ai primissimi confini della Creazione. Che divorando per la prima volta l’uovo cosmico, diede la possibilità alle genti della Terra di tentare l’estensione della propria fortuna. Le genti della cultura di Fort Ancient avevano del resto una profonda capacità d’osservazione del paesaggio, le creature e lo scenario sempre ripetuto dell’irraggiungibile volta celeste. Tale da notare, ogni volta in cui se ne presentava l’opportunità, l’occorrenza di fenomeni imprevisti come il timido bagliore di una supernova o l’arco disegnato dal passaggio di una cometa. Entrambi eventi verificatosi a soli 16 anni di distanza a partire dal 1070 d.C, quando secondo molti studiosi potrebbe essersi verificato l’importante evento capace di dare i natali ad uno dei luoghi maggiormente memorabili dello stato dell’Ohio e potenzialmente gli interi Stati Uniti.
Situato al giorno d’oggi non lontano dal lago di Rice nella contea di Peterborough in corrispondenza di un antico astrobleme (luogo d’impatto meteoritico) il Grande Tumulo del Serpente si presenta come una sostanziale opera in rilievo di terra e pietra della lunghezza di 411 metri, raffigurante una creatura longilinea e priva di zampe dalla coda attorcigliata in un’ipnotica spirale. E la sua testa nell’opposta estremità, con le fauci totalmente spalancate, intenta nelle prime battute della laboriosa fagocitazione di un’imponente oggetto ellittico, probabilmente il guscio aviario di un futuro e sfortunato pulcino. Creazione compatibile con la reputazione di questa cultura sofisticata, capace di creare opere di terracotta complesse ed operare la lavorazione del rame, ma soprattutto costruire un’ampia e diversificata quantità di monumenti funebri, spesso costituiti da edifici in pietra ricoperti di terra che a sua volta dovrà sorreggere un ulteriore edificio, a distanza di generazioni ricoperto da altra terra e così via a seguire. In una sorta di celebrazione ricorsiva dei propri preziosissimi antenati, benché la finalità ed aspetto del tumulo in questione sembrerebbe aver posseduto un significato e funzionalità nettamente distinte…

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La gente che sorride negli arborei grattacieli della Papua Nuova Guinea

Poiché in ogni pregressa circostanza immaginabile, i presupposti di una tardiva presa di coscienza erano sempre stata presente in questo luogo. Di come le caratteristiche di un’aurea e risplendente magione possano variare in base alla cultura posseduta da un popolo, in aspetto, ricchezza e solidità, ma pur sempre sia presente un simbolo particolare segno di prestigio, tanto imprescindibile da essere costante da un angolo all’altro della rosa dei venti: l’altezza sul livello del suolo, intesa come architettonica capacità di preminenza nei confronti della piatta disposizione dell’esistenza. Che vorrebbe un’effettivo insediamento come la diretta risultanza del bisogno abitativo e niente più di questo, mentre ogni ornamento, qualsiasi orpello distintivo, diventano soltanto aspetti di un ingombro addizionale a discapito dell’utilità nel dipanarsi dei giorni. Forse proprio per questo, l’elevata tipica dimora delle tribù Kombai e Korowai, situate nella parte orientale della seconda isola più grande al mondo, si presentano come un distintivo unicum nel panorama delle genti della Melanesia e non solo, motivate da specifiche ragioni strettamente interconnesse al loro stile di vita. Non cerchereste anche voi, d’altronde, di mettere una quindicina di metri tra i vostri letti ed il terreno, vivendo in una società dove il cannibalismo viene praticato abitualmente al culmine di continui e sanguinosi conflitti tribali? Col trascorrere degli anni, ed il filtrare osmotico della ragionevolezza civilizzata, simili conflitti sono per fortuna soltanto (soprattutto?) un ricordo. Ma la locale cognizione di una casa che sia irraggiungibile e perfettamente difendibile con archi e frecce, chiaramente, permane. Così da porre in alto tra le chiome, nel continuo dipanarsi delle giungle locali, l’occasionale tetto in paglia e recinto di pareti ad un altezza variabile tra i 15 e i 40 metri, tanto da riuscire a suscitare la spontanea e inevitabile domanda di come, esattamente, qualcuno possa essere riuscito a traportare i materiali fin lassù. Un’impresa impegnativa per qualsiasi gruppo d’operai dotati di moderne attrezzature, ma nient’altro che un ostacolo da superare agevolmente per coloro che ogni giorno vivono da queste parti, traendo sussistenza e addirittura prosperità da uno degli ultimi ambienti veramente selvaggi rimasti su questa Terra.
Le capanne dei cieli dunque, come potremmo poeticamente definirle, costituiscono un’importante risorsa per la difesa del territorio di ciascuna tribù, che ha l’inclinazione ad attaccare o scacciare chiunque si dimostri ostile all’interno di esso, laddove spazi abbastanza vasti vengono d’altronde lasciati tradizionalmente liberi, come augusta dimora degli spiriti a cui la loro religione è devota. I tronchi scelti come pilastro principale appartengono preferibilmente alla specie del cosiddetto albero di wamboun o il banyan (fico strangolatore) che completata la parte parassita del proprio ciclo vitale diviene un arbusto solido e svettante, in grado di resistere alle sollecitazioni del vento senza andare incontro a oscillazioni particolarmente indesiderabili o pericolose. Mentre un altro albero, al pari di questi, risulta niente meno che fondamentale per il sostentamento di tali popoli, la locale palma da sago o sagu (Metroxylon s.) dal nome dell’amido estratto dalle sue foglie per la produzione di una farina nutriente alla base della loro dieta…

