Amore di una mongolfiera: trovato marito per la materna balena dei cieli

Ogni città ha il suo simbolo, un punto di riferimento dall’alto grado di visibilità internazionale custodito nella memoria collettiva geografica, capace di costituire un formidabile pretesto per coloro che desiderano viaggiare per conoscere, scoprire e approfondirne il paese. Per alcuni luoghi si tratta di antichi monumenti, per altre di moderni grattacieli, mentre luoghi come Dubai possiedono una letterale cornucopia di meraviglie futuribili e del tutto prive di un contesto. La capitale australiana Canberra, luogo stranamente poco conosciuto da chi abita fuori dalle sue immediate vicinanze, vanta dal suo centenario del 2013 una grande tartaruga fluttuante piena d’aria calda, dal volto sereno e l’indole pacifica, ornata da cinque seni penduli per lato, dall’aspetto stranamente e sorprendentemente umano. Creatura surreale e che potremmo definire assolutamente aliena, se non fosse per l’evidente senso d’empatia e cordialità che riesce ad emanare, come avviene del resto per molte delle opere della sua creatrice, l’artista originaria della Sierra Leone Patricia Piccinini, famosa per la grande quantità di statue iperrealistiche vagamente riconducibili al mito letterario dell’isola del Dr. Moreau. “La scienza è andata troppo oltre?” Recitava un famoso banner pubblicitario dell’inizio degli anni 2010 chiaramente mirato a shockare i navigatori del web, con la figura sottilmente inquietante di quella che avremmo potuto definire come una vera e propria donna-cane sdraiata a terra, totalmente glabra e di colore rosa chiaro, dalle grandi orecchie, il naso largo ed un’espressione simile alla preoccupazione materna. La cui nudità, in effetti, trovava ampia giustificazione nei tre cuccioli/bambini intenti a prendere il suo latte, nella versione surreale di un vero e proprio quadretto di famiglia meta-umana. Nient’altro che un’appropriazione indebita, in effetti, e totalmente senza alcun permesso dell’autrice, di una delle sue opere di maggior impatto visivo e facente parte della sua mostra del 2003 “We Are Family” con un messaggio ed un significato simili, all’origine, alla svolazzante mongolfiera Skywhale.
O forse sarebbe più appropriato, al giorno d’oggi, parlarne al plurale? Da quando a febbraio di quest’anno, completando un lungo percorso di autorizzazioni cittadine, preparazione tecnica e lavorazione attentamente coordinata, la notevole creatura si è guadagnata anche un suo partner a tutti gli effetti, definito dall’artista in modo alquanto semplice come Skywhalepapa, benché notevoli distinguo vadano attribuiti rispetto all’antecedente creazione ed il tipo di messaggio veicolato nel suo complesso. Posizionato in modo prettamente verticale e insolito per una simile tipologia d’aeromobile, comportando ulteriori complicazioni dal punto di vista ingegneristico, la notevole figura vanta infatti un paio di braccia dall’aspetto muscoloso, sotto le quali ospita una serie di piccoli della sua specie aerea ben protetti da qualsiasi tipo di minaccia e intenti ad osservare attentamente il panorama. Figli suoi, della pettoruta controparte o altri membri di quel branco immaginifico e volante, non è in effetti specificato e la stessa artista si preoccupa d’evidenziarne la qualifica indefinita, perché le due opere non vengano considerate una rappresentazione del concetto di famiglia in quanto tale, bensì quello di un’istinto protettivo verso le nuove generazioni, che risulti essere del tutto universale per qualsiasi gruppo di animali a noi noti. In tale qualifica, Skywhale e il suo consorte s’inseriscono in una poetica comunicativa che è al centro stesso della missione d’artista di Patricia Piccinini, preoccupata non soltanto da questioni relative all’evoluzione delle specie ed il transumanismo, ma anche e soprattutto dal portare l’attenzione del suo pubblico a quel senso d’empatia che è una delle regole fondamentali di ogni tipo d’interrelazione con altri esseri viventi, non importa quanto strani, diversi o inumani nei loro comportamenti e storie personali pregresse. Una visione che potremmo definire estremamente utile, in questo mondo in cui il profitto immediato domina sopra il bisogno di tenere vivo e florido il grande albero dell’Esistenza…

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Questa mega-tazza riflettente è il più avveniristico spazio museale del nuovo millennio

