La storia delle rocce che sviluppano la fotosintesi clorofilliana

É il ritorno di un qualcosa che, in un certo senso, non se n’era mai andato: tra le acque di laghi dell’Australia Occidentale, poco popolati di pesci, molluschi o altre creature, hanno dato forma al proprio profilo attraverso gli ultimi millenni alcuni strani ed irregolari oggetti. Fossili viventi in più di un senso, poiché non solo assomigliano nei fatti ad un qualcosa di mineralizzato ed oramai immutabile, ma continuano ostinatamente a respirare. Agglomerati di materia calcarea, quindi assai chiaramente non vivente, al cui interno si nasconde tuttavia una scintilla senza occhi, bocca o un qualsivoglia tipo di cervello. Il cui fondamentale desiderio, imperturbabile, viene perseguito con entusiasmo: dar seguito alla propria genìa, dall’interno d’inespugnabili e antichissimi castelli che crescono 5 cm ogni 100 anni, definiti scientificamente stromatoliti (dal greco “rocce a strati”).
Un corpo astrale ruota attorno alla sua stella ricevendo in alternanza luce, radiazioni, energia. Ma non è solo ciò a determinare, nel ripetersi di questa fase ininterrotta, il tipo di trasformazioni che caratterizzano la sua esistenza. Mentre letterali miliardi di cellule, sfruttando l’opportunità proficua, si combinano e producono esseri complessi. Le creature che, da un punto di vista cosmico, esistono soltanto per creare dei problemi: riscaldamento terrestre, effetto serra, polveri sottili. Ciò che ha prodotto un possibile punto d’arrivo per l’insieme complessivo degli esseri eucarioti, questa perennemente insoddisfatta razza umana, non ha pari nella storia (recente) della natura. Le cose cambiano, di contro, qualora si diriga la nostra lente verso i territori degli albori, l’esistenza prima del concetto stesso di secoli o millenni: 4.000 milioni di anni fa, periodo Archeano. Il suolo instabile dei continenti, ormai raffreddato, è una vera e propria giungla primordiale di microrganismi, ricoperta dei batteri procarioti che, un giorno, avrebbero imboccato la strada senza ritorno dell’evoluzione. Almeno quelli che, tra loro, si sarebbero dimostrati capaci di un certo livello di adattamento. Poiché una classe, su tutte, domina il sistema ecologico di pianeta ancora totalmente anaerobico, ovvero privo di ossigeno. Sto parlando dei bluastri, immobili e cionondimeno operosi cianobatteri, la cui stessa presenza non avrebbe continuato a permettere una simile contingenza di fattori. Gradualmente, progressivamente, la luce penetra lo spesso strato di quel gas metano che, all’epoca, dominava la nostra atmosfera. Mentre questi letterali antenati del concetto contemporaneo di alga, dando seguito al processo che costituisce per loro il sinonimo stesso della respirazione, iniziarono a produrre ciò di cui oggi noi, lontani discendenti di un ramo parallelo, abbiamo un assoluto bisogno per continuare il percorso della nostra lunga e travagliata civiltà. Così l’ossigeno, come la fissione atomica dell’era nucleare, fece la sua comparsa all’interno di un sofisticato laboratorio, in questo replicato letterali milioni di volte all’interno dell’oceano senza pesci. Finché non si raggiunse, nel corso di una svolta imprescindibile, l’evento di trasformazione atmosferica noto come Grande Evento Ossidativo, databile a circa 2.450 milioni di anni fa, quando tutto il ferro contenuto negli oceani iniziò, istantaneamente, ad arrugginire.