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L’antica tradizione funeraria delle bare attaccate al fianco della montagna

L’anziano Dakila Ilao aveva contribuito per buona parte della sua esistenza alla comunità, prendendo molte delle più importanti decisioni del villaggio. Si era preoccupato, una volta raggiunta un’età sufficientemente avanzata, di dirimere le dispute in materia di terreni agricoli, discrepanze o disaccordi tra i più giovani e inesperti abitanti della Cordigliera. Finché raggiunta quella che poteva essere l’ultima decade della sua vita, scalpello alla mano, si era procurato una sezione di tronco proveniente da un alto pino della parte settentrionale dell’isola di Luzon. E con scalpello e martello alla mano, per lunghe settimane e mesi, aveva provveduto a scavarne l’interno, fino ad averne ricavato una grande scatola di circa un metro di lunghezza. Da quel momento, gli amici e la famiglia che condividevano con lui le sue giornate lo avrebbero visto, se possibile, ancora più sereno di quanto fosse mai stato prima di allora. Quasi come se un peso fosse stato tolto dal profondo della sua mente, sostituito con l’effettiva preparazione ad una fase successiva dell’esistenza. In un giorno come tanti altri, nell’estate senza fine che caratterizzava dal punto di vista meteorologico il suo paese, la nipote che andava tutti i giorni a preparargli la colazione non riuscì a svegliarlo: Dakila Ilao, infine, li aveva lasciati. La notizia iniziò a diffondersi tra le capanne del villaggio, dando il via ad una frenetica serie di attività comunitarie. Una speciale sedia, in legno finemente lavorato, venne posta fuori dalla casa dell’anziano. E il suo corpo, avvolto di lenzuola, venne posizionato su di essa, mentre lì vicino veniva accesso un falò di legno profumato. Per diversi giorni, tutte le persone che l’avevano conosciuto in vita andarono fargli visita, finché non venne il momento lungamente atteso. Persone addette ed onorate sollevarono il defunto e con estrema cautela, ne raccolsero le membra in posizione fetale; l’unica maniera, a conti fatti, in cui potesse entrare nella scatola che si era costruito a tal fine. Impugnati a questo punto una scala di corda ed un’intero sacco di chiodi da rocciatore, diedero l’inizio all’ultimo viaggio del proprio beneamato compatriota.
Il visitatore, anche proveniente da terre vicine, che dovesse approcciarsi casualmente per la prima volta agli immediati dintorni del villaggio di Sagada, tra le montagne della principale isola delle Filippine, potrebbe ricevere l’esperienza di una vista alquanto inaspettata e per certi versi, inquietante. Sulle pareti in pietra calcarea di una delle molte formazioni rocciose di quel territorio, una serie di forme in legno squadrato, con sopra scritti nomi e l’effige ricorrente della croce cristiana. Sopra quelle che si dimostreranno necessariamente essere, a tutti gli effetti, delle bare costruite a mano. Un diverso tipo di cimitero, senza dubbio, derivante da un particolare modo appositamente studiato al fine di riuscire a rendere omaggio ai propri cari. Successivamente ad una dipartita che in qualsiasi circostanza, non potrà esonerarli da un’apprezzabile necessità di posizionarli non soltanto lontano da possibili animali selvatici, ma anche al di sopra d’inondazioni o terremoti, eventualità tutt’altro che remote in questa terra situata sul percorso del grande anello di fuoco del Pacifico, dove la Terra stessa sembra ricercare con trasporto un qualche tipo di vendetta nei confronti dei suoi abitanti. Non che tramite il giusto grado d’ingegno, assieme a una specifica metodologia tramandata, risulti del tutto impossibile trovare dopo l’ultimo dei giorni l’opportunità di un eterno riposo…

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La sublime arte scultorea delle divinità che proteggono la tribù degli Hopi

