Uccelli di metallo sotto il sole del Nepal

La luce sfolgorante del Sole si rifletteva sulle piume del maschio di Monal, come fosse un lampo verde tra rocce e il laghetto ornamentale. Il ciuffo di piume dall’estremità tondeggiante, dondolando vistosamente nella brezza del mattino, segnava il tempo come un metronomo da pianista.  Era senz’altro il suo preferito. Il suono degli uccelli nelle numerose gabbiette si mescolava a qualcosa d’altro, come un brusio potente ma indistinto trascinato dal vento d’India “La mia isola di pace nel mare caotico di Calcutta” pensò Mary Impey, la moglie del giudice inglese, mentre scrutava pensierosa il recinto del suo cortile. Pensando che molto presto, tutto questo sarebbe finito. La sua scuola di pittura nello stile “della Compagnia” (delle Indie) sarebbe stata chiusa, mentre i dotti artisti locali avrebbero trovato lavoro altrove. I domestici e i giardinieri avrebbero perso la sicurezza economica che derivava dal fare parte, verso la fine del 1700, della tenuta del supremo responsabile di Fort William, corte coloniale del Bengal. E poi, gli animali… Negli anni, lei che veniva dalla rinomata campagna inglese, aveva saputo costituire una collezione privata di tutti i pennuti, i piccoli mammiferi e i rettili che avevano colpito la sua fantasia qui ai bollenti tropici. Trovando così piacere nel remoto, benché prestigioso, dislocamento toccato al consorte. Per lo meno, avrebbe rivisto i suoi quattro figli! Lasciati quattro anni prima con il fratello, nella fattoria di famiglia poco fuori i confini di Londra. Cuore di pietra in un’epoca senza pietà. Ma quanti altri, in un certo senso, ne avrebbe lasciati indietro… E tutto per un singolo, drammatico errore di lui.
Elijah Impey, più importante magistrato dell’India Coloniale tra il 1774 e il 1787, che sarebbe passato alla storia perdendo la sua carica a seguito di un impeachment, a causa del presunto omicidio giudiziario del Maharaja Nandakumar, da lui messo a morte per aver tentato di privare con una truffa una vedova della sua eredità. Con un’applicazione della legge inglese che fu giudicata eccessivamente severa, e ai danni di un uomo troppo potente, persino per il secolo dell’egemonia britannica sulle genti del subcontinente d’Asia. Tanto da farlo richiamare in patria. Mentre lei, la moglie, avrebbe perso il suo impegno decennale nell’agire come mecenate per una produzione artistica che oggi si trova in alcuni dei principali musei europei. Gli album d’illustrazioni cosiddetti Impeyani, contenente un vivace e realistico catalogo delle più magnifiche creature del contesto indiano, creato da artisti come Sheikh Zain al-Din, Bhavani Das e Ram Das. Tra le quali figurava anche l’uccello che un giorno, avrebbe preso il suo nome. Il fagiano dell’Himalaya (Lophophorus impejanus) che oltre i confini dell’India risultava essere piuttosto raro, mentre più si saliva verso le montagne del Tetto del Mndo, maggiormente si diceva che popolasse i boschi e le cespugliose radure al di sotto della linea dei ghiacci eterni. Una creatura straordinariamente variopinta ed ancor più eccezionalmente lucida, capace di riflettere i raggi solari creando un effetto cangiante più unico che raro. Tanto che un vero naturalista amante anche degli insetti, come per l’appunta era la Impey, avrebbe rivisto nella sua livrea l’aspetto magnifico delle ali dei coleotteri, rivestite da sprazzi iridescenti di eltire chitinose. Ma nessun altro volatore avrebbe potuto essere più distante dal contegno di questo operoso animale. Un gigante, tra i fagiani, con i suoi 70 cm di lunghezza inclusa la coda, la cui principale attività diurna consisteva nel recarsi un luogo privo di predatori (generalmente, sempre lo stesso) e mettersi a scavare freneticamente con il suo becco adunco, arrivando a scoprire completamente tratti di radici degli alberi e del bambù. Alla ricerca delle deliziose larve d’insetto, che costituiscono la parte migliore e più importante della sua dieta, assieme a tuberi, funghi e frutta selvatica come fragole o ribes. Un ricco menù, corrispondente al tripudio cromatico della sua indimenticabile livrea…

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Ghiaccioli giganti contro il problema del riscaldamento globale

