La gelida storia dell’anatra che produce l’oro piumato d’Islanda

“Pesa di più un chilo di piume, oppure un chilo di metallo?” Afferma una delle domande paradossali più celebri, apparentemente banali, eppure capaci di ricevere la risposta sbagliata una quantità di volte superiore alla aspettative. Dopo tutto, provate a rovesciare le due possibili risposte da altrettanti sacchi tenuti saldamente in ciascuna delle vostre mani: di quale contenuto avreste il timore maggiore che potesse cadere sulla vulnerabile punta dei vostri piedi? Il duro ferro, acciaio et similia. Per il semplice fatto che le piume verranno frenate nella loro caduta dalla resistenza dell’aria stessa, muovendosi come ben sappiamo dall’incipit cinematografico della più celebre interpretazione di Tom Hanks. A meno che siate l’astronauta David Scott mentre conduce un esperimento simile sulla Luna, lasciando cadere il proprio martello alla stessa velocità del gentile residuo fluttuante di un pollo-come-tanti-altri. E se adesso vi dicessi che esiste, invece, un modo per creare l’effettiva equivalenza tra un insieme di tali oggetti ed il metallo più puro e nobile per eccellenza, quello stesso Oro per cui interi imperi sono caduti, uomini e donne hanno abbandonato qualsiasi pretesa di moralità o coscienza? Un parallelo possibile non tanto nel mondo fisico, quanto quello arbitrariamente assegnato di un valore imprescindibilmente attribuito, grazie alle fluttuazioni dell’offerta e la richiesta di tale purissima “sostanza” più universalmente desiderabile di qualsiasi altro prodotto di un volatile su questa Terra, fatta possibilmente eccezione per il guano prima dell’invenzione dei fertilizzanti moderni. Ma maleodoranti o sgradevole non è di certo, il risultato di quest’industria strettamente legata ad una delle nazioni isolane più settentrionali del mondo, alla base di un tipo d’esportazione facente parte degli strati maggiormente empirei del più puro ed assoluto Lusso, per una volta dovuto ad effettive qualità imprescindibili, e non soltanto l’esclusività della cosa stessa.
Con il che non intendo dire, sia chiaro, che il fantastico piumino di eiderdown utilizzato nella creazione di coperte, indumenti e sacchi a pelo isolanti oltre ogni aspettativa, sia in alcun modo comune! Anzi, tutt’altro: per un mercato capace di produrlo in una quantità straordinariamente prevedibile di circa 3 tonnellate annuali, grossomodo corrispondente all’effettiva richiesta globale di una tipologia di prodotto finale che può arrivare al costo unitario di 5.000-8.000 euro, di per se stesso ancor più raro e desiderabile di un’auto prodotta da Lamborghini o Ferrari, proprio perché determinato da un ciclo naturale perfettamente ed assolutamente al di fuori del controllo dell’uomo. Quello vissuto, per l’appunto, dall’imponente anatra marina nota come edredone comune (Somateria mollissima) il cui nome in un misto di greco e latino già sottintende le parole “corpo”, “lana” e “morbidissima”, lasciando intendere la caratteristica considerata determinante nella percezione funzionale della sua pennuta esistenza. Un processo sostenibile e del tutto incruento, per una volta, poiché non prevede alcun tipo di nocumento al soggetto di tanto indesiderabile interesse, diversamente da quanto avviene per le sfortunate anatre spennate vive a milioni all’interno degli allevamenti di tipo convenzionale. Bensì un intervento della mano umana effettuato nel corso del processo comportamentale del tutto naturale, per cui la femmina di questa specie migra e nidifica nei mesi primaverili presso svariate centinaia di piccole isole a largo dell’Islanda, o le coste di quel paese stesso, avendo cura di proteggere le proprie uova con uno spesso strato di piume prelevate dal petto della madre stessa, la cui fisiologia prevede la possibilità di strappane copiose quantità assieme al piumino o down sottostante. Non che paglia secca, usata dagli specialisti raccoglitori per sostituirle, possa mancare di assolvere alla stessa funzionalità con paragonabile efficienza…

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L’apparente idillio del pastore mongolo che pesca da un lago ghiacciato

