Terra emersa tropicale sita nell’estremo meridione del subcontinente indiano, lo Sri Lanka costituisce ad oggi un territorio culturale in larga parte inesplorato, a causa del succedersi di svariati periodi politicamente e religiosamente interessati a cancellare i segni del suo passato. Gli Olandesi, i Portoghesi e infine i Britannici, la cui presa ed il dominio in territorio indiano avrebbero modificato profondamente il corso della storia dell’Asia meridionale. Incluso questo luogo sincretistico in cui molte culture avevano già avuto modo d’incontrarsi, tra cui l’importazione geograficamente non coincidente delle danze ed altre pratiche celebrative del distante stato del Bihar. Dove in mezzo alle colline dell’entroterra, i diversi popoli erano soliti compiere le proprie venerazioni al suono della musica, con l’aiuto di un’intera categoria professionale dedita alla personificazione, e successiva interpretazione del ruolo delle divinità. Ma ciò che essi non avevano mai conosciuto, per la vicinanza di un diverso tipo di culture dedite all’astrazione, era il particolare stile e la perizia artigianale delle maschere di legno indonesiane, gradualmente trasportate, vendute e filtrate fino alle distante sponde di quel centro commerciale proiettato nell’Oceano Indiano. Ciò detto e tutto considerato, nonostante alcune citazioni filologiche in lingua Sinhala risalenti al XIII e XIV secolo, relative al modo per “camuffarsi” ed “interpretare” diversi ruoli, non si hanno prove pratiche di una lunga tradizione pregressa nella costruzione delle maschere in terra di Ceylon. Soprattutto per quanto concerne il principale stile odierno del ves muhunu (“volto del personaggio”) in molti modi preso in prestito e modificato non prima del 1800 dalle tecniche produttive dell’isola di Bali, con suoi rituali simboli e sincretistici legati a metodologie sciamanistiche dalla derivazione fondamentalmente ancestrale. Fino alla messa in opera di una fiorente produzione, centrata in modo particolare nella parte sud dell’isola, dove la trasmissione ereditaria l’ha condotta fino a noi, nella guisa d’importante ausilio folkloristico ed al tempo stesso, lucrativa merce messa in vendita nelle boutique e nei negozi di souvenir per turisti. Lasciando come luogo maggiormente utile, per chi volesse veramente conoscere lo stile e la funzione delle maschere cingalesi, un particolare luogo situato presso la città costiera di Ambalangoda, noto come Fabbrica e Museo di Ariyapala. Edificio sufficientemente ampio da riuscire a contenere la più notevole collezione di mostri, demoni e figure tipiche del teatro isolano, assieme all’opportunità di vedere i loro creatori all’opera ed anche acquistare, ai prezzi più diversi, un pezzo inconfondibile di questo tipo d’artigianato culturalmente rilevante. Chiunque dovesse lasciare queste sale, tuttavia, con l’impressione di essersi trovato in una trappola per turisti, dovrebbe essere non solo prevenuto ma privo di nozioni relative all’effettiva discendenza delle maschere e l’impiego che quest’ultime hanno avuto, nel corso dell’ultimo e travagliato secolo di storia locale…
cultura
Casa è dove sorgono un migliaio di pali. E i loro nodi sconfiggono la magia nera
In base ai miti ancestrali dei Masyarakat Arfak, il gruppo di tribù che vivono sulle omonime montagne dell’entroterra papuano, i loro antenati scesero un giorno in guerra per il controllo di un prezioso albero di guava. E fu così che dopo un periodo di aspre battaglie, anche i bambini scesero in campo per i rispettivi schieramenti, armandosi principalmente di arco e frecce in base alle usanze primitive. Ma uno di loro, scoccando all’indirizzo del nemico, sbagliò mira e colpì accidentalmente un sacro uccello del paradiso. Colpiti dal nefasto presagio, i capi delle due famiglie scelsero di fare un giuramento: essi non avrebbero più intrattenuto alcun tipo di comunicazione. Né sarebbero vissuti ancora sotto lo stesso tetto. Molti anni dopo, i discendenti dei gruppi linguisticamente eterogenei delle tribù di Sough, Hattam ed Arfak