Avete mai sentito parlare del Ladakh? Un paese di passaggio, sito al confine tra India e Tibet, chiuso tra le imponenti catene montuose dell’Himalaya e del Kunlun. Chiamato un tempo “la terra dei passi montuosi” per l’alta quota a cui si trovano le sue arterie di collegamento più importanti, e pressoché priva di precipitazioni, perché semplicemente una volta raggiunte le massicce barriere del paesaggio, le nubi non potevano far altro che fermarsi. E portare la loro acqua altrove. Il che, in un luogo dall’industria agricola rilevante (estremamente rinomate le albicocche locali) ha portato all’instaurarsi di un equilibrio, tra l’uomo e il sistema della natura, per cui ogni anno, tra aprile e maggio, all’inizio dello sciogliersi dei ghiacciai soprastanti, una parte dell’acqua discende fino alla quota di 4/5.000 metri, a cui si trovano disseminate la maggior parte delle comunità locali. Mentre per il resto dell’anno lo spazio tra questi confini viene definito, con mera ed oggettiva osservazione della realtà, con il termine di deserto. Ma un deserto diverso da ogni altro, dove la temperatura diurna media può anche aggirarsi, in determinati periodi dell’anno, sui -20 Celsius. A tal proposito il Ladakh è stato definito come “L’unico luogo al mondo in cui è possibile subire un’insolazione e un congelamento allo stesso tempo.” Eppure, nonostante questo, una popolazione di circa 230.000 abitanti è riuscito a farne la sua casa, interpretando da tempo immemore i ritmi ed il funzionamento del clima locale. Finché ad un certo punto (scommetto che ve lo aspettavate) l’idillio si è incrinato. Lo sapete perché: i gas inquinanti, il buco dell’ozono, l’aumento della temperatura globale, hanno portato i loro effetti fino alle più remote riserve di ghiaccio del tetto del mondo, iniziando ad alternarne i tempi ed il fato. Così dal tempo approssimativo di una generazione, tra un anno all’altro, tali entità hanno preso a squagliarsi non più con pacifica regolarità, ma all’improvviso e tutto assieme, causando inondazioni lampo in grado di devastare letteralmente una fattoria. Ma quel che è peggio, consumando tutta l’acqua annuale che doveva servire per l’agricoltura nel giro di pochi, drammatici giorni. Che cosa fare, a quel punto?
L’India è un subcontinente famoso soprattutto per il suo sincretismo di religioni e culture, la storia millenaria, l’arte e l’antica filosofia. Ma esso possiede anche un’altra qualità tipica del mondo moderno, che non troppo spesso viene considerata da chi vive lontano: la straordinaria inventiva dei suoi numerosi abitanti. Con un numero di inventori pro-capite tra i maggiori al mondo, spesso autodidatti o istruiti dagli alterni sentieri della vita, e un’attenzione innata per i problemi dell’uomo e della donna comuni, piuttosto che quelli delle spropositate ed anonime multinazionali. Persone come Sonam Wangchuk, il creatore, tra le altre cose, del primo ed unico stupa di ghiaccio. È un’idea fondata sull’estrema semplicità funzionale che spesso costituisce un chiaro segno del puro genio: un tubo, sepolto accuratamente, che parte dalla sommità di una montagna antistante il villaggio per raccogliere ogni singola goccia di ghiaccio squagliato. E che discende, con un gradiente importante, fino all’altezza dei campi coltivati. Quindi, ed è questo forse l’aspetto più bello, compie una rapida salita nel suo punto finale, come la canna di una fontana: non c’è pompa, non c’è motore, non c’è trucco né inganno. Eppure l’acqua giunta fin lì, tranquillamente risale, per l’effetto della pressione cumulativa di tutta la massa contenuta nel lungo tubo. E zampillando, ricade giù. Pura idraulica, signori miei! Ora, se ci trovassimo in qualsiasi altro luogo del mondo, tale apparato non sarebbe altro che una bizzarra, e stranamente costosa decorazione. Ma poiché in Ladakh, come dicevamo, la temperatura media dell’aria scende molto al di sotto dello zero, sopratutto in inverno, ciò che si ottiene da un simile processo è il progressivo formarsi di un cono verticale, simile a una stalagmite di ghiaccio formazione. Mano a mano, l’acqua forma i numerosi piccoli ammassi di candida materia cristallina. La quale naturalmente, rotola fino a terra allargando la base. Fino al punto in cui, raggiunta una stabilità sufficiente, la struttura inizia a crescere in altezza. Nelle prove fatte fin’ora, si sono raggiunti i 20 metri, stabilendo il nuovo record per la più alta struttura di ghiaccio  mai costruita dall’uomo.

