La guerra sugli alberi di un samurai dalle mandibole importanti

Ho visto quel malefico invasore camminare lungo l’arco superiore del legnoso boulevard. Fellone! Indesiderato! Nemico della società! “Come osi zampettare, fingendo sia normale, oltre i confini dell’albero sotto le cui radici sei riuscito a superar lo stato larvale? Torna da dove sei venuto, non invadere lo spazio dei miei arti d’uccisione!” Dissi e dunque, senza un’attimo di esitazione, sfoderai la coppia d’armi, sempre pronte per mostrare loro chi sia l’unica creatura degna di regnare, sopra la corteccia degli Eoni. Rullo di tamburi, mazze sugli scudi, fulgidi vessilli in mezzo al vento, delle naturali circostanze (se soltanto…) Ed ecco che avanzando, mi ritrovo innanzi a lui, piantato come nulla fosse nel bel mezzo del sentiero. le sue dimensioni, ridicole. Nessuna speranza di competere contro le mie tenaglie. Girando quindi attorno al ramo una, due volte, mi ritrovo presto a stringerlo da dietro. E con momentaneo ma importante sforzo, lo sollevo preparandomi a gettarlo verso il baratro se non che… Aspetta un attimo… Linee aggraziate. Peso minore all’aspettativa. Mancanza di preminenze acuminate lunghe il doppio del suo intero corpo (ottima osservazione, Watson!). Possibile che io… Abbia commesso un terribile errore?
Lasciate che vi parli brevemente, all’ombra dei pini di Araucana ed ispirato dalla penombra umida della foresta cilena, di cosa possa rappresentare, tanto spesso, la rabbia. Un sentimento che proviene dal profondo. L’aggregazione di segnali elettrici, nascosti nel profondo delle sinapsi animali, che permette di anteporre per qualche frenetico momento l’attimo corrente, a qualsivoglia percezione delle conseguenze presenti o future dei propri gesti. La rabbia che può essere un’utile risorsa, valida volendo rintracciare rapide risoluzioni dei problemi ma che può anche, tanto spesso, indurci a commettere i più grandi errori. Come quando in bilico su un ramo, all’altezza di qualche decina di metri da terra, nel tentativo di eliminare fisicamente i nostri concorrenti, finiamo per scaraventar di sotto il premio stesso della nostra fervida tenzone: ella, magnifica, lucente stella di chitina, incapace di comprenderne il significato e la ragione. Poiché il Chiasognathus grantii o cervo volante o scarabeo di Darwin o ancora, l’insetto-con-la-pinza-iper-dimensionata, della rabbia sembrerebbe aver fatto il proprio stesso stile di vita, al punto che dopo innumerevoli generazioni, si è trovato a nascere dotato già dello strumento necessario ad espletarla e tradurla nel più drammatico dei gesti: il wrestling con in palio la sopravvivenza stessa o nel migliore dei casi, il diritto a riprodursi entro la prossima generazione. Come gli altri mostri corazzati della famiglia dei Lucanidi, tra i più minacciosi nonché magnifici piccoli combattenti privi di uno scheletro interno. Insetti ma diversi, da una formica, vespa o zanzara, almeno quanto può esserlo un gatto da un carro armato, vista la propensione determinante a dare sfogo, per pagarsi il diritto all’esistenza, a tutta la notevole forza muscolare delle loro zampe ed articolazioni, in modo sorprendente vista la misura massima di 7-8 cm. due terzi dei quali, occupati unicamente dalle straordinarie preminenze, simili alle braccia di un’orribile tenaglia, che s’irradiano a partire dalla testa aerodinamica degna di un guerriero alieno. Gli insetti ci ricordano, del resto, quello che succede quando ogni singola fibra della nostra essenza è devoluta ad uno scopo, portandoci all’accrescimento di doti specifiche a costo della capacità di adattamento. E sebbene non ci sia una particolare ragione, per cui uno scarabeo erbivoro debba possedere l’equivalente artropode di una coppia di katane incorporate sotto gli occhi, neanche potremmo giungere a pensare che debba essere, in alcun modo, vero l’opposto. Potrà essere soltanto l’istinto, del resto, a guidarli verso un impiego idoneo di simili feroci strumenti…

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L’imprevista verità di un uccello con sei zampe nella palude