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L’enigma oceanico dell’albero impiegato per intrappolare le persone

AD 1790: Waru camminava curvo sotto il peso delle catene, quelle che i coloni provenienti dalle terre oltre il mare avevano assicurato alle sue spalle, al collo e ai polsi dopo che i giovani del suo villaggio si erano ribellati ad un fato eccessivamente crudele. Il guardiano capofila della carovana, composta in numero maggiore di membri del popolo Miriuwung Gajerrong della regione di Kimberley, amici, lontani parenti, compagni di caccia, stavolta condotti da coloro che amavano farsi chiamare nella propria lingua blackbirders ovvero “[catturatori] di uccelli neri”. I pirati anglofoni senza nessun tipo di quartiere per coloro che potevano servire, in qualche modo, ai loro sinistri scopi. Il che tendeva a rivelarsi doppiamente vero per coloro che facevano parte della generazione di Waru, tanto problematici nei confronti del loro dominio, con mazze, boomerang ed altre armi di una dura ribellione, quanto potenzialmente utili, una volta trasportati lungo le coste australiane fino alla baia di Kuri e Wallal Downs, località famose per la quantità di ostriche da perle presenti naturalmente sui loro fondali. Un letterale tesoro, pronto da cogliere ed almeno in circostanze ideali, soprattutto considerata la rinomata presenza di squali, lavoro perfettamente idoneo ai rappresentanti della sottomessa etnia. Mentre il gruppo procedeva sotto il pungolo di lance e canne di fucile, quindi, Waru riconobbe la sagoma che stava comparendo all’orizzonte: quella del gadawon quasi del tutto privo di foglie in questa stagione, anche chiamato l’albero sacro o albero bottiglia, per il prezioso contenuto d’acqua e le sostanze nutritive nascoste sotto la dura scorza dei propri frutti, simili a noci giganti. Due dei carcerieri si scambiarono quindi alcune parole, che a loro insaputa il guerriero Miriuwung riuscì a comprendere alla perfezione: “Tutti e 12 non entreranno sulla nostra barca. Mettine… Quattro là dentro e scegli una guardia. Torneremo a prenderli più tardi.” Oh, sacrilegio! Pensò Waru, scambiandosi uno sguardo con il suo compagno di sventura più vicino, stringendo i pugni finché le sue nocche assunsero il pallore dei morti. Perché sapeva cosa stava per succedere: molti gadawon, infatti, possiedono una cavità interna. Abbastanza grande per farci entrare un certo numero di malcapitati, nella più totale noncuranza della loro effettiva funzione nei rituali funebri e per il benessere del grande Spirito dei villaggi…
Fatto, verità storica, ipotesi o una semplice allegoria? Che l’albero-prigione di Derby, o quello quasi identico di Wyndham, cittadina situata quasi 1500 Km a nord-est, siano stati effettivamente utilizzati come prigioni temporanee per gli aborigeni costretti ad una vita di schiavitù dai coloni europei d’Australia, resta oggi una vicenda totalmente priva di conferme oltre a quella del sentito dire. Benché in effetti, sia perfettamente lecito pensare a un simile utilizzo per questi due rappresentanti della specie Adansonia gregorii, anche detta del boab o baobab d’Oceania. Un albero tendenzialmente più basso, ma per il resto quasi indistinguibile dal proprio omonimo subsahariano, noto per la sagoma riconoscibile in tante foto sudafricane. Ed in funzione di ciò dotato non di un singolo tronco bensì quello che viene generalmente definito il caudex, ovvero lo “stelo” risultante nello specifico caso da una serie di controparti verticali derivanti dallo stesso ammasso di radici, la maggior parte delle volte in grado di fondersi assieme ad anello, formando uno spazio vuoto e ombroso, accessibile soltanto attraverso un piccolo pertugio. Il quale, in realtà, poteva servire a molti possibili scopi…

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Il bianco pipistrello che costruisce la sua tenda tra i rami

