Lungo e aerodinamico essere da 25 metri, le ali raccolte lungo i lati a un’estensione di 9 soltanto. Così affilato da non poter sembrare possibile, mentre neppure l’ombra di un finestrino “rovina” la parte frontale del tuo aghiforme muso. Quale potrebbe mai essere lo scopo di una simile meraviglia della tecnica parte della lunga serie degli “X” planes, ennesimo frutto del dipartimento progetti segreti della Lockheed Martin, nome in codice Skunk Works? Era il marzo del 1964 quando, ormai dopo un mese dall’inizio degli esperimenti, una troupe incaricata dalla Federal Aviation di documentarne i risultati tra la gente di Oklahoma City scoprì qualcosa di peculiare. Un gruppo di operai impegnati in un cantiere cittadino, piuttosto che aspettare il suono della propria sirena per andare a pranzo, avevano preso l’abitudine di sincronizzare la fine del turno con il passaggio di un aereo sopra la loro posizione. Il passaggio di un’aereo tanto rumoroso e preciso da non poter semplicemente passare inosservato, così veloce, in effetti, da rompere il muro del suono. E non soltanto… Quello.
Se c’è una lezione che possiamo trarre in effetti dalla serie di test sul volo ultra-veloce condotti dal governo degli Stati Uniti a spese della propria stessa popolazione, più o meno lieta di collaborare, è che l’orecchio umano può abituarsi a tutto; non così, invece, le ancor più vulnerabili vetrate dei palazzi: nel giro delle prime 14 settimane dell’operazione in effetti, la città scelta per il suo “grado di tolleranza” considerato superiore alla media, 147 tra le sole finestre dei due edifici più alti della città erano andate in frantumi. Ed entro l’arrivo della primavera vera e propria, gremiti gruppi di protesta erano stati organizzati al fine di chiedere l’immediata chiusura dell’iniziativa. La famosa operazione Bongo II, come era stata soprannominata, costituisce dunque oggi una delle maggiori basi (più o meno) scientifiche che operano a sfavore dell’adozione su larga scala del volo supersonico commerciale, permettendo nei fatti il superamento della barriera del suono soltanto sopra zone disabitate o le acque dell’oceano. Perché contrariamente a quello che si potrebbe pensare, tale roboante suono perfettamente udibile terra persino dalla quota elevata di un volo di linea, non è un qualcosa di momentaneo che termina alla successiva accelerazione, bensì un vero e proprio cono geometrico in grado di seguire il passaggio dell’aereo, udibile di volta in volta ad una precisa distanza del suo passaggio, PER TUTTO IL TEMPO in cui esso continuerà a muoversi al di sopra della velocità Mach 1. Ecco, dunque, la base operativa del progetto X-59 QueSST (dove Que sta per “quiet” ed SST vuole significare, per l’appunto, super-sonic transport) iniziato su richiesta della NASA nel febbraio del 2016 e con la sola partecipazione di uno dei maggiori fornitori aeronautici dell’esercito statunitense. Verso la creazione di un nuovo velivolo in grado di raggiungere i 1.510 Km/h (1,42 volte la velocità del suono) producendo un “boato” percepibile di appena 60 decibel contro i 105, ad esempio, del Concorde. Un qualcosa di effettivamente paragonabile, in modo prosaico, al rumore prodotto dalla chiusura decisa dello sportello di un’automobile finalmente lasciata nel suo parcheggio. Un proposito questo, ideale continuazione del processo iniziato nel 2003 con la definizione di Shaped Sonic Boom Experiment, finalizzato ad andare ben oltre i semplici F-15B con la forma di ali e fusoliera modificate al fine di limitare la coalescenza dell’aria sopra queste ultime, lasciando il posto ad un vero e proprio velivolo costruito da zero. Sostanzialmente diverso, dal punto di vista esteriore, da qualsiasi altro abbia mai solcato i cieli fin dal primo decollo sperimentale dei fratelli Wright…
La sanguinosa eterna guerra che concima l’isola di Sumba
Ci sono isole presso cui, una volta sbarcato, il turista si aspetta di essere guarnito da una ghirlanda di fiori, prima che i presunti indigeni (talvolta, stipendiati per essere tali) lo accompagnino al lauto pasto d’accoglienza previsto dal suo programma di viaggio. E poi c’è Sumba nell’Indonesia occidentale, melange di etnie di tipo melanesiano e austronesiano, dove appena fuori dal villaggio turistico, le antiche tribù si scontrano con metodi e armi tradizionali, sia durante che al di fuori del periodo annuale previsto per la grande Battaglia, come facevano ben prima che qui giungesse la Compagnia delle Indie Orientali. Ha una fama unica al mondo questo luogo, in effetti, per lungo tempo posto a margine delle mappe fatta eccezione per l’esportazione di legno di sandalo e riuscito a trasformarsi, in modo particolare a partire dagli anni ’80 e ’90, in una delle capitali mondiali dell’escursionismo avventuroso, inteso sia come inoltrarsi verso l’entroterra di una terra brulla, selvaggia e piena d’insetti, che venire direttamente a contatto con una cultura fortemente rappresentativa nonché per certi versi, capace di dimostrarsi altrettanto brutale. In occasioni come quella dell’importantissima festa annuale della Pasola (letteralmente “Lancia” dal termine di derivazione sanscrita sula) culminante nella discesa in campo, tra febbraio e marzo, di una significativa percentuale di tutti gli uomini abili al combattimento per il rituale che dovrebbe, idealmente, favorire la riuscita di un difficile raccolto. Ed è proprio come frutto della loro giostra spietata, compiuta da svariate centinaia di partecipanti in groppa ad altrettanti esemplari della razza di cavalli locale, il kuda-Sumbawa, che idealmente il sangue umano dovrebbe scorrere copioso sopra l’erba della sacra terra. Inducendo essa, o il grande spirito che la supervisiona, ad assistere gli agricoltori e respingere locuste, parassiti ed altri artropodi invasori.
