Nello spazio della tipica casa rurale, con gli shoji semiaperti per lasciar entrare il sole della primavera, un uomo in abito tradizionale arringa la sua ospite dallo sguardo rapito. Con un sorriso sereno, a un certo punto, raccoglie un cerchio di metallo con il filo più tagliente di un coltello da cucina: “Vedi come funziona? Si metteva attorno al braccio o al collo del nemico.” Segue dimostrazione pratica, “E nel momento in cui tentava di resistere, avresti tirato con forza… Così!” Morta e viva nello stesso tempo, la ragazza emette un sibilo di apprezzamento. Conta gli arti: uno, due… Quattro, tutto a posto. “Adesso andiamo un attimo in cortile. Ti spiegherò perché Naruto correva con le braccia parallele al suolo…”
Limpido e diretto è lo sguardo della dea del Sole Amaterasu, capostipite ed eterna protettrice della più lunga ininterrotta dinastia di governanti nella storia del concetto di nobiltà umana. In ogni luogo, tranne questo: dove lo splendore dei suoi raggi, colpendo l’appuntita sommità lignea dell’antico santuario di Ise, deviano nel dare luogo a luci ed ombre, che si estendono verso le valli geograficamente adiacenti. Dando luogo alle leggende di regioni popolate da creature subdole dei fiumi e delle foreste, striscianti kappa, possenti tengu e tutta la compagine restante dei superbi mononoke. O secondo una diversa e più credibile interpretazione, soprattutto grazie al filtro della razionalità contemporanea, intere famiglie di quegli uomini e donne che, addestrandosi in segreto, coltivarono le arti oscure, sfruttando tale fama leggendaria per portare a termine un’estrema varietà di missioni. Torniamo per un attimo nell’era del Paese in Guerra (Sengoku Jidai: 1467-1603) durante la quale un susseguirsi di generazioni dei signori della guerra, e particolarmente i più potenti tre individui parte della loro grande famiglia, plasmarono dal Caos l’immagine ideale di un paese totalmente unito e pronto ad affrontare le agitate onde tempestose della storia. Agendo, in molti casi, con l’aiuto rinomato di due “scuole”, se vogliamo veramente definirle tali, ciascuna con il nome derivante da un toponimo dell’odierna prefettura di Mie: Iga e Koga. E voleva la leggenda che diverse fossero le loro tecniche, elaborate tramite lo studio della mente e della psicologia umana. Così che gli Iga, esperti infiltratori e spie, operassero al di là delle linee nemiche per raccogliere prevalentemente informazioni utili ad elaborare un qualche tipo di strategia di guerra. Mentre nel contempo i Koga, più diretti e spietati, preferissero attuare sabotaggi o veri e propri assassini, al fine di minare in modo più diretto la capacità bellica del clan rivale. D’altra parte, tanto popolare resta la visione di un dualismo percepito tra uomini nascosti e tipici guerrieri, con i primi capaci di agire al di fuori delle rigide norme comportamentali del codice d’onore, per colpire i secondi nel modo più imprevisto e doloroso, guadagnandosi istantaneamente un posto d’onore nell’inferno delle loro reincarnazioni future. Ma chi è addentro alla questione, come l’esperto divulgatore Jinichi Kawakami, ben conosce la realtà che permette d’interpretare Iga e Koga come due facce della stessa medaglia. Così come, nella più profonda ed ignorata verità dei fatti (sia all’estero ed in patria) le categorie sociali percepite come particolarmente distinte di ninja e samurai. Laddove se volessimo attualizzarne le caratteristiche, potremmo ben dire che si tratta concettualmente di una distinzione come quella tra soldato semplice e un membro con addestramento delle forze speciali. Laddove il secondo mai e poi mai, si sognerebbe di considerarsi fuori dal proprio stesso contesto di formazione…
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Tubo, dolce tubo: i vantaggi di vivere in un pezzo di acquedotto cittadino
Ogni architetto degno di questo nome possiede un “tema” ovvero il punto cardine, più o meno esplicito, della sua produzione professionale. Che diviene manifesto non soltanto attraverso le singole scelte creative, ma anche nella specifica natura dei progetti che sceglie personalmente di portare all’attenzione del grande pubblico. E che se è davvero fortunato, anche senza il supporto di un facoltoso committente, può qualche volta riuscire a realizzare. Una visione, questa, che per James Law dello studio Cybertecture, fondato esattamente 20 anni fa nella vasta città di Hong Kong, corrisponde al reimpiego e la trasformazione in qualcosa di utile delle vecchie infrastrutture urbane, appesantite e rese del tutto obsolete dall’aumento esponenziale della popolazione. Immaginate dunque la sua espressione quando nel corso di un giro in macchina gli capitò, qualche anno fa, di scorgere all’interno di un deposito dimesso una gran quantità di sezioni di tubo in cemento rinforzato (CPM) dal diametro di circa