Guardatevi, aspiranti visitatori di regioni centro-americane, dalla guida forestale honduregna che dovesse raccomandarvi di “cogliere il bianco frutto della pianta di heliconia“. Arbustiforme o erbacea dalle caratteristiche infiorescenze a cascata, spesso situate nella tipica configurazione della brattea, ovvero subito al di sotto delle sue grande foglie. Tanto che non sarebbe apparso niente affatto assurdo, per non dire improbabile, che quel caratteristico piccolo assembramento di forme tondeggianti e candide, ricoperte di peli, dovessero costituire l’equivalenza locale di un kiwi, pesca o rambutan. Provate soltanto ad avvicinarvi a questo ammasso, tuttavia, per scorgere qualcosa di assolutamente fuori dagli schemi previsti: un indistinto, diffuso senso di movimento e non del tipo indotto da un’accidentale folata di vento. Bensì paragonabile al moto indotto da una qualche specie artropode simbiotica o parassitaria, come bruco, vespa o bestia similare. Se non che, all’analisi più approfondita, scoprirete come sia in effetti TUTTO il “frutto” a muoversi, non soltanto la sua scorza brulicante come nel caso di un fico, ancorché si tratta, nella sua interezza, di un qualcosa che dei fichi è solito mangiare la sua giusta dose. Un vero, bianco, irsuto pipistrello! Con il naso a foglia di un colore giallo paglierino (non per niente sono soliti chiamarlo Ectophylla alba) come le sue orecchie, così replicato in (minimo) cinque o sei esemplari, che all’avvicinarsi della vostra mano male informata, potrebbe anche scegliere di sollevarsi in volo. In quanto insolito rappresentante, con i suoi massimo 50 mm di lunghezza, dell’unico ordine di mammiferi a cui l’evoluzione abbia insegnato a farlo.
Mentre ciò che non tendiamo ad associare verso simili creature della notte, è l’innata propensione a costruire un qualche tipo di struttura, il più basico strumento di una qualsivoglia specie aviaria: il nido che protegge, nasconde e qualche volta, offre riparo, a queste latitudini battute dalla pioggia per moltissimi, umidi centimetri ogni anno. Ciò soprattutto perché, contrariamente ai tipici pennuti con i loro aguzzi becchi, non depongono le uova e non necessitano quindi del canestrello di rami e sterpaglie, in genere sostituito dal soffitto sdrucciolevole di una caverna. Ma che dire del pipistrello bianco dell’Honduras, che proprio in funzione della sua regione geografica di provenienza, non dispone di una simile opportunità? Si potrebbe persino affermare che il suo metodo sia l’UNICO possibile: librarsi fino al trespolo di una delle succitate foglie, lunghe generalmente tra gli ottanta centimetri ed il metro e venti. E quindi cominciare, con i propri denti piccoli ma aguzzi, a masticare lungo l’estendersi della sua venatura centrale. Finché quest’ultima, ormai del tutto priva dell’originale solidità strutturale, non finisca per piegarsi su se stessa in forza della gravità terrestre. Formando quella che viene definita in gergo una “tenda” ovvero il più perfetto rifugio dalle intemperie e in molti casi, anche lo sguardo pericolosissimo dei predatori. Senza mai dimenticarsi, ad ogni modo, del proprio ruolo nell’economia dinamica di tali circostanze…

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Svelata l’origine dell’uccello più Inaccessibile al mondo