Detto ciò naturalmente, al giorno d’oggi la questione è stata almeno parzialmente rivisitata, sostituendo le lance in questione con dei semplici bastoni senza punta, mentre il potenziale sacrificio dei baldi giovani colpiti ogni anno ha trovato la sostituzione di galline, polli e maiali ritualmente fatti transitare a miglior vita, poco prima dei banchetti che accompagnano, ogni anno, le celebrazioni. Eppure sarebbe totalmente ingenuo pensare, come avviene per altre particolari discipline appartenenti alla categoria dei blood sports, che l’impegno, lo sforzo e la sofferenza implicate da un simile evento siano in qualsivoglia modo meno autentiche di quanto sembrano, anche vista la presenza reiterata ed essenziale dei servizi di pronto soccorso, assieme alle forze che possano ristabilire l’ordine, nel caso niente affatto inaudito di una o l’altra parte che si lasci prendere la mano, iniziando a fare un po’ troppo sul serio.
Venendo quindi allo svolgimento propriamente detto della faccenda, ogni anno la Pasola ha inizio, o per lo meno dovrebbe averlo, alla specifica comparsa sulle coste dei vermi oceanici cosiddetti nyale, in effetti dei rappresentanti della specie del Pacifico Palola viridis, strettamente interconnessi alla vicenda leggendaria posta idealmente all’origine di un simile conflitto. Benché l’impiego del condizionale possa dirsi oggi necessario, vista l’attenzione comprensibile all’aspetto del turismo contemporaneo, capace di trovare grande beneficio nell’osservazione di un calendario esatto e prevedibile, durante quella che è per l’isola probabilmente la stagione maggiormente redditizia. Benché sussistano, in chiara evidenza, elementi assai più rispettosi della tradizione…
Aladino del parkour all’epoca dei ninja uzbekistani
Una figura con la giacca rossa corre lungo i vicoli di una città di cupole, minareti, alte mura e stretti vicoli labirintini. Quando nel giro di pochi attimi, tre individui si palesano all’inseguimento, brandendo le pericolose shamshir, normalmente note come sciabole persiane del Medio Oriente. Egli corre, quindi, cade, inciampa, rotola di lato. Schiva i colpi ed alla fine in qualche modo, riesce a seminarli sopra i tetti tra i recessi di quel mistico consesso urbano. Per trovare, in qualche modo, il tempo di rubare il naan, pane cotto nei forni d’argilla, da donare a un paio di bambini senza nulla da mangiare. Gesto a sèguito del quale viene nuovamente raggiunto, così che non ha altra scelta che riprendere a fuggire…
Ha un certo stile riconoscibile, quel vero e proprio “flusso” se vogliamo, che tende a caratterizzare normalmente le metodologie di montaggio di un film. Così mentre l’impressione offerta da quel semplice cortometraggio, gradualmente, si amplia per offrire scorci di un intero filo narrativo a noi già noto, all’improvviso comprendiamo di trovarci dentro a un video di Devin “Supertramp” Graham, il regista e produttore di Salt Lake City (Utah) che attraverso gli anni si è riuscito a confermare la propria immagine come un sinonimo di sport d’azione e d’avventura su YouTube, in questo caso girato assieme alla celebrità dell’acrobatismo urbano Calen Chan, nostra vecchia conoscenza per le molte partecipazioni a brevi opere del post-moderno internettiano. Sempre attorno alla disciplina di origini francesi del parkour, incentrata sulla filosofia e lo stile di vita della continua ricerca del movimento e l’efficienza dei gesti, come proposto originariamente dall’addestratore militare Georges Hébert ed istintivamente messo in pratica da incalcolabili generazioni d’eroi ed antieroi. Personaggi che l’autore letterario o cinematografico di turno, ogni volta, metteva a diretto contatto con le contingenze più difficoltose e i casi avversi della vita, come pirati, banditi, agenti speciali e gli altri “diamanti grezzi”, per usare una terminologia più prettamente disneyana. Quella, per l’appunto, di Aladino.
