La più determinante caratteristica del serpente noto come vipera del Gabon o Bitis Gabonica è la sua particolare calma e presunta mancanza di aggressività, almeno fino al momento in cui dovesse essere eccessivamente provocata. Emblematico, a tal proposito, può essere considerato il caso del sedicenne di Washington D.C. Louis Morton, che nel 1983 rubò una coppia di esemplari dallo Zoo Nazionale, rompendo la teca di vetro e infilando i serpenti dentro un sacco della spazzatura. Procedura tranquillamente accettata da questi ultimi almeno fino alla salita sopra un autobus cittadino, quando le possenti vibrazioni risvegliarono in uno di loro istinti atavici di autodifesa, portandolo a mordere il ragazzo sulla spalla destra. Ciò che sarebbe seguito a un simile evento, a quanto possiamo desumere dagli effetti noti di una simile esperienza, dev’essere risultato terrificante. Le conseguenze di ritrovarsi in circolo il veleno citotossico di queste creature, capace di attaccare al tempo stesso la coagulazione del sangue ed il funzionamento del sistema nervoso, includono gonfiore, shock, convulsioni, ematemesi (rigetto di sangue) ipotensione, dispnea e l’immediata perdita di controllo delle proprie funzioni corporali. Il tutto accompagnato da un dolore descritto in genere come terrificante, cui fa seguito in breve tempo la paralisi e possibile necrosi dell’arto colpito. Per sua fortuna trasportato immediatamente al Children’s Hospital, dove potendo identificare subito l’origine del morso i dottori contattarono diversi esperti su questa specie presso istituzioni africani, fu possibile ritardare gli eventi fino all’arrivo per trasporto aereo del siero da Baltimora, riuscendo per un pelo a salvargli la vita. Il folle gesto dell’incauto ladro soprannominato in seguito Snakeboy, d’altra parte, non risulta totalmente impossibile da comprendere quando si considera lo straordinario aspetto di queste creature, tra i maggiori serpenti africani ed i più pesanti velenosi al mondo, rivaleggiati in tale record solamente dal cobra reale (Ophiophagus hannah) e giudicati tanto affascinanti in patria da aver ricevuto il soprannome, usato anche in lingua inglese, di “Morte vestita a festa”. Dotati di un lunghezza media di 125-155 cm, ma un diametro di fino a 37, l’animale si presenta infatti con una livrea caratteristica di rombi e spazi negativi di colore scuro, che sembra quasi richiamare l’aspetto di uno scheletro vivente, capeggiata da una testa tanto larga e piatta da essere paragonata in certi ambienti a una farfalla. La quale puntualmente, nella maniera analoga a quanto succede con le altre vipere del genus Bitis, inizia a gonfiarsi e cambiare ritmicamente forma nelle situazioni di minaccia, provvedendo ad emettere un fischio assai riconoscibile e minaccioso. Non che capiti spesso, a seguito di tutto questo, di giungere anche all’effettivo attacco, data l’indole come dicevamo notoriamente mansueta di questo letterale devastatore chimico d’organismi complessi. E in effetti non sono rare le routine d’esibizione, presso i rettilari o nei programmi televisivi, in cui persone esperte maneggiano con assoluta tranquillità questi serpenti, passandoseli da una mano all’altra come se fossero dei semplici boa costrittori (attività assolutamente non prudente ed almeno personalmente, direi, tutt’altro che raccomandabile). Ciò detto, nel momento in cui la vipera del Gabon dovesse ritenere che la misura è colma, diventa molto difficile salvarsi dal suo attacco, considerato uno dei più veloci nell’intera genìa dei serpenti: soltanto pochi decimi di secondo, per balzare in avanti snudando le gigantesche zanne simili a pugnali, lunghe fino a 5,5 cm, anch’esse senza pari nell’intero regno animale. Per piantarle dolorosamente nella carne del bersaglio, avendo successivamente cura di continuare a stringere per il più lungo tempo possibile, come nel caso di un pitbull ma con una finalità maggiormente crudele: assicurarsi che la massima quantità possibile dei fino a 1000 mg contenuti nelle proprie sacche d’avvelenamento giungano a destinazione, venendo inoculati nel sistema circolatorio della vittima malcapitata. Sia che si tratti di un topo, che un escursionista che dovesse aver finito per pestare quella quasi “invisibile” coda…
morte
L’impressionante popolo dei fantasmi con la maschera di fango
