L’impossibile primo balzo dell’oca artica dalla faccia bianca

Ciò che permette alla vita di evolversi, migliorare se stessa e adattarsi alle necessità primarie dell’esistenza. Dura lex, sed lex: poiché non può esservi alcun tipo di clemenza, dinnanzi al severo tribunale della natura. L’intangibile istituzione, più o meno divina, la cui direttiva principale può giungere a prevedere che anche il pulcino dell’oca artica, più graziosa ed inoffensiva delle creature, debba nascere col compito di affrontare un esame necessario al guadagnarsi il diritto di esistere in questo mondo. Ma non all’età di un anno, di un mese oppure una settimana. Bensì soltanto 24 ore (48 al massimo) dal momento stesso in cui mette la testa fuori dall’uovo, al fine di poter accedere alla sua unica, drammaticamente remota forma di sostentamento: la valle erbosa. E quando utilizzo siffatta metafora di tipo scolare, sia chiaro che intendo la più difficile prova sul sentiero di qualsivoglia creatura dotata di piume, becco e un gran paio di piedi palmati: staccarsi da terra e… Volare. Con un apertura alare di qualche centimetro? Senza neanche l’accenno di quegli alettoni direzionabili che sono le piume remiganti? In assenza di correnti ascensionali, reti di sicurezza o una piccola piscina per attutire il colpo, come avveniva in alcune esibizioni circensi dei primi del Novecento? Proprio così. Al punto che un termine maggiormente descrittivo, volendo, potrebbe essere individuato nell’espressione “cadere”. Come la scintillante sfera metallica di un flipper, con la scogliera al posto dei respingenti, e il numero di contusioni a influenzare il bonus dell’high score finale.
Il problema essenzialmente è sempre lo stesso: che per ciascuna nicchia ecologica o ambiente, lo stesso accennato processo genera non una, bensì un pluralità creature profondamente intenzionate a raggiungere il momento fondamentale dell’accoppiamento. Incluse specie carnivore, s’intende. Proprio come, nel caso dei remoti luoghi usati come siti riproduttivi dalla specie aviaria Branta leucopsis, “piccoli” problemi quali la volpe artica, l’orso polare e uccelli carnivori (ad es. gabbiani e stercorari). Il che ha portato ogni aspirante madre di un tale consorzio biologico a ricavare lo spazio per il nido in recessi progressivamente più inaccessibili della scogliera, lassù in alto, la dove il vento ulula e il sole abbaglia gli occhi di chiunque tenti di arrampicarsi attraverso l’impiego di metodi convenzionali. Ecco dunque, l’origine del dramma: poiché contrariamente al quasi ogni altra tipologia di uccello, l’oca non conosce alcun modo per trasportare la materia vegetale commestibile a portata del becco della sua prole, generalmente composta da 4-5 piccoli a stagione, il che comporta che essi, fin dal primissimo momento, debbano procurarsela da soli. Ma non c’è nulla, sulla scogliera, tranne sogni infranti e il vertiginoso baratro che sembra chiamarli, con insistenza potenzialmente assassina. Che cosa fare, dunque? La risposta è soltanto una. Le chance sono poche, pochissime. Ma sempre superiori allo 0% di qualunque pulcino dovesse essere abbastanza prudente, o folle, da scegliere di restare passivo fino all’inevitabile deperimento e lenta morte d’inedia…

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La testardaggine del topo che sfidò la Luftwaffe all’apice del suo potere

