Che fine ha fatto il tempio delle tigri thailandesi?

L’istituzione del Wat Pha Luang Ta Bua Yanasampanno ha molti primati: è l’ultimo luogo di culto nelle foreste della provincia centro-meridionale di Kanchanaburi, è il più importante luogo d’insegnamento della dottrina del buddhismo Theravada nel suo paese, è l’unico luogo al mondo dove sia esistita, per un lungo periodo, una concentrazione di 147 tigri indocinesi. Animali, questi, non propriamente conformi allo stile di vita di un branco, né tanto facili da reperire, o economici da mantenere, affinché sia possibile generalmente costituirne un allevamento. Ed in effetti in linea di principio, il luogo non potrebbe essere più lontano da questo: assurto alle cronache internazionali e l’entusiasmo dei turisti a seguito del 1994, quando il leader religioso Phra Wisutthisarathen ricevette, secondo il racconto ufficiale, un cucciolo di tigre molto malato dagli abitanti di un villaggio vicino. Ora a quanto ci viene detto, all’epoca quest’uomo era affetto da leucemia ed aspettava pacificamente la sua morte, confidando nella parola di Buddha piuttosto che la scienza e la tecnologia, così che decise che avrebbe fatto del bene fino all’ultimo momento della sua vita, condividendo il proprio destino con quello dell’animale. Ora se fossimo in Occidente, potremmo definire il successivo corso degli eventi come una sorta di miracolo; fatto sta che l’uomo, e la tigre, sarebbero stati salvati e a partire da quel momento, costui avrebbe dedicato il resto della propria esistenza a preservare, proteggere ed amare uno dei più imponenti e terribili carnivori su questa terra. Così è scritto, parola delle guide turistiche, dei cartelli informativi e dei travel blog.
La realtà dei fatti, a seconda di come si scelga d’interpretare l’evidenza, può realizzarsi lungo dei sentieri largamente differenti. Perché quello che ormai da oltre due decadi viene chiamato sulla scena internazionale il Tiger Temple, da quel momento è profondamente cambiato, cominciando dall’appariscente arco d’ingresso a forma di bocca felina spalancata che campeggia in corrispondenza della strada provinciale, passando per le numerose gabbie e il canyon pietroso artificiale situato nei suoi terreni. Per non parlare della specifica correlazione richiesta ai visitatori in termini di “donazioni”, direttamente corrispondente al tipo e quantità di esperienze che decidano di fare: volete giocare coi carnivori agitando il lungo bastone con l’esca all’estremità, come la piuma di un gattino? Nessun problema. Volete accarezzare i pacifici bestioni e farvi un selfie in grado di gettare nello sconforto i vostri amici e parenti nello spazio digitale del social web? Sarà meglio preparare il portafoglio. Anche nutrire i cuccioli mediante biberon è assolutamente possibile, a patto di poter contribuire finanziariamente alla loro crescita e mantenimento futuro. Perciò chiaramente questo è un posto che, se pure nato con le più altruistiche intenzioni e un sincero amore per gli animali, negli anni ha assunto molte delle innegabili caratteristiche della perfetta macchina per far spendere i turisti, con un fatturato annuo che è stato a più riprese stimato sui plurimi milioni di dollari. Eppure, dov’è il maestoso edificio principale del tempio, dove le auto sportive, il lusso sfrenato, gli spazi dedicati a uno stile di vita opulenta dei monaci corrotti dai bisogni dell’ego? Certo, è possibile che una parte dei capitali sia stata spostata in conti all’estero, per assicurare il futuro di chi aveva questa possibilità. Mentre un’altra cosa, è totalmente certa: mantenere 147 tigri ha un costo niente affatto indifferente. È non è poi tanto difficile da credere, come più volte affermato dinnanzi media internazionali dal segretario dell’abate, che il profitto risultasse grandemente inferiore a quello presunto dagli osservatori esterni.