Cose oscure che si aggirano tra i ficus e i mopani; becchi aguzzi, zampe fuori scala, piume che nascondono una coppia di speroni acuminati. Strano uccello, che segreto custodisci? Ma è al momento in cui compare il rischio inaspettato, del nemico che riemerge dal profondo di quell’acque, orribile, bitorzoluto coccodrillo, che il mistero si dipana innanzi agli occhi dell’osservatore! Poiché si aprono soltanto un poco, le ali corte, arrotondate. E sotto ad esse ivi compaiono, in maniera surreale, un’altra coppia di nodosi arti… E quindi un’altra ancora. Mutazione? Radiazione? Traslazione dietro il velo della dimensione? Forse (chi può dirlo) in tempi assai remoti a questa parte; per il resto, mera evoluzione. Poiché tutti ormai conoscono, da queste parti, il metodo e lo stile del paterno jacana. Uccello, africano ma non solo, che al momento in cui necessita di chiamare a se i suoi piccoli e portarli via al sicuro, è solito prenderli, letteralmente, “sotto la sua ala”. Al punto che nessuno potrà neanche più pensare di trovarli, fatta eccezione per quegli arti dalle dimensioni superiori, usati dall’intera famiglia tassonomica con lo scopo di riuscire ad occupare una particolare nicchia ecologica dell’ambiente di palude. Nella scena qui mostrata in video, famoso spezzone virale del variegato Web prelevato da un documentario della PBS, stiamo in effetti osservando un esemplare maschio di Actophilornis africanus (jacana africano) mentre compie uno dei gesti maggiormente rappresentativi della sua specie. Un qualcosa di altruistico ed assai comprensibile, che potremmo facilmente ricondurre allo stile e il modus operandi degli umani. Perché gli uccelli capiscono, e sanno anche proteggere, il valore di una o più vite recentemente fuoriuscite dall’uovo. Anche se tale comprensione potrebbe anche provenire, nei singoli casi, da specifici adattamenti anatomici e istintivi. Tutto nell’esemplare di raffinato predatore che compare all’interno di una simile inquadratura, lascia del resto intendere un perfezionamento particolarmente significativo dei presupposti di caccia e sopravvivenza all’interno dello scenario in cui si svolge l’azione, costituito niente meno che dal famoso delta dell’Okavango, il bacino endoreico in cui si disperde l’omonimo fiume ai confini del deserto del Kalahari. Popolato, tra gli altri, da questo volatile guadante, abituato a cercare invertebrati tra le piante che galleggiano al di sopra della superficie grazie alla notevole capacità di distribuzione del peso garantita dalla dimensione dei piedi, che misura circa 30 cm di lunghezza e risulta facilmente riconoscibile dallo scudo azzurro situato al di sopra del becco, esteriormente simile a quello delle folaghe. Una variante certamente rappresentativa, benché comprensibilmente e ragionevolmente diversa, delle otto specie attualmente in vita presenti in diversi territori del Vecchio e Nuovo mondo, tutte egualmente capaci di effettuare la stessa manovra di tutela della prole nel momento della verità. Nonché caratterizzati da una particolare attribuzione dei compiti nel rapporto di coppia, che ne fa uno dei rari casi nel mondo animale in cui i ruoli risultano invertiti sotto ogni punto di vista, benché egualmente suddivisi. Ed è il maschio, come sopra accennato, piuttosto che la femmina, ad occuparsi del mantenere al sicuro e proteggere la prossima generazione di nuovi nati. Benché tutto inizi, come al solito, nella furia e la ferocia del combattimento tra cospecifici…

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Rotatoria di un ponte tondo, situato sulla punta del mondo

Riesco facilmente a immaginare la Perplessità. Di un ipotetico straniero della Terra, che scorrendo le immagini catturate al binocolo del suo vascello interstellare, dovesse giungere a un particolare segmento del contesto sudamericano: giusto dove termina l’acuminata lama di coltello, puntata con fermezza verso il Polo Sud, che noi chiamiamo l’Argentina. E poco dopo l’ampia insenatura del golfo noto come Rio de la Plata, presso il territorio che possiede il nome di Uruguay. Ed oltre a quello, molte meraviglie, incluso il luogo in cui una lunga striscia di sabbia divide le acque dell’Atlantico da una laguna ricca di risorse faunistiche assai varie. In un punto strategico del tragitto tra i centri costieri di La Paloma e La Pedrera, dove trova posto, alquanto stranamente, una gigantesca lente d’ingradimento… O almeno così sembra tale segmento, per non dir una racchetta o l’elemento in plastica che forma le bolle di sapone, poco prima di trasformarsi in un ponte, dividendosi in due biforcazioni totalmente simmetriche. Per poi congiungersi di nuovo, all’altro lato delle acque intonse. Laguna Garzòn è il nome di questo luogo, e “Ponte della” quello dell’UMG (Oggetto Misterioso che Giace) con chiarissima dimostrazione di un’intento descrittivo, perché non è sempre necessario tendere ai confini della fantasia, rispettando chiaramente quello stile che da sempre è lecito associare al suo creatore: l’architetto che proprio in questo luogo trascorse un’importante parte della proprio gioventù, Rafael Viñoly Beceiro. Potreste conoscerlo, anche se non ricordate il nome, grazie ad importanti opere come l’alto palazzo residenziale 432 Park Avenue che si affaccia sul Central Park di New York o il bizzarro “Walkie Talkie” di Londra, alias 125 Greenwich Street, celebre per la problematica tendenza della sua facciata parabolica a concentrare la luce solare in un raggio della morte che squaglia la plastica delle auto parcheggiate innanzi. Una possibile segreta antipatia, nei confronti del principale mezzo di trasporto dell’umanità contemporanea che potremmo immaginare di trovare anche in questa sua più recente opera, completata nel 2016, apparentemente contraria a qualsivoglia principio di convenienza nel metodo scelto per percorrere una distanza tra punti A e B, proprio perché aumenta, senza dubbio, la lunghezza progressiva tra i suddetti & arbitrari punti. Ma l’alieno in questione, ragionandoci per qualche tempo, giungerebbe presto ad una chiara conclusione: che se un’auto compie quel tragitto in base ad un copione chiaramente considerato desiderabile dai committenti, il ponte avrà evidentemente assolto al suo duplice ruolo: primo, ridurre la velocità dei veicoli stradali e in conseguenza il frastuono generato dai loro motori, a immediato vantaggio dei succitati animali, (tra cui preziose popolazioni del cigno dal collo nero, le oche delle nevi e il fenicottero rosa) e secondo, permettere ai guidatori di passaggio di trasformarsi momentaneamente in osservatori del panorama, mentre tenere lo sguardo fisso innanzi ed il volante lievemente girato da una parte gli fa scorrere il paesaggio come fosse la scenografia di un’impressionante opera teatrale. Dedicata, per l’appunto, all’incommensurabile splendore della Natura…

