C’è una dose non indifferente di saggezza nel sapere popolare, che affondando le radici oltre i confini dell’antichità permette, molto spesso, di trovare una via d’accesso alternativa alla verità. Folklore, dicerie, discorsi tramandati, cognizioni come quelle che in un sito a largo delle isole di Paracelso, arcipelago situato tra il Vietnam e le Filippine, potesse sorgere il palazzo del Re Drago dei Mari Orientali, un Dio delle Tempeste portatore di tifoni ed altre immisurabili devastazioni ai danni dell’umanità. Ovvero il luogo dove Sun Wukong, l’importante personaggio letterario noto in Occidente come il Re delle Scimmie, al principio del suo viaggio più famoso si recò per prelevare l’arma micidiale del Ruyi Jingu Bang, un colossale pilastro dall’estremità dorata del peso di 7,960 Kg, capace di assumere la grandezza di un bastone quando veniva brandito o addirittura ridursi a quella di un’ago, per essere riposto dietro l’orecchio dell’indisciplinato eroe. Ma cosa c’era effettivamente, in questo particolare tratto di mare, da poter permettere una simile associazione d’idee? Nient’altro che un buco (azzurro) formato da processi preistorici e a dire il vero sufficientemente profondo, coi suoi 300,89 metri, da risultare il più significativo al mondo. Tecnicamente una dolina, in altri termini, benché probabilmente non formata da meri processi carsici, bensì l’ancestrale risultanza di una grande glaciazione, al termine della quale il cambiamento del livello delle acque e le temperature vigenti causarono un grande vuoto dalla forma approssimativamente conica, semplicemente troppo vasto per essere colmato dai sedimenti. Tra il dire e l’esplorare ad ogni modo, come avrebbero potuto confermare i tre compagni dell’epocale itinerario verso l’India compiuto da Sun Wukong alla ricerca dei sutra buddhisti, c’è di mezzo un’effettiva presa di coscienza del mondo accademico e l’accumulo di fondi sufficienti, poiché organizzare spedizioni verso il mondo degli abissi non è cosa facile, né in alcun modo alla portata di tutti. Il che permette di collocare un primo approfondimento alla questione soltanto a partire dalla metà degli anni 2010, quando una serie di studi sono stati pubblicati in rapida successione ad opera di enti oceanografici ed università cinesi, atti a documentare per la prima volta scientificamente il luogo destinato ad acquisire fama internazionale con il nome di Dragon Hole (let. Il Buco del Drago) o la dolina di Yongle (永樂) dal nome del terzo imperatore della dinastia Ming. Con la prima spedizione compiuta nell’agosto del 2015 ad opera dell’Istituto per Protezione dei Coralli mediante l’utilizzo di una particolare barca dal fondo piatto, ancorata in modo tale da restare stabile nel centro esatto del foro, mentre un sottomarino telecomandato Video Ray Pro 4 si occupava di fare quello che nessun altro, dopo il divino scimmiotto immortale, si era mai azzardato a fare: oltrepassare il punto divisorio dell’aloclino, dove l’acqua con una concentrazione salina differente manca di riuscire a mescolarsi con quella del mare circostante. Formando una barriera per l’ossigeno, i pesci ed ogni altra forma di vita tipica del Mar Cinese Meridionale…
profondità
La grotta dipinta dagli uomini prima che giungesse il mare
Ogni grande avventura inizia con un primo passo, fatta eccezione per quelle, talvolta ancora più incredibili, che individuano il proprio esordio nel momento di un tuffo. Dal ponte di una barca, situata in posizione strategica, ovvero in corrispondenza di uno di quei luoghi che costituiscono il punto di contatto tra l’universo dello scibile acquisito e tutto quello che risiede oltre il suo confine, ovvero l’assoluta novità di un qualche cosa di dimenticato. Che prepotentemente torna al centro delle discussioni, grazie all’opera di un singolo e ambizioso visionario. Dopo tutto cos’è uno speleologo, esploratore delle grotte più o meno sommerse, se non il cercatore di tracce ovvero valido pioniere, capace di raggiungere sentieri assai lontani dagli acclarati limiti del senso comune. Benché persino lui sarebbe poco incline, nella maggior parte delle circostanze, a ritrovare il segno di un’antica civiltà, soprattutto se per giungere in tal posto si è dovuto immergere a più di 37 metri nelle acque salmastre che circondano un continente. E non è forse, proprio questa, una prova, ovvero il nesso dell’intera