Il potente veicolo fuoristrada in grado di trasportare fino a 10, 15 turisti sembra frenare improvvisamente, avendo raggiunto la sommità del sentiero che conduce fino al famoso panorama del monte Gurupoka. La guida c’invita quindi, con gesto magniloquente, ad avvicinarci tutti al grosso sportello laterale, valico capace di condurci verso il vasto panorama promesso. Eppure, è mai possibile? Nello sguardo dell’uomo sembra figurare l’espressione e lo strano sorriso di colui che mantiene un segreto, di gran lunga troppo inopportuno per essere condiviso coi presenti. Dopo un attimo d’esitazione, scendo anch’io sul suolo sterrato, in mezzo ad una notevole macchia di felci mamaku, l’arbusto dalla forma paragonabile ad una palma altresì detto felce nera (Cyathea medullaris). Ma non faccio in tempo ad avvicinarmi al bordo del baratro al di là di una simile finestra naturale, che ai margini del campo visivo scorgo un inqualificabile movimento. Il quale poco a poco, si trasforma nella sagoma di una persona, con la pelle tinta di bianco. O meglio quella che potrebbe anche esserlo sotto ogni punto di vista, fatta eccezione per l’enorme testa cornuta, dai lineamenti appena visibili paragonabili a quelli di un gorilla, le zanne prominenti prelevate direttamente dalla carcassa di un cinghiale. Un dettaglio che mi sarebbe probabilmente sfuggito, nella penombra della foresta, se non fosse stato per il lieve rumore prodotto dalle due grandi foglie che costui, per motivi tutt’altro che chiari, agita rumorosamente su e giù, fino all’altezza delle spalle. Si tratta di una maschera, ovviamente, o come appare fin troppo evidente nel giro di pochi secondi, la prima di una pluralità di simili orpelli. Altre figure si affiancano infatti alla prima con una strana andatura ritmica e cadenzata, tutte evidentemente armate: lì un arciere col dardo pronto ad essere scagliato al nostro indirizzo, in opposizione al guerriero dotato di preoccupante lancia dalla punta presumibilmente avvelenata…. A chiudere la fila, un energumeno con la mazza, ricavata direttamente da quella che sembrerebbe essere la tibia di un grosso e non meglio definito animale. Da un rapido conteggio dei nostri assalitori, concludo che debba trattarsi di una quantità grosso modo equivalente a quella dei turisti presenti, ciascuno altrettanto drammaticamente e letteralmente impreparato all’incontro. Ma quando mi volto per avvisarli, scorgo una scena del tutto inaspettata: la coppia di anziani viaggiatori giapponesi con cui avevo conversato amabilmente durante la trasferta che stringono in mano le proprie macchine fotografiche, con un ampio sorriso in volto. “Sono loro, sono arrivati!” Gridano in un inglese dal forte accento: “Gli uomini del fango hanno fame, e stanno per cucinarci nel pentolone!”
Cos’è dopo tutto, il terrore? Nient’altro che un apostrofo insanguinato tra le parole “ti” ed “odio”, un qualcosa che nasce dal fondamentale senso di colpa per aver fatto, detto o prodotto una situazione in qualche modo inopportuna. E gli abitanti dei dintorni del villaggio di Goroka presso le rive del fiume Asaro, nella provincia delle Highlands Orientali della remota isola della Papua Nuova Guinea non hanno mai, per loro e per nostra fortuna, avuto ragione di temere le navi provenienti dalle masse continentali d’Oriente ed Occidente. Ragion per cui, nell’evoluzione della loro cultura contemporanea, l’antica metodologia degli accesi conflitti tribali un tempo costati la vita ad una quantità innumerevole di connazionali è stata trasformata in una sorta di spettacolo truce, usato per favorire il turismo ed incrementare, nel quotidiano, i fondi disponibili per garantirsi una ragionevole dose di comodità moderne. Essendo questa una tribù che si affida esclusivamente alla trasmissione tra le generazioni in forma orale, ad ogni modo, esistono diverse storie sull’origine dell’insolita tenuta da guerra (se così vogliamo chiamarla) tutte riconducibili, grosso modo, alla stessa vicenda: il momento indefinito nel tempo a seguito del quale gli uomini più combattivi della tribù, sconfitti durante un sanguinoso conflitto coi loro vicini, si ritirarono per cercare rifugio in prossimità del fiume, dove iniziarono a pianificare la propria vendetta. Quando uscirono quindi al calare della sera, erano completamente ricoperti dal fango chiaro dell’Asaro, che per qualche ragione veniva per di più ritenuto essere velenoso. Inoltre avevano il proprio volto con delle maschere spaventose, create riscaldando l’argilla sul fuoco nella profondità della notte, capaci d’incutere il terrore nel cuore dei propri nemici. Fatto ritorno al villaggio usurpato, quindi, la loro semplice vista risultò talmente terrificante che i vincitori non soltanto si ritirarono, sentendo addirittura il bisogno di mettere in atto una cerimonia per scacciare gli spiriti nella speranza di non incontrarli mai più. Ma da quel momento, così prosegue la leggenda, tutti i nemici degli uomini del fango avrebbero conosciuto il pericolo d’incorrere nella loro ira, strettamente interconnessa con la terribile apparizione dei morti viventi oltre i confini della loro terra.
