Annuso, perciò distruggo: il sofisticato linguaggio chimico di una terribile stella marina

La guerra infuria sotto i flutti, lontano dagli occhi umani che potrebbero tentare di giudicarla. Quietamente operosa, la colonia tende all’espansione in base a linee guida chiaramente definite dall’esperienza. Ogni qual volta un insediamento significativo dei coralli commestibili viene trovato da un rappresentante della collettività, questi non soltanto inizia infatti fagocitarlo. Bensì nel farlo, erigendo la sua rigida corazza ricoperta d’aculei, impiega questi ultimi per sprigionare la complessa essenza chiarificatrice, che i suoi simili raccolgono senza fatica a distanza di decine o centinaia di metri. Questa la chiara legge dell’Oceano e tale l’interesse egoistico della collettività bentonica, il cui aspetto è variopinto e caratterizzata dalla propensione a muoversi lungo i canali che conducono a migliori prospettive di sopravvivenza. Ma “chi si ferma è perduto” e così i più rappresentativi assembramenti, dell’echinoderma noto come Acanthaster planci o stella corona di spine, se lasciati a loro stessi crescono in maniera esponenziale col passare dei giorni. Finché le alte barriere costruite dai polipi degli antozoi non vengano completamente ricoperte, risucchiate un distretto alla volta e trasformate in grandi spazi desertici e svuotati di ogni prospettiva di resilienza. È il terrore dell’Indo-Pacifico ciò di cui stiamo parlando, sebbene gli scienziati si siano lungamente interrogati su come facesse un simile animale, anatomicamente primitivo e totalmente privo di un vero e proprio cervello, a coordinarsi con la chiara precisione annichilente di un esercito impegnato in territorio nemico. Allorché sapendo della comprovata perizia olfattiva posseduta da questi predatori fortemente specializzati, un gruppo di ricercatori australiani e giapponesi guidati da Richard J. Harris del dipartimento di scienze marine di Cape Cleveland hanno condotto una serie di esperimenti fuori e dentro il laboratorio. Individuando quale fosse il vero e proprio vocabolario, composto di speciali proteine dette attrattine, impiegato dalle voraci predatrici dai sinuosi arti ricoperti da aculei. Il che ha permesso di annotare per la prima volta, sebbene la questione fosse già nota dal punto di vista aneddotico, l’insorgenza di una sorta di calcolo distribuito capace di condurre all’intelligenza, almeno parzialmente responsabile del terribile effetto posseduto da queste creature sull’ecologia marina latente. Sebbene l’esistenza di una simile modalità comportamentale, almeno dal punto di vista teorico, possa offrire dei possibili spunti per efficaci contromisure nei sempre più drammatici anni a venire…

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Il rischio spesso sottovalutato dell’albero di palma con gli aghi dentro

Frequentando certi spazi multimediali di Internet, diventa gradualmente più facile determinare la natura spettacolare o esorbitante di determinati contenuti online. Talvolta per la qualità delle immagini mostrate. Certe altre è l’argomento. O ancora può trattarsi del commento fuori campo dell’autore, coadiuvato da un’approfondita descrizione divulgativa in qualità di didascalia. Ma soltanto in rari casi è al termine della fruizione, durante la lettura dei commenti, che si riesce finalmente ad acquisire la portata nozionistica di quanto si è appena visto. Questa è senza dubbio l’opportunità che viene offerta dal qui presente capitolo dello sperimentatore gastronomico “All The Fruit”, viaggiatore tedesco operante sulla falsariga di tanti altri influencer a cui non manca il coraggio di trangugiare i più diversi frutti situati sopra i rami più alti degli alberi di questo vasto mondo. Sequenza videografica entro la quale egli osserva, descrive e infine tocca senza esitazione un albero facilmente riconoscibile come l’arecacea che gli anglofoni chiamano fishtail palm (palma a coda di pesce) ma nella natìa India ed il resto dell’Asia Meridionale viene definita molto più semplicemente khitul.
Un albero dal tronco distintamente isolato e le famose foglie sfrangiate, ma anche le copiose, attraenti cascate di frutti sferoidali simili a datteri multicolori o chicchi d’uva sovradimensionati. Che come preannunciato all’inizio della sua dichiarazione costui, almeno a quanto ci viene fatto capire, arriva addirittura a trangugiare. Al che “Sei pazzo?” scrivevano in calce al canale: “Come ti senti? Non hai dolore?” Ottenendo lì soltanto la laconica risposta: “Yes.” Un eufemismo se mai ce n’è stato uno, degno di essere approfonditamente delineato. Giacché pressoché chiunque abiti o abbia sperimentato quell’angolo di mondo per un tempo abbastanza lungo, ha ricevuto almeno una volta il perentorio avviso: non toccare, non avvicinarti senza guanti e soprattutto NON MANGIARE la palma khitul. Se non vuoi sperimentare un sublime livello di sofferenza che potremmo definire, in modo metaforico, la perfetta traduzione funzionale dell’inferno in Terra…

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Centodieci punte di coltello nella bocca del più longevo assassino del Burundi