Ben più problematica da smentire è invece sempre risultata essere la voce, ancora oggi estremamente diffusa tra i commentatori, che le tigri dovessero essere necessariamente drogate con un sedativo dal momento dell’apertura del tempio nei confronti dei visitatori. In quale modo, altrimenti, sarebbe stato possibile far mescolare queste belve feroci con persone provenienti da fuori, anche dopo avergli fatto firmare la liberatoria d’ordinanza… E proprio questa sembrerebbe essere l’unica effettiva possibilità, quando si considera l’atteggiamento straordinariamente mansueto degli animali. Per non parlare degli “integratori vitaminici” usati come additivo nel loro cibo, rigorosamente servito in porzioni il più possibile insapori, affinché non possa risvegliare istinti ritenuti sopìti. Proprio a proposito di questo nel 2015, all’apice delle controversie vissute fino a quel momento, il veterinario in capo e vecchio amico dell’abate Phra Wisutthisarathen offrì un’intervista al canale cinese CCTV, garantendo che si trattasse di voci infondate anche in funzione delle testimonianze dirette dei volontari stranieri, una fondamentale parte del personale del tempio. Per poi lasciare spazio a una disanima verso cui nessuno, neppure i più scettici, potrebbe offrire valide obiezioni: “L’habitat di queste tigri è ormai ridotto ai minimi termini da molte generazioni. Ditemi voi come, senza il nostro aiuto, potrebbero mai sopravvivere questi animali.” E per quanto concerne l’accusa di usare della droga? “Ridicolo, mere illazioni. Le tigri sono calme perché gli diamo da mangiare prima dell’orario di apertura. Per il resto, si comportano come i felini quasi-domestici che oramai, sono diventate.”
Furono in molti a voler credere a questa versione, tutto sommato non poi così diversa dal paradigma degli zoo occidentali. Verso l’inizio del 2016, tuttavia, la situazione era destinata a precipitare drammaticamente, verso un abisso da cui sarebbe stato impossibile risalire…

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Picchio insistente, verso stridente, collo di serpente

Sarebbe certamente irrispettoso paragonare il complesso sistema di processi chimici, biologici e termodinamici alla base della vita di un uccello allo scatto di una molla tra ingranaggi meccanici, cuore funzionale di un giocattolo alimentato coi metodi di un tempo. In un mondo in cui il divertimento, per grandi e piccini, è sempre maggiormente interconnesso a pixel digitali luminosi che s’inseguono da un lato all’altro del display del cellulare, mentre i neuroni del cervello umano tentano d’interpretarli come pesci ed astronavi, scegliere di far passare il tempo traendo svago da un curioso movimento, avanti e indietro, avanti e indietro avanti e… Questo ed altro, può succedere, a coloro che hanno la passione delle cose vere. Poiché sanno che il sincero senso della meraviglia non è sempre virtuale. Ma tangibile, come il soffio lieve delle penne trasportate via dal vento, assieme al loro aviario e avìto possessore. Picchio, sulla base della propria discendenza. Eppur non picchio, genetica a parte, perché vive in modo totalmente differente. Zampettando in terra, piuttosto che attaccato agli alberi, senza fare nessun buco ma cercando quello di altre specie. Ed infilando la sua lunga lingua appiccicosa nelle tane di formiche ed altri insetti. E quando tu dovessi scegliere di sollevarlo, prenderlo in mano e metterlo dinnanzi all’obiettivo della telecamera, trasformarsi nella bestia che più d’ogni altra è il segno del terrore degli uccelli; un sibilo strisciante, sempre semovente, subdolo serpente.