decisero di tentare una tardiva riappacificazione. Radunandosi in un luogo neutrale, dove si scambiarono il cibo frutto dei propri raccolti e danzarono assieme alla ricerca di un accordo comune. Le loro storie, che scoprirono essere simili, non sembravano tuttavia avere mai fine. E da ciò nacque il complesso sistema di movimenti e canzoni, suddiviso in Tumbu Tanah da praticare all’esterno e quello utilizzato in privato, tra le mura domestiche della propria abitazione che prende il nome di Tambuk Ruma. Ed è anche per questo che le dimore costruite dai Masyarakat Arfak assumono proporzioni notevolmente superiori a quelle di una comune capanna degli indigeni, risultando dotate di un ampio spazio centrale e camere separate per una o più famiglie, anche superiori numericamente al nucleo minimo di genitori e i loro giovani figli. Finendo in questo modo per richiedere, al momento della loro costruzione, il coinvolgimento di una significativa percentuale degli uomini del villaggio, per un periodo pari anche a diverse settimane di lavoro. Ma il risultato… Merita davvero il nome di rumah kaki seribu, ovvero letteralmente: casa tradizionale del millepiedi. Una metafora senz’altro desumibile, nella sua origine, mediante mera osservazione dell’aspetto, caratterizzato dalla più fitta base immaginabile di una serie di sottili palafitte. Fatta continuare, dal punto di vista strutturale, nell’incrocio dei numerosi pali verticali ed orizzontali utilizzati come base delle sovrastanti pareti, legati assieme tramite quello che potrebbe avvicinarsi ad un migliaio di nodi. Questo per una significativa pluralità di ragioni: difendersi per quanto possibile dall’ingresso accidentale di animali selvatici, come serpenti o tarantole, e mantenere i membri più deboli della tribù lontano dagli occasionali conflitti armati condotti innanzi all’uscio della casa. E proteggerli allo stesso tempo, assieme ai loro parenti armati, da un tipo di attacco ben più subdolo e pericoloso nella sua frequenza: quello del suwanggi, lo stregone possessore delle temibili arti della magia nera.
Il volo del piccione che innalza la sua cresta contro gli aridi recessi del continente australe
Trascinandosi senza una meta sui confini del deserto, il condannato del villaggio scrutò tutto attorno nella metodica ricerca di un luogo dove abbandonarsi al suo destino. Questo era stato il decreto, e tale la maledizione, dello sciamano che aveva condotto il rituale, secondo i metodi ancestrali e ineluttabili dei Kurdaitcha o “Possessori dei piedi piumati”. Un suono all’alba, un battito d’ali fuori dalla sua capanna, appena udibile in mezzo al richiamo delle cicale. E aprendo l’uscio per vedere cosa fosse, lui era lì: pittura bianca in volto come l’osso appuntito che teneva stretto nella mano destra, l’espressione distorta dal potere degli spiriti, che già si affollavano attorno ai confini della sua ombra. Perciò puntando quel resto nefasto probabilmente di natura umana, cantando con parole incomprensibili la propria salmodia, egli narrò la storia che terminava all’improvviso con la morte di colui che aveva il suo destino segnato. Per vendetta, per invidia, per un semplice capriccio dei potenti. Cosa importa, alla fine? Lo sciamano era già tornato da dove era venuto. E chi soccombe a lui, senz’acqua, senza cibo, senza compagnie non ha più alcuna voce. Il vento, i sassi, gli animali diventano le sue parole popolate dei sussurri dei ricordi. Cose come l’essere che vola per accompagnare l’alba, il riconoscibile pennuto che può dare voce al tempo stesso alla salvezza e ad all’umana disperazione: bamkarnamalkmalk “l’uccello con la cresta in testa” che ora egli già vedeva, in un gruppo di una decina d’esemplari, sollevarsi sopra quella scarna linea dell’orizzonte. E sorvegliando in modo perpendicolare quello spazio ai limiti dell’erba verde del più arido dei continenti, attendeva di portare tale anima lontano, forse oltre la cima delle altissime montagne. Psicopompo rumoroso e iconico attraverso i secoli di una cultura ininterrotta ed antica.