Ora tutto ciò non può che essere ricondotto, incidentalmente, a dell’ottimo marketing contemporaneo: ci sono, in effetti, tutti gli stereotipi che il moderno abitatore dei contesti urbani ama vedere associati ai suoi simili rimasti legati a stili di vita primordiali: violenza, magia, ingegno… Qualcosa di quasi troppo perfetto, e schematico, per essere vero. Ragion per cui nel mondo accademico, da lungo tempo ormai, sono state cercate spiegazioni alternative tra cui la più accreditata, allo stato dei fatti attuali, resta quella degli antropologi danesi Ton Otto e Robert J Verloop che tentando di sfatare l’occulto mistero, fanno risalire la tradizione a un periodo grosso modo corrispondente agli anni ’50 dello scorso secolo…
La danza degli scheletri nell’era della grafica 3D
Avevo appena terminato di guardare l’ennesimo video degli auguri per… Una spaventosa Notte delle Lumere (Hallows’ Eve) quando sentii di nuovo quello strano rumore. Certo, quando lavori da svariate settimane come guardiano part-time presso il cimitero di una grande metropoli ci si abitua a un certo tipo di sottofondo auditivo per le proprie peregrinazioni digitali, che include il verso del gufo, il sibilo del vento tra i cipressi, il miagolio del gatto nero in calore, il fruscio delle ali di una falena… Eppure permane un certo inevitabile senso d’inquietudine, in un battito continuo e regolare, che d’un tratto accelera, quasi tentando d’articolare un preciso susseguirsi di parole: “Vie-eni da noi, Mortimer; vie-eni subito, Hildebrand…” E poco importava che il nome giusto fosse stato, fin dal giorno della mia nascita circa due decadi e mezzo fa, un ben più semplice e non mi duole ammetterlo, banale Eric. Appariva ormai evidente che i defunti non avevano pazienza per quel tipo di dettagli. “Cosa intendi…” Mi sembra quasi di sentire la domanda: “Quando affermi di aver comunicato personalmente con l’adilà?” una frase pronunciata con il senso di sospetto enfatico e latente, generalmente attribuito agli aspiranti medium, fattucchieri ed altri truffatori delle impossibili speranze altrui. Ebbene devo dirvi, in tutta sincerità, che tutto questo non avesse alcun collegamento con capacità speciali, poteri della mente o altre doti ricevute in dono non si sa quando, non si sa da chi. Sono altresì del tutto certo, come lo sarebbe stato chiunque altro al mio posto, che quanto sto per narrarvi sia realmente accaduto, in quella serie di notti memorabili iniziata esattamente 365 giorni fa.
La maggior parte delle persone pensa ad Halloween come una festa religiosa in qualche modo cambiata e adattata alle necessità dei tempi odierni, come occasione per fare acquisti, vivere la gioia delle ricorrenze, interpretare un ruolo temporaneo nell’impermanente scorrere della moderna società. Ma la realtà è che vivendo negli Stati Uniti, dove questo modo di onorare il giorno dei defunti ti viene trasmesso fin da quando frequenti i primi anni dell’asilo, si acquisisce gradualmente verso il giungere dell’età adulta una remota, quanto significativa percezione: che i vampiri, fantasmi ritornati e zombies non esistono, fino al preciso momento in cui si cerca in qualche modo di evocarli. È come rendersi coscienti del proprio stesso respiro, trasformandolo in un gesto manuale per qualche fatidico momento. Un voragine dalla quale è impossibile tornare, per lo meno, finché non avrà fatto il suo tempo. Sul preciso bilico tra autunno e inverno dunque, di quel giorno carico di sottintesi, mi alzai dalla sedia del computer per recarmi in corridoio della guardiola, nella speranza di scoprire quale bimbo dispettoso, che burlone tra i miei conoscenti al city college, si fosse messo in testa di farmi passare quei cinque o dieci minuti di terrore. Tutto quello che ottenni, tuttavia, fu percepire quello strano battito che accelerava, seguito da un sinistro tonfo a terra. E quando giunsi finalmente sulla scena, proprio in mezzo al pavimento, candido ed inconfondibile al centro del mio campo visivo, c’era quello che poteva essere soltanto un femore umano.