Certo, il suo metodo recitativo è largamente aperto a una pluralità d’interpretazioni. Così gli antichi, fin dall’epoca in cui i greci erano soliti chiamarlo iunx, piuttosto che l’astuto mimetismo in tutto questo erano soliti vedere il metodo mistico per fare un qualche tipo di stregoneria. Al punto che il termine in lingua inglese jynx (maleficio) ha una provenienza etimologica che permette di ricondurlo fino a questi volatili, il cui areale migratorio si estende per buona parte d’Europa, l’Asia Occidentale e la parte nord dell’Africa; in epoca medievale, quindi, diventò diffusa la credenza secondo cui legare una di queste creature a un lungo spago, lasciandola volteggiare sulla testa del bersaglio del nostro amore, avrebbe in lei o lui indotto sentimenti equivalenti e irresistibili, senza neppure far ricorso a costosi filtri o altri metodi da fattucchiera. Nome scientifico: Jynx Torcicollis. Ma voi chiamatelo, se preferite, semplicemente torcicollo. Questo è un uccello piuttosto comune in Italia, eppure non così noto tra il pubblico generalista. Poiché prima di conoscere il suo curioso atteggiamento difensivo, benché simpatico e aggraziato, non pare dimostrare alcuna caratteristica particolarmente distintiva. Uccello snello della lunghezza di 16 cm circa, con una cresta poco pronunciata e colorazione criptica marrone chiaro a macchie, restituisce un’impressione che lo fa assomigliare maggiormente a un tordo piuttosto che ai suoi cugini picchi, famosi per il piumaggio dai fantastici contrasti bianchi, neri e rossi. La coda è tonda e corta, senza le rigide piume concepite per bilanciarsi verticalmente mentre si scala la superficie ruvida di un tronco. Questo perché l’attività di foraggiamento tipica del simpatico volatile, nei fatti, si configura come quella di un comune passero e piccione, mentre percorre saltellando le verdeggianti radure dei boschi o i frutteti, alla ricerca dei piccoli artropodi o vermi di cui si nutre. Il becco è lungo e a forma di cono, ma non appuntito quanto quello di chi si organizza per sopravvivere scavando all’interno del legno degli alberi stessi. Per quanto concerne il nido, d’altra parte, il torcicollo è solito adottare un atteggiamento fortemente opportunista. Trattandosi di un uccello che non ha mai imparato, attraverso la sua lunga evoluzione, a raccogliere rametti ed intrecciarli in corrispondenza dei rami, la sua propensione è quella di trovare una cavità precedentemente abbandonata da altri picchi e deporvi all’interno le proprie 7-10 (fino a 12) uova. Eppur nel caso in cui una tale opportunità dovesse mancare di presentarsi, non perdendosi affatto d’animo, maschio e femmina saranno pronti a collaborare per prendere letteralmente d’assalto la tana arboricola di qualcuno di più piccolo, scacciando i genitori e scaraventando uova e pulcini oltre il baratro della non-esistenza. Per questo stiamo parlando di un uccello che fu sempre associato, nell’immaginario comune, allo spietato cuculo con i suoi metodi da parassita genitoriale, benché a voler essere pignoli, il crimine costituisca per lui soltanto l’ultima risorsa, piuttosto che l’abitudine. Perché non si può sempre interpretare il ruolo del serpente, senza scivolare, almeno una volta, nella rettiliana insensibilità dei processi cognitivi applicati alla convenienza…

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Gruppo di scienziati avvista l’anguilla ingoiatrice

Sotto un’incommensurabile massa d’acqua, equivalente grosso modo alla metà del monte Olimpo in Grecia, all’interno dell’area definita il monumento nazionale hawaiano Papahānaumokuākea, qualcosa si aggira non visto e non conosciuto dagli occhi di chicchessia. Qualcosa di nero. Qualcosa di strano. Qualcosa di minaccioso. Creatura rigonfia benché longilinea, la cui coda simile a una frusta termina con una serie di tentacoli, tra i quali lampeggiano occasionalmente piccoli bagliori di luce rossa. E la cui testa, simile a un palloncino… Ma è davvero una testa, quella? In assenza di una terminologia chiara a cui si possa fare riferimento, tutto quello che abbiamo a donarci residue certezze è il commento della voce fuori campo, possibilmente appartenente ad una delle maggiori esperte globali in materia. Parole profonde e altrettanto cariche di significato: “Sembra arrabbiato… Non trovate anche voi che assomigli a un muppet?”
