Corre un fulmine di guerra sulle strade di quest’isola del Mar Mediterraneo Orientale. E con questo non intendo certo che si tratti di un podista; bensì l’unico creatore, principale utilizzatore, di una nuova razza di veicoli, il cui tratto distintivo è quello di venire tutti da una zona inesplorata della nostra mente. Quando si considera l’aspetto dominante di un sistema di trasporto personale, cosa giunge in primo piano nella nostra carrellata delle idee? Sicurezza? Efficienza? Velocità? Divertimento? Di sicuro tutto questo e almeno un ulteriore tratto, troppo spesso tralasciato (non è un caso) nella documentazione di supporto al marketing situazionale: la capacità di far voltare teste in modo semplice, spontaneo. Senza che si debba far ricorso al clacson, o altri simili implementi rumorosi. E in questo, se vogliamo, George (il costruttore) col suo amico e collega Michael (cineamatore) non hanno nulla da invidiare neanche al più orgoglioso miliardario in visita con la Ferrari, Lamborghini o altra quattroruote similare. Nella loro concezione di cos’è ciò che possa “correre” o per meglio dire “rotolare” sulle strade in puro asfalto di una delle ultime nazioni divise in due.
Cose turche, cose greche, cose leggendarie: come Achille che combatte col suo carro sotto le alte mura di Troia, e come l’ultima creazione del duo dinamico, a cui è stato attribuito niente meno che il numero 0100, nella lunga serie di video prodotti per YouTube al fine di poter mettere da parte i soldi necessari ad acquistare un’officina, realizzando quindi un sogno e trasformando la passione, in un lavoro. Sentimento in grado di creare, nel caso specifico, qualcosa di realmente inu…sitato. Eppure u…tile a suo modo, nel saperci ricordare che ogni ruota oltre la prima è un lusso e addirittura quella sola cosa, qualora si desideri, può essere ridotta al solo battistrada. Perché è cosa giusta, basta mettersi a pensarci! Prendere una bombola per immersioni, tagliarla in due segmenti trasversali mediante l’impiego della sega a freddo. Lavorarli con il tornio a mano ed adattarli con sapienza metallurgica frutto di anni ed anni, prima d’abbinare il tutto al motore da 100 cc di una piccola moto. Per dare gas, verso la gloria e l’infinito! Verso 1 milione d’iscritti al proprio canale. E verso i finanziamenti, generosamente concessi dai propri sostenitori online, tramite la piattaforma Patreon, come rimborso spese ed un sostegno monetario a simili grease monkeys di una foggia rara. L’implemento veicolare in se, del resto, è chiaramente il frutto di un’attenta pianificazione e doti manuali largamente fuori dal comune. Frutto di precise lavorazioni e saldature, poi dipinta di uno sgargiante color arancione (scelta criticata nei commenti, ma che cosa ci vuoi fare?) e coronata, sopra quello che potrebbe o dovrebbe essere il serbatoio della benzina, dalla prestigiosa dicitura limited edition. Che definirei, per inciso, tecnicamente ed assolutamente corretta, trovandoci di fronte a un vero e proprio pezzo unico anche per concezione, forse il principale erede del misterioso Kugelpanzer, uno dei panzer perduti della seconda guerra mondiale. Il che non toglie, d’altra parte, che le due menti dietro al format di successo Make It Extreme (questo il nome della venture titolare) siano privi di quel senso pratico che in rari casi, può condurre a mezzi utilizzabili nella vita di ogni giorno. Forse non molto pratici, ma utilizzabili…
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Il canto del vapore nell’ultima segheria tradizionale americana
Ah, i suoni rilassanti della foresta californiana in una tersa mattinata autunnale! Il canto armonioso del blue jay o ghiandaia azzurra americana, che si accompagna al lieve stormire delle fronde alla brezza proveniente dal Pacifico distante. L’assordante muggito del wapiti di Roosevelt in amore, che soverchia il motore di automobili distanti. Il ringhio lamentoso delle linci intente a definire i limiti del proprio territorio, a costo di provare le unghie sopra il pelo e sulla pelle dei propri simili apparentemente confusi. E un fischio sibilante, accompagnato dal fragore, dal tuono e il rombo e il fuoco del vulcano, proveniente dal complesso di edifici che ormai da oltre un secolo è presente, ad est della città di Redding, non troppo lontano dall’ufficio postale di Oak Run Road. Nell’area stranamente priva di alberi, situata tra le due macchie boschive (entrambe patrimonio Nazionale) di Shasta-Trinity e Lassen. Ove l’uomo intento a manovrare quelle leve ha imposto la sua legge, prelevando quanto necessario a…
Già, gli Stati Uniti occidentali! Terra d’oro e cercatori di quest’Ultimo, solennemente intenti a procacciare i presupposti della propria fama di ricchezza sin dal tempo delle origini, soltanto successivamente sostituiti da coloro che aspiravano alle luci di Hollywood e un altro tipo di vendetta contro il fato. Caso vuole, d’altra parte, che un diverso tipo di ricchezza naturale fosse posta, almeno in parte, sotto il suolo di una terra tanto fortunata. E con questo intendo, le propaggini delle radici, di quegli alberi di sicomoro e pioppo e frassino, il pino grigio e l’ontano, l’ippocastano e vari salici piangenti. Che pur non raggiungendo le vertiginose quote delle altissime sequoie sulla costa, potevano dar vita a un’ampia varietà di materiali nel campo edilizio, giungendo a offrire basi per un certo tipo di ricchezza ed una lunga saga familiare.