Angusto, polveroso, perennemente avvolto in uno stato di parziale penombra. Oltre la sala coi dipinti dei Maestri, dietro il corridoio delle sculture Moderne. Sotto l’area con le mummie Egizie; un tale spazio irrinunciabile, ma raramente visitato, corrisponde in modo pratico agli scantinati di un palazzo abitativo, ai suoi garage, al sottosuolo con gli impianti tecnici e di riscaldamento. Ma è ricolmo di un possente alone di mistero: quali opere tra gli occulti recessi, quanti oggetti dalla provenienza incerta? Sotto la supervisione il trafficare di che tipo di restauratori ed altre possibili figure professionali? Questo è il tipico deposito, parte inscindibile di un rinomato museo. Luoghi come il Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, fondato dall’unione delle collezioni degli eponimi benefattori, nell’ormai distante 1849. Abbastanza distante da procedere all’accumulo in quasi due secoli di 151.000 opere di varia natura, con una particolare specializzazione nell’eccezionale patrimonio pittorico d’Olanda. Ed abbastanza distante da trovarsi ad accumulare una non meglio definita serie di problematiche di tipo strutturale ed organizzativo, tali da portare alla chiusura della prestigiosa e rinomata istituzione a partire dall’anno 2019, e per un periodo che si stima dover proseguire fino al 2026. Sette anni di assenza dagli itinerari della cultura nazionale e quelli del turismo proveniente da ogni parte del mondo, sette anni senza mostre, per chi aveva scelto d’impiegarlo come trampolino di lancio per la propria voce nell’affollato ambiente dell’arte. “Sette sono troppi” pare quasi di sentire l’allarmata voce degli addetti alla pianificazione urbana, che coerentemente a un tale contrattempo sono giunti a elaborare un’imprevista quanto pratica e immediata soluzione funzionale. Quella di trasformare il deposito stesso, nell’attrazione. Gli angusti corridoi in attraenti ed augusti spazi aperti al pubblico. E farlo in modo totalmente programmatico, all’interno di uno spazio preparato ad hoc. Questo oggetto alto 39 metri entro cui potreste riuscire a specchiarvi, dunque, è il Boijmans Van Beuningen Depot.
Progettato e costruito grazie all’assistenza dello studio di architettura MVRDV, nella figura del fondatore e notevole creativo Winy Maas, l’edificio è stato costruito a partire dal 2017 nel parco stesso del museo storico, prendendo forma come una sorta di miracoloso uovo gigante. Questo perché lungi dal trovarsi a sfruttare linee semplici e dirette, l’imponente struttura da 15.541 metri quadri di spazio utilizzabile presenta, come molte altre creazioni del suo progettista, l’aspetto dirompente della migliore tradizione modernista, grazie all’impiego di una serie di accorgimenti estetici e funzionali. A partire dalla base più stretta del tetto per ridurre lo spazio occupato nel parco, tale da donargli un aspetto superficialmente paragonabile a quello di un’insalatiera o tazza per la prima colazione. Se non fosse per il piccolo “dettaglio” di un’intera foresta di pini e betulle sulla sommità, ed il fatto non meno notevole dei 1.664 pannelli di vetro specchiato disposti nell’intera superficie esterna di 6.906 mq, tali da riflettere i dintorni, la gente che l’osserva e la stessa struttura del museo storico, con la sua torre alta esattamente quanto l’innovativa controparte strutturale. Così prossima all’inaugurazione, prevista sabato prossimo alla presenza di re Guglielmo Alessandro d’Olanda, durante cui l’intero vasto pubblico sarà invitato finalmente a sperimentare questo nuovo e coinvolgente respiro dell’arte, distribuito nei sette livelli di spazi ibridi, capaci di funzionare sia come aree di stoccaggio che ambienti utili all’esposizione dei loro molti tesori. Per non parlare delle ampie vetrate disposte attorno all’atrio centrale, entro cui sarà possibile ammirare il personale di conservazione e restauro all’opera, giungendo a sperimentare in via diretta l’effettivo funzionamento di un complesso e stratificato meccanismo operativo come il Boijmans Van Beuningen. Il tutto attraverso una struttura dalle caratteristiche architettoniche assolutamente originali, tali da ricordare lo scenario di una delle migliori serie cinematografiche fantastiche dei nostri tempi…

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L’eccezionale realizzazione del primo carro armato in legno di quercia vietnamita