Il 22 giugno 1941, a esattamente un giorno di distanza di quello in cui, 129 anni prima, Napoleone aveva attraversato il Niemen per dirigere le proprie mire di conquista verso la città di Mosca, le forze tedesche iniziarono il proprio bombardamento d’artiglieria contro alcuni depositi di munizioni e altro matériel sovietico al di là del fiume. Nel contempo, schiere composte da migliaia di panzer varcarono i guadi individuati settimane prima, attraverso una certosina operazione di avanscoperta, e il sibilo terrificante dei bombardieri Stuka accompagnava la loro picchiata verso le basi avanzate di un esercito che non era, e semplicemente non poteva essere ancora pronto a resistere all’ondata di piena dell’Operazione Barbarossa. Ma mentre per quanto concerneva le truppe di terra, i russi riuscivano a difendersi grazie alle postazioni fortificate e l’impiego dei nuovi carri armati, in quantità ridotta ma di assoluta superiorità tecnologica, dei modelli T-34 e KV-1, l’andamento della battaglia nei cieli assumeva tinte decisamente più fosche per loro: i tedeschi a bordo dei loro Messerschmitt Bf 109-E, aerei allo stato dell’arte con potenti motori raffreddati al liquido, ottime capacità di manovra e l’armamento quasi esagerato per l’epoca di due cannoni da 20mm e altrettante mitragliatrici da 7,62, facevano essenzialmente il bello e il cattivo tempo assicurandosi l’assoluta superiorità aerea. Questo almeno finché, dai campi di volo di Mozhalsk e Inyutino, non iniziò a risuonare un suono stranamente familiare. Era il motore M-22 da 450 cavalli del Polikarpov I-26, chiamato “mulo” (ishak) dai suoi piloti connazionali così come i repubblicani della guerra civile spagnola, cinque anni prima, avevano scelto per lui l’appellativo ben più descrittivo di “topo” (rata), in forza della sua forma accorciata, le ali tozze e stondate, la maniera scattosa e imprevedibile di approcciarsi al volo. Un velivolo incredibilmente rivoluzionario, all’epoca del suo primo decollo, come primo esempio di apparecchio dotato di cabina in grado di chiudersi completamente, struttura ibrida in legno e metallo con sostegni a cantilever e persino un carrello retrattile grazie a un cavo, collegato a un sistema a manovella complesso e piuttosto difficile da utilizzare. Detto questo tutti avevano ben chiaro come la metà di una decade, sopratutto nel periodo febbrile di corsa agli armamenti antecedente al secondo conflitto mondiale, potesse anche corrispondere a intere generazioni della storia umana, per quanto i miglioramenti tecnologici sembravano aver reso un simile uccello da guerra drammaticamente obsoleto. E così delle schiere di I-16 che decollarono quel fatidico giorno, per un totale di esattamente 1.635, dopo il trascorrere di 48 ore ne sarebbero rimasti in volo soltanto 937. Questo perché in un combattimento contro il Bf 109-E, più veloce e più armato (l’I-26 più diffuso all’epoca montava soltanto quattro mitragliatrici tipo
ShKAS da 7,62 mm) non c’era molto che un pilota sovietico potesse fare, se non sfruttare la sua manovrabilità orizzontale leggermente superiore (dopo tutto, questi aerei pesavano soltanto 1.490 Kg) e sperare che i tedeschi commettessero errori. Oppure ricorrere a una particolare manovra, che i colonnelli al servizio di Stalin avevano elaborato appositamente per un simile scenario disperato: la cosiddetta “tecnica taran” (ariete) che consisteva nell’urtare intenzionalmente con l’elica la coda degli aerei tedeschi confidando nell’ottima corazzatura del Rata, per avere tempo a sufficienza da paracadutarsi conseguentemente al di qua delle linee alleate. E più di un fiero aviatore venuto dal Centro Europa, pienamente sicuro della superiorità della sua causa ed il potere tecnologico del suo armamento, dovette soccombere al coraggio disperato dei suoi oppositori, a bordo di una reliquia tanto obsoleta eppur temibile, a suo modo. Tutti avevano ben chiaro nella mente, tuttavia, come la battaglia per Mosca sarebbe stato il tramonto del coraggioso piccolo aereo per tanti anni oggetto di amore ed odio da parte dei vertici del partito, ben presto destinato ad essere sostituito dai ben più moderni Yak, Mig e LAGG-3…

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L’ingombro di un Hummer mentre si rifornisce l’elicottero in volo

Sospese nel cielo di Yuma sopra il campo aereo degli US Marines, le tre macchine da guerra mantenevano il delicato equilibrio di un’insolita geometria celeste: al vertice più avanzato del triangolo, un C-130 Hercules, la temibile “cannoniera volante” delle forze armate più multidisciplinari al mondo, in questo caso priva dei suoi armamenti sostituiti per l’occasione da serbatoi ausiliari, nel perseguire un tipo di missione maggiormente altruistico e collaborativo. A seguire nella sua possente scia, la forma riconoscibile del CH-53E Super Stallion, l’ormai attempato erede di una delle più lunghe e rinomate dinastie di elicotteri statunitensi, il cui antenato nacque con lo specifico obiettivo di sollevare letteralmente da terra i velivoli colpiti da fuoco terra-aria in Vietnam, per riportarli al sicuro entro i confini delle più inespugnabili basi al fronte. E al di sotto di esso, nel solo ed unico cateto perpendicolare al suolo, una forma oscillante squadrata e ponderosa, con quattro ruote al momento utili quanto le pinne di una trota sulla cima del K-2. Tanto che, se non fosse stato praticamente impossibile, qualcuno avrebbe potuto giurare che si trattasse di un Humvee, la versione militare di uno dei più ingombranti veicoli fuoristrada che siano mai stati immessi nel mercato della viabilità stradale. Impossibile perché, con un buon binocolo puntato verso una tale scena quel 19 settembre del 2018, un osservatore attento avrebbe immediatamente notato il lungo tubo che si estendeva dall’aereo verso la sua controparte rotante, esattamente del tipo impiegato per il rifornimento di carburante, al fine di risparmiare il tempo e le risorse logistiche necessarie a farlo atterrare in terra, possiamo soltanto presumerlo, straniera. Il che risulterebbe già abbastanza insolito visto e considerato come si tratti di un’impresa normalmente associata a dei jet che richiedono ben altre piste di atterraggio, anche senza il carico oscillante di oltre tre tonnellate appeso svariati metri sotto la sua vasta carlinga, ad oscillare nel vento e le turbolenze generate dalla complessità evidente di una simile operazione. Ma caso vuole che questo tipo di elicottero, e le abilità che si richiedono a chi ha scelto di onorarlo col suo doveroso servizio, richiede un particolare tipo di orgoglio e di abilità strettamente connesse al suo soprannome di “Fabbrica d’Uragani”, ragionevole metafora fatta derivare dai 4.380 cavalli generati dai suoi tre motori a turbina attraverso il più impressionante sistema di 7 pale principali e ulteriori quattro all’estremità della coda, individualmente capaci, quest’ultime, di generare il tipo di spinta normalmente associato all’interezza di un comune elicottero civile.
Per parafrasare dunque un modo di dire spesso ripetuto nelle forze armate, non c’è niente di semplice, delicato, ragionevole o dimesso nel Super Stallion, uno dei principali contributi della rinomata azienda Sikorsky, assieme al celebre UH-60 Black Hawk, nei confronti della dotazione veicolare dello Zio Sam. Una questione apparente fin dai primi, cronologicamente remoti, capitoli della sua lunga e complicata storia.