narrazione? Molte delle trattazioni relative alla grotta francese di Cosquer situata non troppo lontano dalla città costiera di Marsiglia, ne hanno fatto un’argomentazione particolarmente difficile da accantonare. In merito all’incombente innalzamento del livello dei mari. Poiché in assenza di tale fenomeno, l’unica possibile spiegazione alternativa è che tra i 27.000 e 19.000 anni prima di questa data, nell’assoluta oscurità, una rilevante quantità di uomini preistorici abbiano nuotato fin qui a rischio della propria stessa sopravvivenza. Per poi mettersi, nel poco tempo a disposizione prima dell’esaurimento dell’aria, a dipingere 200 figure parietali, tra realistiche rappresentazioni di animali come cavalli, bisonti, antilopi, cervi e felini. Oltre ad alcune figure antropomorfe con vistose caratteristiche sessuali e l’onnipresente “stencil umano” del neolitico, ovvero la sagoma di mani attorno a cui è stato spruzzato del pigmento colorato, probabilmente dalla bocca stessa del suo creatore. Esattamente il primo segno individuato, quest’ultimo, nell’ormai remoto 1991 durante una delle esplorazioni successive alla prima scoperta di Henri Cosquer, nel periodo in cui stava tentando di trovare i confini di questo mondo sommerso con l’aiuto dei fratelli belgi Bernard e Marc Van Espen. Ma poiché nessuno stato di grazia può durare per sempre, è a questo punto che le voci cominciarono a girare, raggiungendo l’orecchio di altri sommozzatori che speravano di fare la scoperta del decennio, non tutti necessariamente cauti, né abbastanza esperti da scongiurare il pericolo latente. Fino al tragico incidente datato al 9 luglio 1991 quando tre subacquei provenienti da Grenoble, sollevando accidentalmente una quantità eccessiva di sedimenti dal fondo del lungo ed inclinato tunnel d’accesso, si ritrovarono disorientati non riuscendo più ad uscire prima dell’esaurimento dell’ossigeno. Così che, dopo aver partecipato al recupero dei corpi assieme al collega Yann Gogan, i primi frequentatori della grotta non hanno altra scelta che dichiararne ufficialmente l’esistenza presso l’Ufficio degli Affari Marittimi di Marsiglia. Inizia, a questo punto, un lungo periodo di studi ed approfondimenti…
L’oscuro scultore dell’oceano e del mondo imperscrutabile delle backrooms
Il mondo di Internet è spesso il luogo collettivo della mente dove vaghe idee o pensieri transitori si trasformano in intere discussioni lunghe molte pagine, ininterrotte nonostante l’alta quantità di tentativi di portare il treno a deragliare tra gli spazi inesplorati di possibili divagazioni alternative. Una progressione logica, o del tutto priva di questa particolare qualità, che conduce sulla strada di un latente senso d’ottimismo valido a risolvere qualsiasi problema, chiarire ogni dubbio che tormenta le nostre prevedibili esistenze. Almeno finché non ci si è trovati, dopo un passo falso concettuale ed imprevisto, nel puro regno dell’inconscio e tutto quello che questo comporta. Terra senza nome di un pianeta alieno, spazio imponderabile dalle funzioni e regole tuttora sconosciute alla stragrande maggioranza delle persone. Ed è precisamente a questo punto che riemerge, persino nella nostra epoca di pixel, post e intelligenza artificiale, la figura senza tempo dell’artista, in grado di dar forma manifesta a tutto ciò quello che, volenti o nolenti, ci eravamo ritrovati ad immaginare. Il creativo che nel XXI secolo parrebbe essersi trasformato in un performer della serie dei suoi gesti ben collaudati, per la maniera in cui sempre più spesso viene mostrato il suo processo passo dopo passo, quasi come se lo spettatore occasionale volesse apprendere segreti della sua tecnica, o in qualche modo immedesimarsi nei gesti così mostrati. Un sentimento che pare raggiungere le sue conseguenze più emblematiche e finali in quel particolare gesto, ormai simbolico di un’ampia categoria di opere del fai-da-te, che consiste nel versare il fluido trasparente della resina epossidica, lasciando che ricopra e renda irraggiungibile il significato che ne viene incapsulato a sempiterna memoria. Un’ampia gamma di prodotti dell’industria petrolchimica, dichiaratamente rivolti alla fabbricazione di componenti per l’uso in ambienti marini, aerospaziali e di consumo. Ma che soprattutto negli ultimi anni ha saputo trasformarsi nella tipologia di strumento maggiormente funzionale al