Sto parlando, tanto per venire al punto, di Ed Phillips e i suoi discendenti. L’uomo che verso la fine del XIX secolo, ragazzo poco meno che ventenne, capì che avrebbe realizzato il proprio sogno di bambino, costruendo e governando le complesse operazioni di una grande segheria. Concetto ben diverso, quest’ultimo, da quello che potremmo immaginare al giorno d’oggi: fatto di possenti macchinari ed imponenti ruote ad acqua, interconnesse tra di loro e collegate, tramite rudimentali trasmissioni e rulli di metallo, a una serie per allora avveniristica di seghe circolari. Quelle acquistate, grazie al patrimonio della sua famiglia attiva sino a quel momento in campo metallurgico, direttamente dall’attività della vicina Myers Mill, attività prossima al fallimento per una serie di sfortunate casistiche e probabile cattiva gestione. Così fu attorno 1897-98, per quanto ci è dato di sapere, che Ed con suo fratello Frank diedero inizio ad una simile avventura, lavorando giorno e notte con l’aiuto di attrezzi manuali, una singola ruota di mulino modello Pelton e macchinari fatti funzionare grazie all’energia muscolare degli animali. E tutto sembrò andare per il meglio, almeno fino 1913, quando un improvviso incendio, forse causato dalle lampade a kerosene che i due impiegavano all’interno di edifici costruiti prevalentemente in legno, fu la fine di un così riuscito esperimento. Erano gli anni antecedenti alla prima guerra mondiale, questi, ed un nuova pervasiva tecnologia si stava palesando ad ogni livello della società americana. Così al capostipite di tale impresa, ormai rimasto solo in famiglia, venne la geniale idea: perché non ricostruire la segheria Phillips, con le stesse modalità di un vero e proprio treno a vapore? Inclusa quella, particolarmente inaspettata, di potersi spostare dove “l’Oro” aveva un’altezza solidità migliore…
Il bruco artificiale che divora le centrali nucleari
Germania: la patria dei veicoli creati per un singolo, specifico obiettivo, prodotti in egual misura dell’ingegno di una squadra e il bisogno, simile all’evoluzione di esseri viventi, di rispondere allo scopo predeterminato. Ma quanta irritazione e quanto odio, attraverso lunghe decadi d’insopportabile presenza, dev’essersi saputa guadagnare un’imponente ciminiera, per giungere a dar forma al proprio intento con braccia idrauliche, ganasce seghettate ed una ruota ben oliata sopra cui avanzare, sopra il bilico di quel bordo alto 160 metri e così ingannevolmente Sottile… L’orlo superiore del cestino pieno di ottime speranze, acceso per la prima volta nel lontano 1987 e quindi spento, imprevedibilmente, dopo appena 13 mesi d’impiego causa ordine del Tribunale Amministrativo Federale. Per raggiungere un po’ in ritardo le conseguenze più visibili e liberatorie di una simile condanna, implicita ed inevitabile, giusto verso l’inizio dell’agosto 2019. Simbolo, questa centrale un tempo all’avanguardia di Mülheim-Kärlich (terra di Renania-Palatinato, in provincia di Coblenza) del fondamentale ripensamento programmatico di un’intera nazione, nei confronti di quel tipo di energia considerata a lungo come la più pulita, sicura, efficiente e “inesauribile” (ma davvero!) Pur essendo costata, nella fase originale della sua messa in opera, la cifra non indifferente di 7 miliardi di marchi tedeschi, grosso modo equivalenti a 3,5 miliardi di euro. Ma sapete a cosa non può essere attribuito un prezzo? Già, la vita e la sicurezza delle persone. Soprattutto quelle che si trovano all’ombra del vapore frutto di tante e tali barre d’uranio, sufficienti a produrre il quantitativo interessante di 1302 MW ed una volta che si è fatto notare nuovamente come, proprio sotto le sue fondamenta, scorresse il pontenziale magma di un antico vulcano. EPPURE, cosa difficile da trascurare, le norme costruttive anti-sismiche imposte da contratto al consorzio dei finanziatori ed alla RWE AG, principale compagnia energetica della Renania, non sono state pienamente rispettate. Tanto che l’unica direzione in cui era possibile dirigersi era quella di partenza. Per tornare, nuovamente, laboriosamente, al “prato verde” e un cumulo rimosso di grige macerie.