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Il sangue degli alberi sull’isola del drago

Secondo la tradizione, fu in primo luogo l’esperienza di un uomo, notoriamente incredulo. Il viaggiatore con una Grande Missione, forse la più grande di tutte: salire su una nave e viaggiare ad Oriente, per trasmettere in India gli insegnamenti di Gesù. Ma l’apostolo Tommaso, secondo le credenze di questi luoghi, non sarebbe mai giunto sul continente dalle mille e più culture. Poiché forse per volere di Dio, oppure del Fato, avrebbe invece sperimentato l’esperienza terribile di un naufragio, approdando forzatamente proprio presso l’unica isola degna di questo nome che si trovasse a largo del golfo di Aden, tra il corno d’Africa e lo Yemen. Una terra del tutto fuori da questo mondo. Un luogo misterioso ed almeno all’apparenza, sovrannaturale. È del tutto possibile, in effetti, nascere in un luogo e prendere atto della sua flora e fauna come un qualcosa di assolutamente normale, benché appartenente biologicamente ad un ecosistema totalmente scollegato dal resto del mondo. Dopo tutto, se l’hai sempre conosciuto, che c’è di strano? Ma pensate all’esperienza dei primi naturalisti che raggiunsero l’Australia, oppure le Galapagos o le giungle del Brasile. O immaginate, ancora, l’aspetto della singola terra emersa (non di origine vulcanica) che si distanziò per prima dalla massa ultra-continentale del preistorico Gondwana. L’isola di Socotra, con gli altri tre scogli sovradimensionati che costituiscono il suo “arcipelago” esiste in assoluta solitudine, si ritiene, almeno dal Miocene, ovvero un minimo di 5 milioni di anni fa. Abbastanza per sviluppare un suo intero ecosistema, estremamente caratteristico e secondo alcuni, del tutto alieno. Una qualità che gli deriva, in primo luogo, dall’aspetto insolito della sua vegetazione.
Non ci sono mammiferi endemici superstiti, su quest’isola, tranne i pipistrelli, ma quasi tutto il resto è solo ed esclusivamente suo. Numerose specie di rettili ed insetti, ragni e granchi mai visti altrove. Uccelli, migratori e non, che da tempo immemore costruiscono il nido unicamente nell’area delimitata da queste spiagge. E questo non è tutto: si ritiene che i quasi 2.000 anni di abitazione da parte degli umani abbiano, nel tempo, ridotto esponenzialmente la quantità di specie originali portandole all’estinzione, soprattutto introducendo animali domestici, come le capre. Ma c’è ancora qualcosa che sopravvive indisturbato, benché ridotto di numero rispetto all’epoca più antica: l’albero del sangue di drago, altrimenti detta Dracaena cinnabari. Unica fonte, sacra ai locali, di una resina rossa nota come il cinabro, che si riteneva potesse fungere da panacea di tutti i mali. Oltre a servire per la creazione di una tintura, estremamente preziosa in campo tessile e per la realizzazione di mobili laccati. Secondo la leggenda, dopo il naufragio San Tommaso costruì la sua chiesa impiegando il legno della nave con cui aveva progettato di attraversare l’Oceano Indiano. Quasi come se il legno proveniente da questa terra non potesse realmente definirsi parte del regno di Dio.
Secondo la maggior parte dei racconti degli eco-viaggiatori, che oggi si spingono fin qui con assoluta disinvoltura e giustificato senso d’aspettativa, l’albero in questione è anche la principale ragione che è valsa a quest’isola la nomina di “luogo più alieno della Terra”. Basta uno sguardo, per capirne la ragione: come le altre dracene originarie dell’Africa, il sangue di drago è un arbusto che presenta pennacchi di foglie nastriformi al di sopra di un labirinto di rami simili a radici. Queste ultime, tuttavia, appaiono totalmente rigide, puntando in ogni direzione come gli aculei di un porcospino. La sommità della chioma, poi, appare quasi perfettamente piatta, enfatizzando ulteriormente questa illusione ottica di trovarsi di fronte ad un’albero girato al contrario. La compattezza estrema delle fronde, in realtà, ha uno scopo ben preciso: in quanto Socotra presenta un clima arido che si avvicina pericolosamente a quello di un deserto, e l’evaporazione dei liquidi costituisce un potenziale problema. Così i rami dell’albero si proteggono vicendevolmente, assicurandosi che almeno una parte di loro, per quanto possibile, rimanga in ombra. Un tempo, questi alberi prosperavano grazie alle nebbie e foschie mattutine, oggi più rare in funzione del mutamento climatico. Essi non sono che le antiche vestigia di un’epoca remota, assieme ai loro molti compagni di sventura…

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La fortezza sul macigno nel cuore dello Sri Lanka