miglioramento dell’effetto finale in una particolare tipologia di sculture. Tanto efficientemente utilizzato, nella maniera che veniamo invitati ad apprezzare, nell’opera documentata di Thalasso hobbyer (たらそほびや) il giapponese diventato famoso su YouTube, e soprattutto all’estero, per la sua affascinante collezione d’insoliti e inquietanti diorami: piccole finestre virtuali su di un mondo sommerso popolato da mostruosi leviatani, polipi giganti ed altre misteriose presenze che derivano dalle creature situate negli abissi soltanto parzialmente esplorati del nostro azzurro pianeta. Con un intento dichiarato che può essere desunto dall’allusione del suo stesso nome, adattamento dei due termini in lingua greca θάλασσα (mare) e φόβος (paura) nel binomio riferito scientificamente al timore clinico nei confronti di vasti e profondi spazi acquatici. Tanto raramente diagnosticato in effettive circostanze quanto diffuso per lo meno a parole, tra la moltitudini perennemente in cerca di nuovi stilemi o percorsi critici a cui dar fondo nelle suddette elucubrazioni collettive…
Il principio collaborativo che condanna gli striscianti abitatori del pantano inquinato
Per lunghi mesi, anni e decadi di vita, la collettività indefessa si era concentrata nel profitto delle proprie attività comunitarie. Alte mura, lunghe strade, complicati impianti chimici e altrettanti ponderosi opifici. Ciò che in tale progressione costituiva il fondamento delle gesta umane, nella maniera più o meno riservata all’inavvicinabile settore inconscio del senso comune, era la ragionevole certezza che di contro la natura si stesse ritirando dagli spazi condivisi, nella maniera al tempo stesso malinconica e funzionale alla realizzazione dei nostri progetti operativi di partenza. Così lo sguardo perso verso l’orizzonte, parallelo al pelo permeabile dell’acquitrino sul perimetro della coscienza, non poteva penetrare oltre gli strati di una tale superficie, per vedere la marea vermiglia che tendeva a soggiacere, crescendo ed aumentando, replicandosi indefessa e indifferente alle diverse aspirazioni della vita comunitaria. Che non fossero, semplicemente: mangiare, accumulare risorse energetiche ed infine individuare un possibile sentiero, qualsiasi fosse il metodo effettivamente scelto, per produrre valide generazioni successive della propria schiatta antica e nobile tra gli Oligochaeta. Vermi clitellati ovvero con la significativa caratteristica di un vistoso rigonfiamento lungo il proprio corpo serpentino, ospitante l’apparato sia maschile che femminile utile a produrre il bozzolo delle risultanti uova preventivamente ed opportunamente sottoposte a fecondazione. Il che non basta a rendere le creature cosmopolite sotto l’obiettivo dell’odierna analisi, il cui nome per antonomasia è solamente tubifex indipendentemente dalla specie di appartenenza, in altro modo simili o riconducibili al rassicurante verme di terra o lombrico, di cui ogni cosa nota viene confermata nell’esperienza diretta che tendiamo a farne in occasione di un’infanzia trascorsa nei giardini o il successivo hobby altrettanto diffuso della coltivazione vegetale. Col che non voglio certo dire che i qui presenti abitatori degli strati meno attraenti sul confine tra città e natura, non a caso detti in modo alternativo “vermi degli scarichi” o “delle fognature” siano totalmente privi di un ruolo utile al proprio distintivo spazio ecologico di appartenenza. Cui tende ad associarsi, nondimeno, l’implicita tendenza a suscitare un senso di spiacevolezza o vero e proprio disgusto, variabile dal punto di vista dell’osservatore in base alla propria confidenza coi processi meno conosciuti della natura. Soprattutto nel punto di svolta della loro semplice esistenza quando, sentendosi minacciate o in altro modo a rischio, le gremite colonie di siffatta creatura si ritrovano impossibilitate a nascondersi scavando in un sostrato friabile di sabbia e/o ghiaia. Da cui sorge l’opportunità, iscritta a chiare lettere nell’istinto che guida ogni loro tipica reazione, ad aggrovigliarsi vicendevolmente in una massa indivisa. Ammasso rosso e tanto spesso definito su Internet come “Un’unica creatura in grado di preservare la propria sopravvivenza.” Il che purtroppo, a discapito del pensiero ottimistico della maggioranza e soprattutto per i diretti interessati, non potrebbe essere più lontano dalla verità dei fatti…