Le vaghe connotazioni mistiche di quello che la scienza chiama Geophaps plumifera o “piccione delle spinifex” sono piuttosto semplici da giustificare, d’altra parte, non appena si volge lo sguardo a quell’aspetto memorabile ed interessante. Parte del genus esclusivamente australiano dei piccioni dalle ali di bronzo, tale uccello rende onore alla qualifica, con la colorazione tendente al marrone attraversata da strisce nere ed illuminata dai riflessi trasversali della luce dell’astro diurno. Con la cresta lunga e perpendicolare al piccolo becco bluastro, gli occhi gialli cerchiati di rosso, il petto bianco o uguale al dorso a seconda della sottospecie presa in esame. Un contegno complessivo della sua figura, in altri termini, più simile a creature appariscenti del contesto boreale, quali fagiani o pavoni, che determina il primario ruolo culturale ma non definisce, chiaramente, il perché dell’associazione ai rituali di quello che potrebbe essere chiamato il voodoo di questa terra d’Oceania occasionalmente priva di alcuna pietà. Non che all’uccello importi, ne sembri in alcun modo farsi intimidire, essendo in semplice sostanza il volatile esclusivo di recessi territoriali così caldi, tanto inaccessibili da costituire alcuni dei luoghi più estremi della Terra. Continuando a sollevarsi, indomito e indefesso, fino a temperature che oltrepassano saltuariamente i 50 gradi…
La città bianca del Turkmenistan, marmorea capitale dal fascino ultraterreno
La disastrosa esperienza di un grave terremoto può costituire a posteriori molte cose. L’annientamento delle aspettative, la devastazione dei sistemi, la rovina delle famiglie. La fine di un’epoca e l’inizio di un’altra. Particolarmente quando, nel quadro d’analisi, si decidesse d’integrare il punto di vista di un’intera nazione. Come quella che nel 1985 il segretario del Partito Comunista del Turkmenistan, Saparmurat Niyazov, si sarebbe ritrovato a guidare dopo il progressivo ritiro degli interessi sovietici, fino alla caduta del muro di Berlino e conseguente rinascita di questa terra d’Asia come un luogo dall’economia rilevante, soprattutto in forza delle notevoli risorse minerarie ed energetiche nascoste nel suo sottosuolo. Lo stesso luogo d’origine di un disastro di 7,1 di magnitudine dalle radici tutt’altro che recenti centrato sulla capitale Ashgabat, risalente a 37 anni prima ed a causa del quale lo stesso Niyazov perse entrambi i genitori, finendo per crescere all’interno di un orfanotrofio. Eppure sufficiente a dare inizio ad un profondo cambiamento nello schema urbanistico del principale centro urbano (in effetti l’unico) del vasto ma poco popoloso territorio nazionale, quella stessa città che fin da tempi remoti aveva costituito un punto di scambio lungo l’estendersi della Via della Seta, famosa per i suoi vigneti. Così cresciuta nei secoli, a partire dall’originale consorzio di yurte semi-nomadi, fino all’agglomerato di bassi palazzi in mattoni di adobo menzionato per la prima volta nel XIX secolo negli scritti dell’autore russo Vasily Yan, il quale parlò estensivamente della disposizione regolare e prevedibile delle sue strade. Almeno fino alla devastazione scatenata in quel fatidico giorno, quando la stragrande maggioranza degli edifici alti più di un piano crollarono definitivamente e senza possibilità di appello, aprendo il sentiero a una totale riconsiderazione del piano regolatore, completamente privo di limitazioni imposte dall’alto. Ma sarebbe stato solamente dopo l’ottenimento dell’indipendenza nel 1991, e conseguenza salita al potere assoluto del suo primo presidente, che gli aspetti meno prevedibili di questo strano luogo avrebbero trovato l’effettiva opportunità di manifestarsi, portando ad una dura repressione sotto diversi aspetti, compreso per l’appunto quello dell’imprenditoria edilizia. Veicolato attraverso i crismi di un potente culto della personalità, spesso paragonato e non del tutto dissimile da quello della Corea del Nord, assieme al bisogno fortemente sentito di trovare nella stessa Ashgabat un prestigioso biglietto da visita di fronte agli occhi del mondo, nonché una possibile destinazione turistica tra le più attraenti della sua intera regione. Iniziò, in questo modo, il drastico progetto d’ampliamento e de-saturazione cromatica di un’intera comunità di circa un milione di persone. Alle quali, che ci crediate o meno, fu persino imposto di far verniciare di bianco le proprie automobili ed altri mezzi di lavoro…