È un fatto ormai noto su Internet che, per chi apprezza sentir tornare momentaneamente bambini dei validi professionisti con lunghe carriere scientifiche alle spalle, conferme accademiche e pubblicazioni di conclamata importanza, nessun canale YouTube risulta essere migliore di quello della nave oceanografica EV (Exploration Vehicle) Nautilus, riconvertita a scopi scientifici in California dopo essere stata a lungo usata per effettuare rilevamenti presso i relitti della corazzata Bismarck e il celebre Titanic. Risorsa costituita da una raccolta delle trasmissioni inviate via satellite all’Università del Rhode Island attraverso cui, molto spesso, l’incredibile materiale viene ripubblicato in diretta online. Il risultato è un repertorio apparentemente inesauribile di segmenti ripresi in alta definizione dal sommergibile telecomandato Hercules facente parte della dotazione di bordo, attraverso cui il grande pubblico viene invitato conoscere l’aspetto e il comportamento di alcune delle più rare o strane creature di tutto il mare. Avviene tuttavia, con frequenza relativamente elevata, che determinate scoperte siano semplicemente troppo buffe, divertenti e al tempo stesso significative, perché possano restare esclusivo appannaggio delle personalità più curiose del web. Ed è allora, immancabilmente, che i video in questione finiscono per essere ripresi dalle principali testate giornalistiche, come contenuti di spicco per le loro sezioni dedicate a scienza o curiosità naturali.
Un catalogo, questo, a cui certamente non poteva mancare l’avvistamento dell’altro ieri di una rara e misteriosa Eurypharynx pelecanoides, comunemente detta anguilla ingoiatrice o pellicano per la presenza di un’ampia sacca in corrispondenza della mandibola, inerentemente snodata come quella di un serpente. Ciò detto, trattandosi di un pesce che vive tra i 1.500 e i 3.000 metri di profondità, tutto quello che potevamo affermare di saperne fino ad ora era dedotto per inferenza, dalla sua rara cattura accidentale all’interno delle reti dei pescatori. Capite dunque, in effetti, ciò di cui stiamo parlando? È il primo avvistamento registrato di questo animale dal vivo, nel suo ambiente naturale nei recessi oceanici più remoti di questa Terra. Anche se in molti, presumo, sarebbero pronti a giurare che una simile creatura possa esistere soltanto nei mari segreti di Marte, Venere o Europa, il satellite ghiacciato di Giove.