Elegante perché semplice, semplice perché naturale, naturale e proprio per questo, bellissimo. C’è molto da commentare benché i dettagli si nascondano nelle vaste steppe asiatiche, nella scena diventata istantaneamente popolare su Twitter dell’uomo in abito tradizionale, sereno e sicuro di se, che poggiando saldamente gli stivali sulla superficie relativamente spessa di uno specchio d’acqua senza nome, colpisce con la zappa la biancastra superficie, realizzando un foro dalla forma grossomodo circolare entro cui getta delle esche in quantità evidente, attirando pesci dalle tenebre sommerse. Per poi infiggervi, alla percezione inusitata di un remoto movimento, il fulmine letale della forca per il fieno, mentre due amichevoli caprette testimoniano ammirate il sapiente gesto. Poco prima che, con un sorriso grande come il mare che potrebbe non aver mai visto, il cavaliere dell’oceano d’erba estragga l’argentato premio di cotale inconfondibile frangente: tre grosse carpe asiatiche, disposte attentamente in fila parallela, quindi caricate sulla spalla destra, facendo un uso non meno creativo del bucolico strumento di cattura ed ittica uccisione. Segue uno stacco di regia, a seguito del quale ritroviamo l’abitante a prelevare legna e sterpaglia dalla sua catasta, per poi immergere il pescato in salamoia, direttamente condita con i colpi di machete su una roccia non dissimile dalla rinomata lampada di sale tibetano. Conclude la sequenza, lui che cuoce i tre pasti completi, infissi in lunghi stecchi sopra il fuoco precedentemente preparato.
Cosa abbiamo visto, esattamente? Chi è costui? Dove siamo? Abbiamo veramente assistito ad una “Tecnica di pesca vecchia di 10.000 anni!” come enfaticamente titolato sui diversi social e presso gli arcani recessi della blogosfera, o si trattava piuttosto di un semplice individuo dalle plurime risorse, intento a fare ciò che gli riesce meglio: sopravvivere facendo affidamento sulle proprie sole forze, nella sostanziale solitudine di una regione grande due volte la Germania, ma con densità di popolazione persino inferiore all’entroterra australiano… Il primo strumento che abbiamo a disposizione per interpretare il video, comparso per la prima volta sul profilo del russo di origini kazake Gabit Rahimberlin, alias Starshina73, è il fatto che si tratti, per l’appunto, di una testimonianza registrata in digitale. Da un telefonino chiaramente messo in verticale, niente meno, dotato di una risoluzione sufficientemente elevata per garantire una qualità delle immagini perfettamente al passo coi tempi. L’assenza di turisti o terzi d’altro tipo, o in alternativa l’attenzione registica con cui essi vengono tenuti fuori dall’inquadratura, lascia quindi trasparire una certa esperienza nell’uso del mezzo tecnologico, da parte di qualcuno che non è poi così distante dalla civiltà moderna, quanto in apparenza saremmo forse portati a credere, come molti dei commentatori all’affascinante ed ormai celebre contingenza. Il che ci porta al secondo strumento interpretativo, ovvero l’abbigliamento del nostro eroe, chiaramente derivante da una discendenza culturale ragionevolmente precisa, non tanto per la veste lunga e legata in vita, il tipico deel diffuso nell’intero areale culturale mongolo, quanto per l’iconico e riconoscibile copricapo…

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Lo Zen e l’arte di vestirsi nel kendo

In una scena intimamente legata alla percezione nazionale del bushido, codice comportamentale dei samurai messo formalmente per iscritto soltanto tra il 1709 e il 1716, un guerriero trionfatore di molte battaglie assiste per caso alla scena di un ladro col coltello che ha preso in ostaggio un bambino, rifugiandosi all’interno di un granaio. Facendosi quindi prestare le vesti da un monaco che assisteva impotente, costui si avvicina in modo amichevole al criminale, offrendogli attraverso la porta un paio di polpette di riso. Nel momento in cui quest’ultimo sembra sufficientemente distratto, quindi, l’uomo lo disarma con un solo fluido movimento, ribaltando la sorte terribile della giornata. Un racconto il quale, oltre a far parte di una delle prime e più memorabili sequenze de “I sette samurai” di Akira Kurosawa, viene tradizionalmente associato alla figura di Kamiizumi Nobutsuna, generale del Sengoku Jidai (Epoca del Paese in Guerra – 1467-1603) nonché fondatore della scuola di combattimento Shinkage-ryū, una delle prime a realizzare come l’epoca delle armi bianche stesse finendo, lasciando il passo a tutta la potenza espressa da un semplice moschetto con la miccia pronta ad ardere nell’ora del bisogno. E proprio qui troviamo ancora una volta, tra le altre cose, la sola ed unica vittoria del condottiero che non necessita neppure di tirare fuori le sue armi, avendo raggiunto uno stato di comprensione pressoché totale del suo nemico, come seppe fare egli nel momento in cui passò a servire il clan degli Uesugi, difendendo per sette anni il castello di Minowa dalla furia incontenibile della tigre del Kai, Takeda Shingen. Ma Nobutsuna resta anche interconnesso all’invenzione di una nuova metodologia d’addestramento dei suoi sottoposti, in cui essi venivano incoraggiati a fare pratica di scherma non più usando delle pericolose spade vere, o il potenzialmente altrettanto letale bokken (pezzo di legno lavorato per avere forma, dimensioni e peso equivalente) bensì un nuovo oggetto di sua personale concezione, costituito da una serie di 16 stecche di bambù legate assieme e ricoperte da un’involucro di cuoio. Concepito per piegarsi quando venivano vibrati i colpi, permettendo in questo modo d’incassarli senza riportare alcun tipo di danno permanente. E quando neanche questo sembrò più bastargli, dinnanzi alla necessità di una preparazione superiore per quell’epoca di cambiamenti, decretò che gli studenti succitati indossassero anche un qualche tipo d’armatura leggera, in qualche modo capace di riprendere le funzionalità di quella usata in battaglia.
Da principio, ad ogni modo, non esisteva un particolare standard di realizzazione per simile abbigliamento, situazione destinata a proseguire almeno fino all’epoca Shōtoku (1711–1715) durante cui Naganuma Shirōzaemon Kunisato, considerato l’effettivo fondatore dell’arte marziale del kendo (剣道  – Via della spada) codificò l’impiego degli odierni shinai ( 竹刀 – spada di bambù) e bōgu (防具 – armatura) entrambi elementi propedeutici a finir di trasformare l’eterna ricerca di una serie di tecniche d’uccisione pressoché istantanea in un vero e proprio sport, praticabile senza nessun tipo di conseguenze ai danni di chi desiderasse cimentarsi nel praticarlo. In una perfezione concettuale che riemerge, molto chiaramente, dall’osservazione del qui presente video facente parte del ricco repertorio di THE MAKING, pluri-decennale serie televisiva giapponese incentrata sulla fabbricazione degli oggetti di “uso comune” esattamente come l’occidentale How It’s Made canadese. Nel corso del quale, con la tipica perizia artigiana di questo paese, un sapiente creatore mette assieme tutti gli elementi necessari alla creazione di una panoplia completa, a partire dall’iconica e perfettamente riconoscibile maschera del guerriero…