“Preso, finalmente!” Sembra quasi di udire ancora tra i ventosi promontori, situati a picco sul mare, dell’isola il cui nome contiene una dichiarazione programmatica d’intenti. Inaccessibile, anche nei fatti a causa della sua particolare posizione geografica, le condizioni meteorologiche e la natura delle coste non propriamente favorevoli all’approdo. A parlare, fu il biologo e naturalista Martin Stervander dell’Università di Lund in Svezia, rivolgendo l’esclamazione all’indirizzo dell’invisibile mist net alias “rete giapponese”, usata in tutto il mondo dai suoi colleghi per catturare esemplari di uccelli di vario tipo. Il che dovrebbe convenzionalmente indicare, il più delle volte, creature volanti. Ragione per cui l’apparato presenta delle apposite tasche situate a diverse altezze della sua estensione, in cui le creature in questione possano ricadere senza riportare alcun tipo di danno prima di essere esaminate con tutte le perizie del caso. Ma poiché la sua missione, in quel particolare caso, assumeva connotazioni assolutamente diverse dalle aspettative usuali, persino una simile impresa aveva richiesto uno sforzo maggiore del previsto. E ad agitarsi tra le maglie della trappola, coadiuvata da un registratore con il verso di un pigolante invasore del territorio, un coraggioso piccolo uccello, la cui funzione ecologica locale potrebbe essere paragonata a quella di un topo. Il che significa, in altri termini, che il rallo denominato Atlantisia rogersi (o semplicemente “dell’isola Inaccessibile”) non può assolutamente volare, passando piuttosto le sue giornate nascosto tra l’erba, andando a caccia d’insetti, vermi e altri artropodi, del tutto inermi dinnanzi ai suoi temibili 15 cm di altezza.
Creaturina marrone scuro che, per le implicazioni inerenti della sua stessa esistenza, ha costituito fin dall’epoca della sua prima descrizione scientifica un enigma assolutamente non trascurabile. Com’era effettivamente possibile, si chiesero nel 1922 i membri della spedizione Shackleton–Rowett, prima dei tempi moderni a passare da queste parti, che una creatura non volatile né tanto meno migratoria fosse riuscita a giungere fino a questa particolare isola dell’arcipelago Tristan da Cunha, nel mezzo del nulla a 2.432 Km di oceano da Città del Capo, e 3.486 dall’arcipelago delle Falklands a largo dell’America meridionale? La prima ipotesi è contenuta nel nome stesso Atlantisia, costituendo un chiaro riferimento all’esistenza di antichi paesi sprofondati per l’avanzare di una singola, devastante onda di marea. Dovete considerare che all’inizio del secolo, prima che l’ipotesi di di Alfred Wegener sulla deriva dei continenti fosse realmente accettata dalla comunità scientifica, si credeva che l’esistenza di specie animali simili agli angoli opposti del pianeta fosse essenzialmente dovuta alla presenza pregressa di antiche nazioni che avrebbero svolto la funzione di ponti di terra, come Lemuria, Mu e per l’appunto Atlantide, notoriamente citata da Platone nei dialoghi Timeo e Crizia nel IV secolo a.C. L’evidenza provava, tuttavia, che se davvero l’esistenza del rallo si era svolta in totale isolamento per un periodo misurabile in molti milioni di anni, la sua divergenza evolutiva e genetica da altre specie isolane dell’Atlantico avrebbe dovuto essere maggiore, inducendo gli scienziati a teorizzare un’ipotesi alternativa: gli antenati dell’A. rogertsi (appellativo derivante dal reverendo H. M. C. Rogers, che spedì il primo campione dell’uccello al Museo Naturale di Londra affinché potesse essere analizzato) si presentavano con un aspetto e capacità notevolmente diverse, essendo riusciti a giungere fin quaggiù sulla forza delle loro stesse ali a partire dalle terre emerse più vicine, ovvero quelle del Vecchio Continente. Ma se ci spostiamo in avanti di qualche generazione, fino all’epoca di Internet e dei cellulari con navigatore satellitare, possiamo facilmente renderci conto di come non tutti fossero convinti da quest’idea. Nella coerente formazione di un gruppo di opinionisti all’interno del quale figurava, per l’appunto, anche l’intraprendente svedese Stervander, al punto da ritrovarlo quaggiù nel settembre del 2011, armato di rete giapponese e gli altri attrezzi utilizzabili per catturare un uccello-topo. Ma non lasciatevi trarre in inganno: il suo studio è stato pubblicato soltanto all’inizio di questo novembre 2018 sulla rivista Molecular Phylogenetics and Evolution. Una cosa, per lo meno, è sicura: questo tipo di studi richiedono tempi piuttosto lunghi…

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