E poi, tra le più interessanti implicazioni delle tecniche di marketing virale post-moderno, figura questa: il classico momento in cui una grande compagnia multinazionale, nell’interesse di far meglio conoscere ciò che vende, contatta uno dei numerosi e notevoli artisti del Web. Per commissionare alla sua agenda, dietro il pagamento di una somma rigorosamente segreta, un suo personale contributo, spesso fantastico ed inimitabile, alla redditizia leggenda di quel franchise. È un capovolgimento di fattori di quel mondo, in cui ogni creazione viene raggiunta tramite crismi e linee guida dettate da un comitato, che il direttore creativo controlla soltanto in parte, dovendo rispondere alle direttive dei suoi manager, i superiori e gli azionisti della compagnia. Così il vero metodo di chi è pronto a sovvertire ogni legittima aspettativa, resta solo quella di chi ha il compito, sebbene temporaneo, di lavorare in pubblicità. Una notevole scoperta, capace di condurre a significative soddisfazioni, anche da parte del famoso carpentiere vietnamita Trương Văn Đạo, già famoso per il suo canale di larga fama ND – Woodworking Art in cui realizza, a partire dall’anno scorso, una vasta quantità di oggetti e supercars guidabili in scala ridotta 1 a 3, frutto del più fine modus operandi fatto di pazienza, attenzione per i dettagli, straordinaria perizia nell’impiego dei suoi strumenti. Doti che potrebbero anche cambiare, all’interno di un particolare universo parallelo, le sorti stesse di un conflitto armato tra due nazioni… Ed ecco a voi la prova.
La vegetazione si agita nel vento. Le nuvole corrono veloci. La gente per le strade di Bac Ninh, cittadina di 247.000 abitanti nella parte settentrionale della penisola indocinese, si ferma per qualche saliente attimo e scruta in quella memorabile direzione; mentre i pensieri corrono indietro, ai ricordi dei propri genitori e nonni del conflitto più recente e significativo della loro storia pregressa, durante cui armamenti francesi e statunitensi giunsero a diventare una visione drammaticamente comune tra le strade del paese dei draghi. Mezzi come il Panhard EBR, Engin Blindé de Reconnaissance, uno dei più iconici mezzi europei da ricognizione con armamento pesante della seconda metà del secolo scorso. Ripreso direttamente dalla sua fedele riproduzione introdotta soltanto 3 anni fa all’interno del sempre popolare ed ormai antico videogioco di combattimento strategico World of Tanks, capace di mantenere focalizzata l’attenzione di un pubblico di appassionati per un periodo di ormai ben 10 anni. Una singolare scelta, dopo tutto, nel vasto e celebre catalogo di un titolo focalizzato principalmente sugli anni della seconda guerra mondiale, assai probabilmente motivata, almeno in parte, dal tipo di risorse e materiali a disposizione dell’autore ed unico personaggio di questo singolare show. Che vedono protagonista, come al solito, oltre al telaio e motore recuperati da un furgone della Mitsubishi, la più fedele scocca realizzabile interamente in legno di quercia finemente lavorato ad intaglio, come una letterale scultura semovente, direttamente proveniente dalla più elegante scuola tradizionale di carpenteria vietnamita. Antico e moderno, dunque, uniti ad una delle più imprescindibili passioni dell’umanità (qualsiasi sia il mondo o l’universo d’appartenenza): farsi la guerra tramite l’applicazione di sistemi tecnologici che siano splendidi e riconoscibili, ancor prima che semplicemente letali. Visione prontamente ed appropriatamente sdrammatizzata, nell’intento dietro questa commissione realizzata su richiesta, grazie alla solita funzione dimostrata dai video prodotti dall’artista: far divertire, tramite partecipazione diretta, il suo simpatico e giovane figlio, imprescindibilmente invitato a prendere parte al collaudo del veicolo con evidente e comprensibile sorriso, mentre gusta lietamente l’ultimo residuo di un lecca-lecca, simbolo di spensieratezza totalmente all’opposto di qualsiasi conflitto armato in quanto tale…

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I microscopici caleidoscopi viventi creati dall’arrangiamento delle diatomee