tre metri, abbandonati a prendere la pioggia in attesa che un qualche cantiere di manutenzione e ripristino, o perché no ampliamento della rete idrica, manifestasse finalmente la necessità di seppellirli al di sotto del duro ed impenetrabile asfalto metropolitano. Giusto qualche tempo dopo, incidentalmente, il naufragio effettivo del suo progetto AlPod, per la costruzione di una serie di mini-case tecnologiche di lusso contenute all’interno di una scatola di alluminio di appena 40 mq. Perché parliamoci chiaro, se hai l’equivalente di svariate decine di migliaia di dollari da spendere per il tuo appartamento, difficilmente sarai propenso ad investirle in quello che era e resta comunque un cubicolo in grado di ricordare la cella di un ipotetico vasto alveare umano. Ecco la cognizione, dunque, derivata dal fortunato congiungersi degli eventi: abitare all’interno di due sezioni di tubo attaccate assieme, dando luogo ad un’opera che è sia la creazione di uno spazio a misura d’uomo che un gesto sostanzialmente efficace di riciclo, conduttivo a un impiego maggiormente redditizio delle risorse di partenza. Dopo tutto, secondo la logica dell’economia di scala, tubi come questo hanno un costo relativamente irrisorio. E lo stesso può dirsi, a fronte dell’opera di arredo e ri-conversione, della casetta che trae la genesi dall’opera di James Law, denominata, con un’occhio di riguardo nei confronti dell’alfabetica geometria, O-Pod.
Non si tratta naturalmente di un concetto del tutto nuovo (oggi giorno, quasi niente lo è) riprendendo tra le altre cose la corrente di questi tempi piuttosto popolare di chi abita all’interno del tipico container per il trasporto e la consegna di merci via mare, sebbene su una scala ancor più ridotta: qui si parla, in effetti, di appena 30 mq di spazio abitabile per un ulteriore 20% in meno rispetto alle alternative, entrando quasi in un reame comparabile a quello degli ormai leggendari capsule hotel, particolarmente popolari in Estremo Oriente, come angusta base di partenza per brevi trasferte di tipo lavorativo o viaggi avventurosi all’interno di un contesto ignoto. Con un obiettivo, tuttavia, in qualche modo più nobile e risolutivo: offrire un luogo dignitoso per vivere a tutti i suoi concittadini che hanno estratto la proverbiale pagliuzza più corta nel sistema economico globale, finendo per occupare posizioni che richiedono quanto meno un pied-à-terre tra gli alti palazzi di una delle città più costose al mondo, senza tuttavia concedergli uno stipendio tale da potersi permettere neppure il più economico degli affitti. Ecco dunque, la sua idea: posizionarli, questa volta letteralmente, IN MEZZO ai vertiginosi grattacieli, sotto i cavalcavia e…
L’abbaglio turco dei 700 castelli a schiera
È ancora possibile osservare, sulle alture che dominano il piccolo paese di Mudurnu a metà strada tra le città di Istanbul e Ankara, le rovine del castello bizantino di Modrene, dove le truppe dell’usurpatore Artabasdos furono sconfitte dall’esercito regolare di Costantino V nell’ottavo secolo d.C. Chiunque avesse l’inclinazione ad appassionarsi a una tale rovina in muratura erosa dai secoli e dalle intemperie, tuttavia, farebbe una grande fatica oggi a filtrare un altro elemento, per così dire medievaleggiante, di questo paesaggio non propriamente incontaminato. Come per il risultato di una partita a Age of Empires, o una sessione selvaggia di Photoshop, file multiple dello stesso costrutto architettonico si susseguono in parallelo alla singola strada provinciale sottostante. Ciascuna in se stessa perfetta, con la sua torre conica, gli abbaini, il balcone dalla balaustra ornata e le pareti bianche come la neve. Ma tutte assieme capaci, in qualche maniera, d’evocare il senso di un luogo surreale ed impressionante. Naturalmente come sempre avviene, è tutta una questione di punti di vista. Per cui se noi europei pensiamo allo stretto sul Bosforo della principale città turca, e le zone ad essa limitrofa, non possiamo cancellare dalla nostra mente immagini tipiche del Medio Oriente, con cupole, moschee, mezze lune e tutto ciò che ne deriva sulla mappa cittadina di un ipotetico sultano. Mentre per chi viene dalle terre degli aridi deserti d’Arabia, è inevitabile associare questi luoghi all’antica Europa, un luogo percepito in taluni ambienti come ricco di misteri e talvolta, un fascino ineffabile e remoto. Ne deriva che un territorio come questo, assai lontano dalle influenze dell’urbanistica moderna, possa essere associato idealmente, da un facoltoso industriale dell’Oman o dell’Arabia Saudita, alla Francia ed in modo particolare a uno specifico castello appartenuto, tra gli altri, alla regina Caterina de’ Medici nel XVI secolo, la cui conformazione ricorda una versione in scala superiore di ciò che qui ci ritroviamo costretti a vedere pressoché ad infinitum.