Sul primo momento non lo riconobbi. Presi quell’oggetto per nasconderlo all’interno di un cassetto della scrivania (l’avrei fatto vedere, il giorno dopo, al mio supervisore) ma fu allora che mi accorsi, con sincero stupore, che l’orologio digitale con termometro segnava le ore 26:26. Mentre la luce della luna, filtrando tra le sbarre alla finestra con un tono lievemente azzurrino, aveva reso invisibile fino all’ultima delle alte stelle a noi più familiari…
L’esperimento di un film dell’orrore per corvi
Un giorno scoiattoli agili, che corrono allegri sulla corteccia. Un altro, ronzio primaverile d’api operose, perlustratrici di una distante colonia ricolma di melliflua dolcezza. E poi… Strani giardini pubblici per ancor più strane visioni, capaci d’imprimere nella memoria immagini arcane, dal significato non sempre evidente: come questa, di una figura femminile che avanza, con incedere cadenzato, fin sotto un cedro nella radura. Ma soltanto a un’occhio particolarmente attento, o abbastanza vicino, le cose appaiono per ciò che sono: la manifestazione tangibile di un mondo sinistro e inquietante. Lei è Kaeli Swift, candidata al dottorato dell’Università di Washington, intenta in un passatempo alquanto atipico: spaventare a morte i corvi, per comprendere cosa, effettivamente, possa spaventare a morte i corvi. Così è una maschera, quella che indossa, di un realistico color carne, con parrucca da strega incorporata. Perfettamente priva di espressione ma per il resto, dolorosamente simile al volto di un essere umano defunto e scarnificato, le orbite vuote rimpiazzate dagli occhi del suo stesso assassino. Aggiungete a questo l’intenzionale assenza intenzionale di mimica, e ciò che sta effettivamente facendo: mostrare, al vento, agli esseri vegetali e alle persone, un cadavere stecchito dalle ali nere, e la coda nera e il becco e gli occhi altrettanto neri. Persone che poi sarebbero, nel caso specifico, piumati volatili, delicatamente poggiati sui rami al di sopra della scena, naturalmente guardinghi verso colei che offre la chiara apparenza di un loro simile, evidentemente passato a miglior vita, R.I.P. Il risultato? Richiami dalla notevole intensità, un grande agitarsi dei corpi, becchi aperti per interfacciarsi vicendevolmente attraverso il suono. È tanto rumore per nulla, tutto questo, poiché il “morto” nient’altro costituisce, in effetti, che un mero fantoccio del tutto fittizio, pensato per ingannare i soggetti inconsapevoli di quella che assomiglia, in tutto e per tutto, a una candid camera per uccelli. Ma forse è sbagliato considerare la cosa dal punto di vista di questi ultimi, o di un passante chiamato ad esprimere un giudizio disinformato. Perché questa è purissima SCIENZA, baby! Il metodo cognitivo della dimostrazione, finalizzata alla comprensione ed in ultima analisi, un migliore approccio alla convivenza con alcuni degli uccelli più scaltri, furbi, dispettosi e in ultima analisi, problematici di questo pianeta Terra.
Molti lo hanno visto accadere senza porsi, essenzialmente, le giuste domande. Perché gli appartenenti al genere Corvus che vivono più a stretto contatto con il contesto urbano, siano loro i corvi imperiali (C. corax) le cornacchie grige italiane (C. cornix) o come nel caso della Swift, i C. brachyrhynchos americani, sono soliti radunarsi in gruppo, emettendo complesse vocalizzazioni interconnesse tra loro? In quale modo, questo risponde alle regole dettate dal loro istinto? Per lungo tempo, si è pensato che il richiamo di questi esseri portasse la sventura tra gli uomini, poiché appariva carico di un tono beffardo, apparentemente rivolto a tutti coloro che prestassero orecchio, dopo aver sottratto preziosi spazi all’universo della natura. La realtà è che ci sono diverse possibili ragioni per simili attività, tutte motivate dal bisogno di accrescere le proprie chance di sopravvivenza e ciò è vero altrettanto, benché possa essere sorprendente, nel caso dei funerali piumati. Forse la più strana specializzazione nel campo dell’etologia animale. Eppure nessuno, in realtà, può biasimare colei o colui che si avvicina alle cose interessanti. Anche se ciò richiede, spesso, una rinuncia alle norme di comportamento che noi tutti potremmo definire “normali”. Ecco dunque, la risposta all’atavica domanda: “Come ho fatto a trovarmi in questa assurda situazione?” Ipotizzando che a porsela sia la scienziata, poco prima o dopo la memorabile scena mostrata nel video di apertura: si trattava essenzialmente della fedele riproduzione, a favore di telecamera, di uno studio formale pubblicato nella primavera del 2015, sulla rivista Science Direct, con l’assistenza del collega John M. Marzluff e il patrocinio dell’Associazione per il Comportamento Animale. Titolo: “I corvi americani si radunano attorno ai loro defunti per avvisarsi a vicenda del pericolo.” Una sequenza di parole che definirei quanto meno programmatica, come approccio descrittivo al gracchiante nocciolo della questione…