Con concentrazione e precisione superiori all’umano, Klaus Kemp versa il contenuto della sua provetta all’interno di una bacinella, quindi ne estrae una minima parte mediante l’uso di un contagocce. Finalmente completo il lungo e laborioso processo di depurazione, mediante l’impiego di acido solforico, solventi e conseguente filtratura certosina, il liquido all’interno sembra scintillare come il più incredibile tesoro di tutte le Ere. Mentre socchiude lievemente gli occhi, avvicina l’estremità dello strumento al vetrino precedentemente disposto sotto il miglior strumento ottico di cui dispone nel suo laboratorio, attentamente cosparso dell’apposito fluido appiccicoso. E sorridendo, prende tra il pollice e l’indice l’impugnatura del micromanipolatore, una sorta di pinza da orafo collegata a tre capsule barometriche, capaci di ridurre e riprodurre perfettamente su scala inferiore i gesti messi in pratica dall’utilizzatore. Ora, tutte le luci possibili sono accese alla massima potenza. Ora i raggi del sole stesso filtrano attraverso le finestre volte in direzione dell’alba. Minuscole stelle, affilate stecche o losanghe, perfetti ammassi globulari attendono la sua attenzione. Tempo di mettersi, finalmente, al lavoro!
Nel vasto e variegato genere definito con l’appellativo di fantascienza speculativa, ricorre spesso la tematica della descrizione di una particolare razza aliena. Simile o straordinariamente distante dagli esseri umani, essa viene definita attraverso i propri aspetti esteriori, la fisionomia, le particolari meccaniche sociali ed il sistema politico vigente. Mentre ciò che viene spesso trascurato, fatta eccezione per alcuni autori, sono le particolari forme d’arte. Questo perché, probabilmente, l’esternazione di una propria visione immaginifica attraverso tecniche creative è giudicata in modo universale come una velleità per lo più individuale, inadatta a delineare gli stereotipi impiegati nella creazione di un intera genìa senziente, possibilmente distribuita attraverso diversi strati sociali. Tutto ciò nonostante attraverso gli studi antropologici pregressi siano state individuate alcune linee guida ideali, che ricorrono attraverso civiltà anche del tutto disunite e geograficamente distanti: la ricorrenza di determinate strutture, l’amore per l’ordine, l’applicazione di metodologie stilistiche mirate alla creazione di un qualcosa che possa essere universalmente descritto come bello ed appagante per lo spirito… Dell’uomo. Ciò che diviene determinante in maniera maggiormente significativa, a questo punto, diventa la scelta del mezzo. Sia che si tratti di un qualcosa dall’alto grado di sofisticazione finalizzata a simili scopi, come pittura, scultura, musica, poesia, piuttosto che un’adattamento dall’applicazione pratica di metodi creati appositamente ad hoc. Sistemi che vanno al di là del semplice bisogno procedurale, lasciando intendere l’esistenza di un merito ulteriore nel riuscire a fare un qualcosa di difficile, e proprio per questo tanto più unico ed originale nel grande oceano dell’Universo. Se davvero, prima o poi, dovessimo incontrare popoli provenienti da distanti regioni dello spazio percepibile, non è di certo facile provare a immaginare quali tra le nostre opere degli ultimi 3.000 anni riuscirebbero a colpire maggiormente la “loro” immaginazione. Ma un certo valore oggettivo, innegabile per qualsivoglia tipologia di sinapsi o schema neuronale, potremmo riconoscerlo nell’opera di coloro che prendono un qualcosa di creato dalla natura, trasformandolo attraverso quelle stesse linee guida che ricorrono all’interno della percezione umana della realtà. Veri e propri ponti tra il possibile e l’apparenza, il passato e il futuro e per loro tramite, in un certo senso, la vita stessa e la morte.
L’arrangiamento artistico delle infinitesimali alghe unicellulari note come diatomee è una pratica risalente sulla Terra alla seconda metà del XIX secolo, quando tra i possibili utilizzi del sistema d’osservazione dell’eccezionalmente piccolo, il microscopio ottico, ne venne individuato un tipo sorprendentemente nuovo ed affascinante: la creazione ed esposizione di veri e propri cataloghi di quanto i primi scienziati si mettevano a descrivere nei loro trattati, variegati microbi ed impercettibili creature d’infinite tipologie distinte. Un passatempo spesso complicato da portare fino alle sue estreme e maggiormente valide conseguenze, data la necessità d’individuare e mettere schemi misurabili in una manciata di micron, ben lontani da quanto fosse possibile osservare ad occhio nudo. Mediante l’impiego di strumenti come un ciglio di maiale o la punta di uno spillo, preventivamente liberati da ogni potenziale accumulo d’energia statica, capace di attirare a se le diatomee. Eppure, poiché dove c’è una sfida sussiste il desiderio di dominarla, ben presto determinati ambienti d’epoca Vittoriana si riempirono delle opere di questi eccezionali praticanti, tra cui il più celebre ad oggi resta il tedesco Johann Diedrich Möller (1844-1907) senza pari alla sua epoca per quantità, varietà e perizia delle composizioni prodotte, la stragrande maggioranza delle quali andanti ben oltre la necessità di presentare un catalogo di creature. Sconfinando nell’evidente compiacimento di creare un qualcosa di simmetrico, coordinato e memorabile per lo spettatore, mediante la creazione di composizioni geometriche di vario tipo, cerchi o addirittura figure prese in prestito dall’universo osservabile e l’immaginario collettivo. Così che ben presto, molti avrebbero seguito il suo esempio, aspirando a ricevere almeno un barlume di luce riflessa della sua capacità di regalare un lascito innegabile alla posterità inconsapevole di quanto abbiamo intorno, ogni qualvolta c’immergiamo all’interno di una placida laguna o corso d’acqua…

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