Possenti regni ed enormi imperi sono crollati per una vasta gamma di situazioni svantaggiose, come mutamenti sociali, invasioni barbariche, crisi del commercio e dell’economia. Nel corso di battaglie cruciali al culmine di un conflitto epocale, può essere bastato un imprevisto, come condizioni climatiche avverse o un errore dei generali, per modificare lunghi secoli o persino millenni di storia. Resta tuttavia profondamente impressionante, tornare col pensiero alla fulgida ascesa e l’altrettanto rapido crollo dell’era del re Kashyapa nel 495 d.C, per l’effetto disastroso del mero capriccio di un elefante. Ovvero il suo pachiderma da guerra, per essere più precisi. Del quale si narra, nel momento in cui egli scese in campo per sfidare il suo più acerrimo nemico, che deviò di lato all’improvviso, portandosi dietro il suo padrone e tentano almeno in apparenza di fuggire via. Il che bastò a gettare l’intero esercito nello sconforto. Ed a portare a molti dei suoi comandanti più fidati ad ordinare la ritirata, se non addirittura un repentino cambio di bandiera. Certo, è inutile specificarlo: se il nemico fosse stato uno straniero, o il portatore di uno spietato cambiamento dell’elite al potere, tutto questo non sarebbe mai successo. Ma il nemico di Kashyapa, in quel fatidico giorno, altri non era che il suo stesso fratellastro Moggallana, unico vero erede al trono dei Moriya, dal momento esatto in cui l’altro aveva assassinato crudelmente il loro padre, murandolo vivo in una stanza del palazzo reale ben 18 anni prima di quella data. Un gesto imperdonabile secondo qualsiasi cultura, che l’aveva probabilmente indotto, fin da allora, a trasferire la sua capitale dall’ancestrale seggio di Anuradhapura. In un luogo che veniva ritenuto, a torto a ragione, del tutto inespugnabile da chicchessia.
Il senso di colpa ed uno stato di paura costante possono indurre le persone a fare molte cose. E specialmente quando le risorse a disposizione sono virtualmente infinite, come nel caso del monarca di un predominio sul popolo concesso dagli Dei stessi, edificare delle vere e proprie meraviglie dei loro tempi. Come le piramidi in Egitto, ritenute l’unico strumento per mantenere l’importanza di un sovrano dopo la sua morte. O la ricerca, relativamente più immediata, di una vita lunga e serena, all’interno di un sontuoso palazzo completo di giardini (pensili) svariate concubine, opere d’arte, incalcolabili ricchezze ed una vista ininterrotta verso l’orizzonte, al fine di scrutare l’arrivo dell’ora temibile della vendetta. Fu così che Kashyapa, secondo alcune teorie portando a termine un progetto già stilato dal suo sfortunato padre e predecessore Dathusena, decise di far costruire il nuovo centro del suo regno in un luogo dotato di qualcosa che fosse letteralmente unico nell’intera terra di Tambapanni (antico nome dello Sri Lanka). Ciò che in termini moderni viene definito una monadnock, oppure un inselberg: l’enorme macigno, in questo caso alto più di 200 metri, che costituiva l’unico residuo tangibile di un precedente vulcano. Come la celebre Uluru (Ayer’s Rock) australiana, ma nel territorio di un popolo dotato delle risorse tecnologiche, e la propensione culturale, necessari a sfruttarne a pieno l’imponente presenza. E questa fu la nascita di Sigiriya, che sembrava dovesse garantire al suo proprietario una vita eterna. Finché l’elefante, che come sua natura non dimenticava mai nulla, non decise di porre fine ad un simile ingiustizia di fronte al popolo di questo mondo e il successivo.
Ma non prima che egli facesse, della sua preziosa gemma sopraelevata, uno dei luoghi più magnifici che il mondo avesse mai conosciuto fino ad allora. La fortezza di Sigiriya, il cui nome significa “Roccia del Leone” prendeva il nome da una colossale porta scolpita posta in fondo a 1200 ripidi scalini, raffigurante l’animale più feroce noto alle genti dello Sri Lanka. Da lì, quindi, si accedeva ad un camminamento sopraelevato lungo 140 metri, completamente ricoperto di affreschi raffiguranti più di 500 Apsaras, le leggendarie consorti degli dei del cielo. In un tratto successivo, dove un tempo continuavano i dipinti, l’alto parapetto lascia il posto ad una parete ricoperta di un marmo lucido, affinché il sovrano e i suoi sottoposti potessero osservare la loro immagine assieme a quella delle divinità. Ma soltanto ai più fidati tra gli uomini, o alle più desiderabili tra le donne, sarebbe stato permesso di penetrare ulteriormente nel sancta sanctorum del despota patricida…

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