Questo sembrerebbe aver pensato, con un chiaro intento rivolto al guadagno commerciale, il personaggio diventato recentemente famoso all’estero di Mezher Yerdelen, capo della società d’investimenti immobiliare Sarot Group nonché un esponente di secondo piano del partito islamista della Felicità, entità politica fortemente radicata nel territorio pur non essendo al momento una forza di primo piano nelle elezioni nazionali. Il cui prestigio personale deve aver ricevuto una forte scossa, come del resto quello di molti suoi omologhi in altre grandi aziende, quando a seguito del crollo finanziario della lira turca concretizzatosi nei primi mesi della scorsa estate, per una serie di fattori tra cui le sanzioni imposte dagli Stati Uniti, si è ritrovato a dover dichiarare banca rotta. E di sicuro non ha aiutato il fatto che i preordini per una buona metà del suo progetto fossero stati improvvisamente cancellati allo stesso tempo, per ragioni largamente ancora da chiarire. Fermando a poco più di tre quarti l’avveniristico, e per certi versi incredibile progetto del consorzio Burj al (torri di) Babas, inizialmente concepito come terreno fertile d’investimento per un certo tipo di magnate dell’industria delle risorse petrolifere ormai non più entusiasta all’idea, con costi unitari per residenza che spaziavano tra i 370.000 e 500.000 dollari americani. Ciò che si è presentato dunque, all’inizio del 2019 e sotto l’obiettivo delle telecamere finalmente puntate sulla questione (si sa, il dramma crea sempre interesse) è uno scenario di esattamente 587 piccoli castelli di circa 400 metri quadri l’uno, come una versione psichedelica della regione della Loira qui trapiantata ma lascito all’improvvisi deserti, a causa di una singola quanto devastante catastrofe sociale. Il vento soffiava tra le loro finestre vuote, come la voce di altrettanti fantasmi ululanti al calare della notte…
L’appartamento adornato dai nidi di un milione di vespe
Ove un tempo il ronzio delle moltitudini riempiva l’aria della città, persiste adesso il silenzio. Cunicoli ombrosi, tra le camere spoglie, celle in sequenza l’una di fianco all’altra senza neppure una traccia residua di vita. Questo perché gli abitanti, seguendo l’istinto dell’ultima esponente di una lunga dinastia regale, hanno deciso di abbandonare la propria casa, con l’intento di trasferirsi in un terreno di caccia migliore. Eppure la pioggia, il vento, il passaggio degli animali e… Non hanno avuto tempo e modo di agevolare il processo entropico di annichilimento, di ciò che era e per quanto ci è dato di sapere, potrebbe non avere luogo mai più, per lo meno con quella specifica contingenza di fattori e configurazione possibile delle stanze. D’altra parte non siamo più fuori, qui. Bensì a casa di Hornetboy a.k.a. The Wasp Whisperer, al secolo Terry Prouty, insolito collezionista di Tulsa, Oklahoma, interessato in tutto ciò che deriva dall’opera di alcuni degli insetti sociali più (ingiustamente) odiati al mondo, tra cui quelli identificati da queste parti col nome di yellowjacket (quasi letteralmente: Gilet Gialli) ma che noi potremmo ricondurre con estrema facilità al concetto più immediatamente comprensibile di vespe. Oppure volendo ricorrere a termini maggiormente dettati dal senso comune: il problematico mostro volante dei giardini. Che non impollina più di tanto, non produce se non qualche volta il miele, che punge per difendere il suo nido e non ha nemmeno la decenza, al compimento di un tale crimine, di passare a miglior vita come le povere api. Ma che possiede, tra tante sinistre caratteristiche, anche un paio di doti notevoli: quella di uno straordinario architetto della natura e la capacità di produrre la carta, acquisita in un’epoca molto anteriore alla nascita di una tale industria dal nostro punto di vista umano.
E può certamente sembrare stravagante l’attività di quest’uomo di 48 anni, che ha dedicato una parte rilevante della sua vita e delle sue finanze a radunare il più ineccepibile e completo repertorio dei loro lavori, fin da principio esclusivamente per la propria soddisfazione personale, piuttosto che per una ricerca scientifica o altra iniziativa orientata alla scienza. Ma la bontà e la completezza il suo lavoro, per quanto ci è dato di apprezzarlo attraverso l’intrigante narrazione che ne viene offerta su Internet, possono fare molto nello stravolgere gli stereotipi di partenza, mostrandoci l’ingresso di un mondo del tutto nuovo…