Quando nel XVII secolo i primi missionari cristiani, di matrice francescana, giunsero presso le tre mesa pianeggianti situate all’ombra del monte Humphreys, in quella che costituisce l’attuale parte meridionale dell’Arizona, scoprirono all’interno delle case in pietra e fango dei nativi una certa quantità di strane raffigurazioni artistiche antropomorfe, che non tardarono a identificare come il Demonio. Naturalmente, qualsiasi entità religiosa di quei popoli sarebbe apparsa agli ecclesiastici come una manifestazione d’idolatria ed in quanto tale, pericolosa per le anime dei suoi fruitori. Una visione ulteriormente accentuata per l’evidente possesso, da parte di talune tra queste effigi, di vistose corna ricurve, oltre a pugnali, lance ed altri strumenti di uccisione ed annientamento. Il fatto stesso che la gente del luogo, abituata a definire se stessa come il popolo degli Hopi ovvero “uomini gentili” nella propria lingua, essendo particolarmente poco inclini ad impugnare le armi contro i propri vicini o gli stranieri provenienti dall’Europa, venne interpretato come prova ulteriore della capacità di dissimulazione del Maligno, capace di presentarsi a chi non era stato adeguatamente educato sotto spoglie falsamente amichevoli ed attraenti, approffittando di questa sua dote per riuscire a incrementare la nutrita moltitudine dei suoi adepti. Le prime chiese, dunque, non tardarono a sorgere dal territorio arido ai confini del deserto di Sonora, mentre le antiche danze in maschera, i complessi rituali e gli altri metodi impiegati da costoro per proteggersi dalle tribolazioni e l’inerente imprevedibilità della natura venivano severamente vietati. Così gli Hopi impararono il significato della bibbia, il sacrificio di Cristo e il giusto modo di pregare all’indirizzo di Nostro Signore. Ben sapendo e soffrendo per la maniera come tutto questo, a conti fatti, non facesse assolutamente nulla al fine di placare la possibile vendetta dei potenti Kachina.
La pioggia cade copiosa un anno, dopo il solstizio, permettendo un ampio raccolto di zucche, fagioli e semi di girasole. Al ciclo successivo delle stagioni, il delicato equilibrio delle circostanze permette la caduta di pochi centimetri appena, causando carestia e sofferenza per i membri della tribù. Cosa è accaduto di diverso? Come si può evitare che succeda di nuovo? E soprattutto, in quale modo è possibile insegnare alle nuove generazioni, affinché ciò non capiti nuovamente? Nella risposta a questa ultima domanda, in modo particolare, è possibile comprendere la più importante linea guida al centro del culto delle principali figure mitologiche degli Hopi, non entità distanti o incaricate di giudicare gli uomini al termine della loro esistenza materiale, ma un’effettiva e tangibile forza all’interno dello schema dell’Universo, con il potere, e tutta l’intenzione, di deviare in modo pressoché continuo il corso spesso imprevedibile degli eventi. In tal senso le figurine scolpite tradizionalmente dalle radici dell’albero sacro del cottonwood o pioppo americano (Populus deltoides), nella guisa di divinità animistiche, personificazioni di animali o fenomeni e antenati della tribù, avevano lo scopo non tanto di essere direttamente venerate, quanto di essere donate direttamente ai nuovi nati, particolarmente quando si trattava di bambine, al fine di educarli sull’aspetto, le prerogative e le preferenze dei diversi numi tutelari, oltre a quello che ci si sarebbe aspettato da loro una volta raggiunta l’età adulta. In tal senso già nella loro accezione più antica, generalmente intagliata da un singolo pezzo di legno intagliato senza l’uso di strumenti metallici e dipinto in modo piuttosto rudimentale, i kachina venivano creati in quattro serie successive, di complessità raffinatezza crescente, rispettivamente concepite per accompagnare i neonati (Putsqatihu) i bambini piccoli (Putstihu taywa’yla) quelli un po’ più cresciuti (Muringputihu) e la generazione dei ragazzi ormai prossimi al rito d’iniziazione consistente in una serie di frustate ritualizzate, soltanto a seguito delle quali sarebbero stati degni di conoscere la più dura e pregna verità del mondo. Ovvero il fatto che i kachina non venissero più a visitare direttamente i villaggi degli Hopi, per via di una catastrofe dimenticata o le molte offese subìte, ragion per cui anche loro come i propri genitori avrebbero dovuto indossare le maschere e i costumi per interpretarne le sembianze nel corso delle festività a cadenza annuale, ancora condotte in segreto quando i frati e gli altri missionari non riuscivano a mantenere lo stretto stato di controllo sulle scelte religiose ed il comportamento dei nativi. Poiché c’era necessariamente un limite ai risultati che fosse possibile ottenere, pregando unicamente all’indirizzo di un Dio straniero…

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