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Questo gatto non è un lupo mannaro

Che cosa ha molto pelo alla nascita, poco pelo una volta raggiunta l’età adulta, e di nuovo un folto manto color roano per tutto il corso della propria vecchiaia? Orecchie morbide e flosce. Piedi lunghi e talvolta, palmati. Con un muso parzialmente glabro in grado d’incrementare, con la giusta luce, l’impressione della profondità. Di sicuro, non è uno Sphynx. Il nobile e famoso gatto anallergico, la cui caratteristica principale è la presenza di un gene che impedisce la keratinizzazione, prevenendo di fatto il funzionamento dei follicoli e producendo di fatto un animale del tutto glabro. E neanche un topo-lupo-gatto-creatura-misteriosa, come sembrano voler affermare innumerevoli testate di curiosità, articoli semi-seri o disquisizioni relativamente disinformate sui principali hub memetici del web. Bensì un gatto vero, celebre per la sua intelligenza e l’indole giocosa ma possessiva, stranamente simile a quella di molte tipologie di cani. E a partire dal maggio del 2017, una razza effettivamente riconosciuta dal TICA (l’Associazione Nazionale Felini) qualificata per questo a competere nei concorsi di fama internazionale, a patto di possedere l’appropriato pool di caratteristiche, conformi a quelle della stirpe originaria. Un importante punto di distinzione, quest’ultimo, poiché il termine identificativo Lykoi (parola greca per il termine “lupo”) sembra essere usato ad oggi dagli amanti dei gatti in due contesti simili ma diversi: uno è l’esemplare, di qualsiasi aspetto, forma o dimensione, caratterizzato dall’assenza topica di sottopelo e che piuttosto che seguire una muta stagionale, sembra perderlo e riguadagnarlo durante fasi diverse della propria esistenza. L’altro è la discendenza dell’incrocio creato a partire da due specifiche cucciolate di quelli che vengono convenzionalmente definiti Domestic Shorthair, ovvero gatti privi di pedigree, venute entrambe in possesso della coppia di allevatori Johnny e Brittney Gobble nello stato del Tennessee durante il mese di luglio dell’anno 2010, con la collaborazione di Patti Thomas. Che contribuì a trovare un nome per quella particolare collezione di geni che tutte le personalità citate, pressoché subito, ritennero meritasse di essere preservata.
Nonostante l’opinione del pubblico. Contro le aspettative del senso comune. Il problema affrontato spesso dagli allevatori è che essi vengono ritenuti, fin troppo spesso, completamente responsabili delle loro supposte “creazioni” come se essi, lavorando in una sorta di laboratorio del Dr. Frankenstein, s’industriassero per garantirsi i maggiori e più proficui presupposti di guadagno. Una concezione questa che sembra trovare la massima espressione nella corrente di pensiero, assai popolare al giorno d’oggi, secondo cui l’unico modo legittimo di procurarsi un animale domestico sia sceglierlo presso un canile, sulla base della propria preferenza estetica o senso d’altruismo innato. Il che in effetti, non può che generare alcuni significativi problemi: perché chi mai adotterebbe un gatto o una gatta che pur godendo di ottima salute, al primo, secondo e terzo sguardo sembrano effettivamente malati di rogna? Proprio questa potrebbe essere la domanda che si posero i Gobble all’epoca, o forse si trattò semplicemente dell’occhio esperto di due sinceri amanti degli animali, che seppero intravedere nei loro nuovi beniamini un diverso tipo di bellezza, del tipo che molti dei cosiddetti benpensanti sarebbero stati pronti a giudicare in tutt’altro modo. Di certo, i cinque capostipiti elencati sul sito ufficiale Silver Lining Wolfie, Ray of Hope, Hillbilly Moonshine, Eve Havah e Opossum Roadkill (mai nome fu maggiormente carico di sottintesi) non assomigliavano ad alcun altro gatto che fosse stato fotografato o mostrato con orgoglio prima di allora, risultando piuttosto conformi ad un certo tipo di stereotipo, che potremmo avvicinare, come vuole la convenzione, all’interpretazione cinematografica classica dell’uomo lupo.
Una creatura sovrannaturale e composita, imprevedibile, soggetta alla furia trasformativa, nonché sanguinaria, della luna piena. Lo sterminatore di cacciatori impreparati, indipendentemente dalla quantità di munizioni argentee che questi ultimi abbiano portato con se all’avventura. Non proprio il tipo di suggestioni considerate desiderabili in un gatto, se è vero che ancora esistono persone che cambiano strada, qualora un felino di colore nero dovesse azzardargli a transitargli davanti in senso perpendicolare alla marcia. Eppure non è forse vero che qualsiasi animale, indipendentemente dal suo aspetto o caratteristiche ereditarie, dovrebbe avere diritto a una seconda possibilità? E chi ha detto che il brutto anatroccolo debba necessariamente diventare un cigno, per assumere un ruolo di primo piano tra il consorzio più o meno pennuto del vasto stagno attraverso il procedere delle Ere…

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