Variegate sono le leggende che si affollano nella coscienza collettiva dei contesti urbani, in un labirinto di mistiche apparizioni, oggetti fuori dal comune, voci provenienti dal sottile velo che divide il regno del tangibile dall’illusione. Ma basta trasferire la tua lente scrutatrice in un ambiente dove la semplice sopravvivenza è meno garantita, per trovare un filo conduttore ininterrotto che si estende dai primordi della civilizzazione fino alle disquisizioni di taverne o centri del villaggio dei giorni odierni: l’idea che la natura è Pericolosa e le creature che in essa sussistono, possono sostituire a pieno titolo i recessi dei tuoi incubi più orribili ed al tempo stesso terrificanti. Come l’esperienza tanto spesso vissuta, stando ai resoconti registrati ed alcune comprovate prove documentali, dal tipico pescatore del bacino idrografico circostante il lago più lungo al mondo. Che avvicinandosi in maniera cadenzata a quello che sembrava essere da ogni punto di vista rilevante un isolotto formato da terra e fango, ha rilevato prima l’evidente progressione di una serie di scaglie ripetute sopra il “dorso” del compatto rilievo. Quindi, ha visto poderose fauci spalancarsi all’improvviso su di un lato, sufficientemente ampie da riuscire a trangugiare la sua testa, spalle e pure il remo usato come ultimo strumento di protezione. Ed è allora che ha iniziato a correre. O perire.
Quanto è grande, esattamente, il più significativo dei coccodrilli nilotici, che in media viene giudicato il secondo rettile più imponente al mondo? Accantonando a questo punto la risposta che potreste aspettarvi, sulla falsariga di “Lo zoo di [X] ne ha tenuto un esemplare in grado di raggiungere [X] Kg nel corso della sua lunga vita” possiamo ritornare tra le opache acque del fiume Ruzizi nel piccolo paese africano del Burundi, rinomato tra le altre cose come la dimora della singola cosa più vicina a Godzilla mai vissuta in epoca contemporanea agli umani, fatta eccezione possibilmente per esemplari ignoti appartenenti alla distante schiatta del coccodrillo marino australiano. Un mostro in grado di raggiungere o persino superare i 6 metri di lunghezza. Ed i 900 Kg di peso. E sia chiaro, nel contempo, che quelle citate non costituiscono neppure le cifre più notevoli connesse alla complessa vicenda della sua vita. Essendo il caso di Gustave (questo il nome) direttamente collegato al potenziale verificarsi di una quantità variabile tra le 60 e le 300 morti umane. Dovute al rapido e purtroppo inevitabile incontro con la colossale, impressionante capace di scattare in avanti, con velocità paragonabile a una trappola di tipo assolutamente letale…

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La pianta che costruisce in modo autonomo la propria serra sulle pendici dell’Himalaya

Iterativa nel catalogo delle stranezze, curiosità e globali meraviglie che compaiono su Internet, è il ritorno di un improbabile quanto diffusa esagerazione proveniente da diversi paesi asiatici allo stesso tempo. La leggenda di una pianta particolarmente spettacolare, che cresce con la forma di una piramide fino all’altezza di “svariati metri” soltanto una volta ogni 400 anni. Qualche volta è inclusa una figura umana nelle immagini, non più alta in proporzione di quanto potrebbe esserlo accanto ad T-Rex. Laddove spesso un abile utilizzatore di Photoshop, o in tempi più recenti il momentaneo tramite umano per un semplice intervento dell’I.A, hanno ritenuto di renderne l’aspetto ancor più interessante, tramite l’aggiunta di vistosi fiori gialli, rossi, viola o arancioni. È la Singola Pagoda, il simbolo del cielo, la punta di una lancia verderame che in maniera solitaria spunta, dal compatto spazio sotterraneo dove regnano le insostanziali fantasie delle persone. Oh, nobile rabarbaro (se questo è veramente il tuo nome) perché al giorno d’oggi, neanche tu sembri più essere davvero abbastanza?
Qualora noi scegliessimo come spunto d’analisi, per qualche attimo ef a seguire tutto il tempo necessario, di riportare a proporzioni meno immaginifiche il nesso conico della questione, sarebbe il metodo scientifico a guidarci nella comprensione di un qualcosa che effettivamente esiste ed inserito nel suo tangibile contesto, per certi versi può essere considerato addirittura più notevole. Essendo un unicum letteralmente privo di termini di paragone. Membra relativamente rara della famiglia delle Poligonacee, cui appartiene anche il rabarbaro europeo, quella che in lingua latina viene definito Rheum nobile è una pianta erbacea originaria del Pakistan, del Nepal e del Bhutan, ma diffusa soprattutto nella regione indiana del Sikkim non lontano dall’ideale tetto del Mondo. Zona entro cui per la prima volta gli studiosi occidentali Joseph Dalton Hooker e Thomas Thomson si trovarono a descriverla nel 1855, durante un’escursione nella valle di Lachen all’altitudine di 4.300 metri. Quando non riuscirono, all’inizio, a categorizzarla in modo molto più specifico del mero regno di appartenenza. Immaginate dunque l’evidenza di una simile espressione vegetale, capace di raggiungere nella realtà dei fatti anche i tre metri d’altezza, in un ambiente dove tra le rocce scarne le poche forme di vita vegetative non si estendono comunemente oltre i pochi centimetri d’altezza, per proteggersi quanto possibile dal vento, dal gelo e i raggi ultravioletti in grado di bruciare le loro foglie. Non che questo sembri preoccupare, in alcun modo, quello che può essere soltanto definito come il mistico sovrano del suo ambiente inospitale di provenienza…

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