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Questa roccia vivente è più antica dell’Impero Romano

É una fondamentale realtà per ogni essere vivente, la maniera in cui, nella maggior parte delle situazioni, l’unione costituisca un sinonimo di forza. Quella tra le cellule dell’organismo, un tempo concepite dai processi naturali come monadi del tutto indipendenti, finché la necessità di sopravvivere, ed in qualche modo prosperare, non ne ha enfatizzato determinate funzioni di caso in caso, rendendole complementari. Ciò detto, esiste il caso di un sistema addirittura più efficiente: quello che si genera grazie al processo di adesione. Compatta, indivisibile corrispondenza, tra creature totalmente indipendenti in linea di principio, che del resto formano colonie, proprio perché questo basta a renderle del tutto impervie al più terribile dei loro avversari: il tempo. Pensate per esempio all’alveare, che rinasce identico al principio delle singole stagioni; oppure alla natura del corallo, scheletro rosato di una plurima e minuscola collettività; ed ancora a certi tipi di coltura batterica, con protisti o microbi perfettamente in grado di clonare se stessi ad infinitum. Ma è soltanto unendo un simile princìpio alla natura estremamente longeva del mondo vegetale, che possiamo giungere alla casistica del tipo più ESTREMO di creatura. Quello che troviamo qui rappresentato grazie all’esemplare notevolmente imponente di Yareta, o Azorella compacta che dir si voglia, che forse al momento in cui Ottaviano Augusto concentrava su di se tutti i poteri della Repubblica, giaceva perfettamente identica ma un po più piccola, nelle sabbiose distese degli alti deserti andini. A cosa ci è possibile, del resto, far corrispondere il concetto di “individuo” se non la specifica continuazione di una singola cosa, con perfetta identità di luogo, aspetto e funzionalità… Come la verde coperta che ogni cosa ricopre, crescendo alla notevole (!) velocità di 1,5 cm l’anno. Eppure, contrariamente a quanto si potrebbe tendere a pensare, la yareta non è affatto un muschio, non è un semplice licheno, bensì un’effettiva pianta legnosa capace di fiorire e far frutti in primavera ed estate, fatti giungere a maturazione nel corso di circa 15 settimane. Imparentata, alquanto sorprendentemente, alle ombrellifere (Apiacee) come il prezzemolo e la carota, in forza della tipica vastità omni-inclusiva della tassonomia vegetale. Ma le somiglianze, come potrete facilmente immaginare, sono tutt’altro che evidenti, data la natura straordinariamente estrema del suo habitat d’appartenenza: le pendici e le asperità del Sudamerica, tra Cile, Perù e Argentina, dove l’assenza di piogge regolari è superata soltanto dal soffio gelido del vento proveniente dal Pacifico, in grado di devastare qualsivoglia tentativo di sopravvivenza vegetativa.
A meno, s’intende… Che questo riesca a svilupparsi in maniera tanto densa e compatta, frutto della collaborazione collettiva, da riuscire a trattenere al tempo stesso calore ed umidità, raggiungendo uno stato d’aggregazione in grado di superare qualsiasi difficoltà. Persino il passaggio dei secoli ulteriori, superati per durata l’uno dopo l’altro, come fossero i lombrichi nel fertile suolo di un’impossibile foresta delle Ere…

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