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Le parrucche stravaganti poste in capo al sistema giudiziario inglese

Ci sono grandi meriti, ma anche un senso fondamentale di malinconia, nell’essere gli ultimi rappresentanti di un qualsiasi tipo di concetto o procedura. E questo è vero sia a livello delle usanze nazionali che nello specifico, per coloro che possiedono e dirigono, attraverso i mari tempestosi di quest’epoca post-moderna, l’espressione commerciale di un’antica tradizione di famiglia. Sto dunque per annunciare, per il tramite di quest’introduzione, la figura di Christopher Allan, Direttore del settore Legge e Cerimonie presso l’antica e stimata sartoria londinese di Ede & Ravenscroft, nel presente video intervistato in uno dei concisi, e come sempre memorabili servizi della serie GBS – Great Big Story. “Udite, udite” (e toglietevi il cappello. Non toglietevi i capelli) “Innanzi ai gentiluomini e le gentildonne della Corte, fa il suo ingresso colui che, a suo modo, può permettere l’esistenza di codesto approccio, se vogliamo dirlo, Visuale alla questione.” Perché un conto è dire che la legge è uguale per tutti, mentre tutt’altra cosa dare forma a quel sentimento secondo cui coloro che la praticano, ed in molti casi la difendono, dovrebbero anche loro assomigliarsi tutti quanti. Nel vestiario, il modo di parlare, nell’aspetto e addirittura, quel che hanno sulla testa.
Già, parrucche. Come tanti altri accessori di vestiario, in origine un sinonimo di vanità, per poi diventare un segno di decoro, distinzione, addirittura pudica avvenenza situazionale. Intrinsecamente associate alle figure dei giudici e degli avvocati inglesi nonostante esse costituiscano, nello schema generale delle cose, un’aggiunta relativamente recente al loro guardaroba, benché fosse sempre esistito, fin dal XIV secolo, una “convenzione” ad abbigliarsi in una certa maniera, dar risalto a dei particolari aspetti implicati dal proprio ruolo. Poiché l’immagine ha un potere, come ben sapeva re Edoardo III (1327-1377) iniziatore della guerra dei cent’anni essendosi autoproclamato re di Francia, in aggiunta all’Inghilterra, ma non prima di aver dato ad intendere che ogni giudice preposto all’esercizio della legge britannica portasse un certo tipo di mantello, in base alla stagione ed alle circostanze. I quali dovevano essere d’ermellino o taffetà (seta) e di colore verde in estate, viola d’inverno, rosso per le alte cerimonie, venendo donati a tale scopo proprio a spese e per premura della Corona stessa. La questione sarebbe stata dunque formalizzata soltanto nel 1635, attraverso l’atto del re Carlo II intitolato The Judges Rules; non che ve ne fosse stato alcun bisogno, fino a quel momento: la parola ed il volere del Re sono legge, anche quando non vengono accompagnati dal suo sigillo sopra un foglio o carta dei diritti dei suoi sottoposti… Salvo rare, problematiche eccezioni. Caso volle, in effetti, che la particolare storia personale di quel sovrano, il cui padre era stato decapitato dal dittatore Oliver Cromwell sulla pubblica piazza, prima di ritornare al trono grazie alle campagne militari dei lealisti avesse trascorso quasi un’intera decade in esilio, spostandosi tra l’Olanda e la Francia d’epoca Barocca. Ove il concetto della moda e del gusto derivava, in quel periodo, principalmente da una singola eminente figura: quella di Luigi XIV, l’abbagliante Re Sole. E tutti sanno che costui, ogni qualvolta appariva in pubblico era solito indossare spettacolari ancorché voluminose parrucche. Ad ogni modo, secondo alcuni, l’inclusione della regola per indossarle “volenti o nolenti” all’interno delle sue aule di legge, potrebbe anche essere stata una sorta di benigna vendetta, verso quell’elite che nel momento del bisogno, aveva mancato di agire per proteggere la propria dinastia…

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