Ora demolire edifici di questa dimensione, svettanti verso il cielo ancor più in alto della cattedrale di Colonia, è già di norma operazione alquanto lunga & complicata. Ma basterà aggiungere all’equazione la presenza di molte tonnellate di materiale radioattivo da smaltire e la problematica vicinanza a infrastrutture di peso, come la vicina linea ferroviaria e stradale K44 che costeggia il fiume dei Nibelunghi, per rendersi conto di trovarsi di fronte ad un’impresa, se possibile, ancor più monumentale ed epica dell’ambizione che ne aveva fatto gettare le fondamenta oltre quattro, significative decadi fa. Tanto che tra tutte le possibili modalità possibili, sarebbe stata scelta la più insolita: iniziare la scalata all’incontrario, per questa volta soltanto, partendo dall’alto…
Dai visionari anni ’80, la perfetta unione tra un camper e il motoscafo
Cos’è l’oggetto sgargiante ed oblungo che si avvicina coraggiosamente al lago, due ruote del tutto in acqua, il lungo finestrino fumé accompagnato da un’armonia di colori azzurro-arancione dal gusto marcatamente retrò? Pronto a spezzarsi, incredibilmente, a metà! Sopra ed oltre l’invisibile barriera… Che si frappone tra il mondo acquatico e quello terrigeno arrivando a presentare, in determinati luoghi ricoperti d’asfalto, porte d’ingresso, ovvero luoghi di transizione tra uno stato e l’altro, che l’essere umano può imparare ad attraversare senza nessun tipo di conseguenza. Dopo tutto siamo creature anfibie, tu ed io, provenienti dalla primordiale genìa natante di microrganismi e pesci, gradualmente transitati dallo stato pinnuto al possesso di quattro arti dotati di muscoli, artigli e tendini resistenti. E lo stesso può dirsi dei nostri strumenti di spostamento elettivo, pratici veicoli frutto della scienza & tecnologia pregresse. Di certo esistono, soprattutto nei contesti militari, mezzi dotati di ruote con scocca costruita in fibra di vetro o altro simile materiale, capaci di galleggiare in caso d’improvvisa necessità. Ma essi purtroppo sono, in funzione di tale ineccepibile versatilità, dei deludenti fuoristrada ancorché pessime barche, poiché niente può efficacemente incarnare, allo stesso tempo, i due spiriti contrapposti del trasporto veicolare motorizzato. Ecco perché in campo civile, l’unico all’interno del quale praticità e convenienza rappresentano due semi nello stesso baccello, si è sempre lavorato, piuttosto, sul miglior modo di UNIRE barca e automobile, tramite l’impiego di speciali rimorchi, carrelli o altri simili implementi finalizzati al trascinamento di carichi speciali. Così che l’appassionato o padre di famiglia attraverso le decadi, ha dovuto acquisire abilità come quella di parcheggiare con l’elemento che sterza in opposizione al contrario del volante, o far marcia indietro lungo il ripido declivio fino all’immersione di tale oggetto, affinché il carico possa venire “lanciato” oltre i limiti dell’elemento a noi congeniale. Tutto questo, mentre qualcuno nella periferia di San Diego pensava, pensava in maniera davvero intensa, se davvero non potesse esistere una soluzione in qualche modo migliore.
E quel qualcuno, di cui il nome oggi appare del tutto ignoto al popolo quasi-onnisciente di Internet, era il fondatore della Sport King Boaterhome West Inc, azienda fermamente intenzionata a debuttare nel 1986 durante il salone della barche californiane con un’idea straordinariamente intrigante, per non dire ragionevolmente rivoluzionaria: l’eponima curiosità veicolare, congiunta in un tutt’uno perfettamente divisibile all’occorrenza. Una boaterhome, nel suo concetto originario e prodotto unicamente in 21 (alcuni dicono 26) esemplari, è questo bizzarro veicolo lungo all’incirca 12 metri composto dalla parte frontale di un versatile furgone Ford E-Series, iconica spina dorsale dell’America che lavora, e un’imbarcazione completa a tutti gli effetti, con tanto di cabinato pensato per fondersi, e continuare idealmente, il cassone del conseguente spazio abitativo. Già perché questa boater, come preannunciato dal nome, è anche e soprattutto una casa mobile (home) nella quale l’unica cesura tra i diversi mondi è quella presentata dalla giunzione, praticamente invisibile, tra le due parti costituenti…