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X-15, la storia di un missile con il pilota

Appare molto significativo come nel corso della storia dell’aviazione, piuttosto che evolversi in parallelo allo sviluppo dei progressi tecnologici, il record per la massima velocità raggiunta da un velivolo con il pilota a bordo sia riuscito a prolungarsi nel tempo, restando imbattuto per periodi molto superiori a una o due generazioni di aeroplani: 37 anni, nel caso più eclatante, in funzione del particolare scopo ed obiettivo della quindicesima iterazione di un progetto, destinato a influenzare l’intero progresso tecnologico del blocco occidentale. E con questo intendo la percezione, da parte di coloro al vertice, di ciò che fosse possibile ottenere mediante l’uso di combustibile e il motore di un razzo, capace di raggiungere i 250 kN di potenza, una volta integrato in quello che poteva soltanto essere, benché non lo sembrasse, uno strumento adibito al trasporto di persone.
Verso l’ultima tra tutte le frontiere, ovviamente. Quello stesso Spazio che nel 1959 appariva ancora assai lontano, soltanto due anni dopo che i sovietici avevano dimostrato, coi loro Sputnik, la strada più efficace: costruire una letterale torre di lancio abbastanza grossa e potente da oltrepassare la curve superiori dell’atmosfera, raggiungendo la traiettoria di un’orbita che poteva essere mantenuta, letteralmente, in base alle direttive imposte dal controllo di missione. Tutt’altra cosa di quanto era stato progettato inizialmente all’altro lato dell’Atlantico, quando l’agenzia governativa all’epoca nota come NACA (National Advisory Committee for Aeronautics) presentò allo staff del presidente Eisenhower il memorandum stilato dall’ex capo del progetto nazista per i missili balistici internazionali V-2, successivamente riabilitato e considerato del tutto incolpevole di un qualsivoglia crimine di guerra. Come molti suoi colleghi, del resto, e con l’interesse diretto a rendere l’impossibile, possibile.
Eventualità come questa, lungamente secretata, di un aereo agganciato come un’arma di distruzione sotto le ali di uno o due bombardieri B-52 (ribattezzati per l’occasione “nave madre”) fino all’arrivo del segnale di partenza, a seguito del quale avrebbe scatenato tutta la sua potenza per un tempo approssimativo di tre minuti. Chiunque avesse mai pensato di vederlo dirigersi direttamente verso la pista di atterraggio, tuttavia, avrebbe avuto l’occasione di restare quanto mai sorpreso: perché i coraggiosi uomini assunti dalla futura istituzione dedita all’esplorazione del Sistema Solare e del Cosmo, per tentare di domare e in qualche maniera dare un significato a una simile “belva” avevano piuttosto istruzione di puntare il muso dritto verso l’alto, nel disegno di una traiettoria a parabola capace di sfidare lo stesso Icaro con le sue ali di cera. Verso altitudini dall’atmosfera tanto rarefatta che il metodo di controllo tradizionale, ottenuto mediante l’alterazione delle superfici aerodinamiche, non sarebbe servito pressoché a nulla, aprendo la strada a un sistema di ugelli reattivi e direzionabili (RCS) del tutto simili a quelli di un’astronave. Non che il pilota di turno, in ciascuno dei 199 voli portati a termine lungo un periodo di 9 anni, avesse molto tempo per decidere dove andare, vista la velocità raggiunta dal bolide che conteneva il suo scomodissimo sedile: fino a 6.70 volte la quella del suono, ovvero 7.274 Km/h, durante il volo condotto dal veterano della guerra del Vietnam e futuro politico della nazione William J. Knight. Una delle più alte ancora oggi e la seconda in assoluto al di sotto della stratosfera…

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