Ora è interessante, a tal proposito, notare come il luogo dell’azione non sia propriamente quello che in origine dovette immaginare Antoine Galland, l’autore francese della prima edizione occidentale del testo, celebre raccolta contestualizzata di novelle di origine indo-iranica, arabo-abbaside-irachena, arabo-egiziana. Poiché siamo, come desumibile dal particolare charme soltanto vagamente “arabesco” dell’architettura in mostra, in terra d’Uzbekistan poco al di là del Caspio, tra il lago d’Aral e Samarcanda, e per essere precisi in due specifiche città: Khiva e Bukhara. E del resto, poco male per gli amanti delle ambientazioni storicamente corrette, visto come qui la fonte usata come ispirazione sia piuttosto quella del cartone animato degli anni ’90, in cui il regista dei Walt Disney Studios Ron Clements esplorava gli aspetti più validi per l’intrattenimento di questa particolare vicenda narrativa dall’origine relativamente incerta. E poco basta, dunque, per donargli un’estetica superficialmente “corretta”, soprattutto con le ottime capacità di produzione e montaggio di Devinsupertramp aiutato dai rappresentanti dell’ente del turismo uzbekistano, che l’avevano chiamato in quella splendida occasione a visitare, assieme ad altre celebri personalità ed influencer di YouTube, alcuni dei luoghi più riconoscibili di quel notevole paese. Vedi ad esempio lo straordinario quartiere storico di Itchan Kala a Khiva, dove si svolge la prima parte dell’inseguimento, con le sue mura merlate e la moschea di Djuma dalle 218 colonne in legno. Ma, potrebbe sorprendervi dopo aver visto il video, nessun bazaar…
Le catene da neve che si attivano con la pressione di un interruttore
Il tempo è denaro, indubbiamente, il tempo è può essere un tiranno. Ma può anche capitargli di rappresentare, in determinate circostanze, la linea divisoria tra la vita e la morte. Immaginate ad esempio il caso di stare guidando a velocità sostenuta lungo una strada dell’Ohio, del Wisconsin o del Minnesota… Qualcosa di relativamente pesante, come un furgone, scuolabus, camion dei pompieri o autoarticolato dall’alto numero di ruote. Quando a un tratto vi rendete conto che il tempo di risposta ai movimenti del volante si è allungato, i freni non funzionano, il veicolo è del tutto fuori controllo! Immagino sappiate già di che si tratta: il temutissimo ghiaccio nero, conseguenza del fenomeno meteorologico noto come gelicidio, che diventando un tutt’uno inscindibile con l’asfalto, lo rende totalmente impervio alla trazione veicolare e al tempo stesso Imprevisto. Perché ovviamente, non è certo possibile montare le catene come precauzione, laddove il ricorso a un simile espediente in condizioni d’assenza di neve, oltre ad essere contrario alla legge per i danni causati al manto stradale, accorcerebbe la durata dei nostri pneumatici in maniera esponenziale. Niente paura, tuttavia! Poiché è quello l’unico momento, nel corso del nostro scenario ipotetico, in cui il fantasma di un anziano maestro Jedi dal color verde oliva comparirà dinnanzi al vostro parabrezza, declamando con voce stentorea: “Il pulsante devi premere, soltanto in questo modo sopravvivere potrai” E… CLANG!
Non è magnifico? Non è forse un’incredibile miracolo della scienza? Nel giro di appena un secondo, un secondo e mezzo, il sufficiente numero di ruote sotto la carrozzeria ritorneranno a fare presa lungo l’impossibile sentiero. Proprio come se fermando momentaneamente il tempo, il vostro angelo custode nella Forza avesse provveduto ad installare l’unico sistema in grado di risparmiarvi il pericoloso incidente. Ed è in effetti proprio questo l’episodio a cui abbiamo assistito, con la sottile differenza di esser stato il frutto di una tangibile invenzione umana, piuttosto che l’intervento sovrannaturale di un qualcuno oltre lo spazio “visibile” del mondo. O per esser più precisi, frutto del progetto originariamente disegnato da Mr. W.H. Putnum di New York nel 1915, benché, molto probabilmente a causa delle possibilità tecniche relativamente limitate dell’inizio del secolo scorso, non sarebbe stato lui a portare a compimento le più estreme conseguenze dell’idea. Bensì lo svedese Göran Törnebäck di Linköping, che aveva acquistato il brevetto nel 1977, al fine di proteggere la propria piccola flotta di furgoni per la consegna del latte dal terribile pericolo del ghiaccio nero. E non soltanto quello: anche permettergli di navigare adeguatamente, senza le perdite di tempo dettate dalla continua applicazione e rimozione delle catene da neve, per le strade spesso congelate della sua città. Ma le drop chain o automatic tyre chain (entrambe definizioni previste dall’odierna anglofona nomenclatura) possono essere molto più di questo, proprio per la capacità di entrare in funzione nel giro di pochi attimi e con il veicolo già in movimento. Grazie all’ingegnoso principio che caratterizza, ad oltre trent’anni, il loro semplice funzionamento. Avete presente in parole povere, il leggendario funzionamento dell’arma di Xena, regina guerriera delle Amazzoni dal volteggiante disco chakram preso in prestito direttamente dalla dinastia indiana dei Moghul?



