L’ascensore senza cavi che rivoluziona i grattacieli

Sven si avvicinò alla finestra alta dal pavimento al soffitto, per scrutare lo sperone roccioso del fiume Neckar, incuneata tra la Foresta Nera e il massiccio del Giura. Il cielo limpido permetteva di vedere, a quasi 100 Km di distanza, alcuni dei palazzi più imponenti della distante Stoccarda. “Sa, me la sarei aspettata un po’ più… Carica di ululati.” Fece un sogghigno. Dopo tutto, l’abbreviazione per riferirsi ad uno dei più perfetti cani da guardia mai concepiti è proprio Rottweil, e tale è anche il nome sulla cartina geografica di tutto quel verde che lui stava scorgendo, adesso, al di sotto del suo gran paio di Waldlaufer. Ma la vera domanda, prima di porla alla guida della comitiva turistica a cui era stato assegnato, la considerò da ogni lato, rigirandola come fosse un cubo di Rubik nel profondo della sua anima propensa ai rimorsi. In effetti, non avrebbe mai voluto fare una figuraccia…. “Ma perché, perché mai mi dica signora, una cittadina da poco più di 24.000 abitanti dovrebbe ospitare un grattacielo alto 244 metri, con in cima la torre d’osservazione più alta della Germania?” Assumendo un’espressione enigmatica, la guida distolse lo sguardo dal resto degli ospiti, per focalizzare la sua attenzione su Sven: “Signore, una domanda alla volta. Signore, può togliere le mani e il naso dal vetro? La ringrazio. Vede, ne stavamo per l’appunto parlando. Ora se vuole gentilmente riunirsi allo scaglione di sua preferenza, stavamo tutti risalendo sugli ascensori. La spiegazione continuerà presso la sala controllo del piano intermedio. “La Test Tower poi, che nome insensato… Questi berlinesi!” Dallo sguardo dei suoi vicini, l’ospite svizzero si rese conto che stava parlando ad alta voce. Con una scrollata di spalle, contemplò la porta che si apriva ritmicamente sulla tromba già impiegata per raggiungere la sommità del palazzo. Ogni 30 secondi o giù di lì, cinque persone entravano dentro il cubicolo. Quindi, alla successiva apertura, sembravano sparite?! “Forse non avrei dovuto bere quella terza birra, al bar del centro visitatori.” Pronunciò ancora, prima di fare il passo necessario a tornare dentro il dispositivo già noto. La cui finestra, in fase di salita, aveva offerto una vista piuttosto monotona sulla parete interna della Test Tower ma che adesso, puntava dritta sul paesaggio antistante, all’estrema circonferenza dell’austero quanto insensato palazzo. Con la coda dell’occhio, quindi, vide qualcosa di strano: gli altri quattro passeggeri che questa volta, eseguendo probabilmente il contenuto di una spiegazione che lui non aveva seguìto, si reggevano al corrimano della cabina.  “E perché mai, si attendono turbolenze?” Non ebbe neanche il tempo di farsi una risata, quando l’ascensore prese a muoversi in maniera lenta a graduale, ma non verso il basso. Esso stava in effetti puntando, inesorabilmente, dritto contro la vetrata antistante. Con un grido strozzato, Sven perse l’equilibrio. Già i tre volti di Cerbero, triplo Rottweiler incatenato al primo dei pali, digrignavano i denti e spalancavano le loro fauci squadrate…
Scende o sale? O va di lato? Questo potremmo trovarci a chiedere, in un giorno non troppo distante, salendo nell’ascensore di un grande palazzo o centro commerciale. Magari, a New York, Kuala Lumpur o Dubai. Perché ciò ispira lo stile urbanistico, nonché la reale utilità dovuta all’uso contemporaneo di migliaia di persone, del nuovo sistema MULTI della Thyssenkrupp, che potrebbe effettivamente rimuovere molte delle limitazioni architettoniche che hanno inevitabilmente gravato, da oltre 100 anni, sul proposito di costruire n qualsivoglia palazzo più alto della chioma di una sequoia. Il consenso della stampa internazionale in merito, probabilmente a seguito del solito articolo apripista del giornale inglese Daily Mail, ha preso a chiamarlo l’ascensore di Willy Wonka, vista la presenza di qualcosa di superficialmente simile nella più celebre fabbrica di cioccolato della storia del cinema. Benché personalmente, io trovi più calzante l’analogia dei sibilanti turbolift in uso sull’astronave Enterprise. Ma qualunque sia la similitudine che desideriamo impiegare, è inutile girare intorno al fatto che il nuovo progetto di una delle principali compagnie siderurgiche europee possa, in effetti, migliorare in modo significativo la vita di molte persone. Secondo uno studio del 2013 non meglio definito, ma citato espressamente sul sito della compagnia, usare un singolo ascensore per ciascuna tromba corrisponde in effetti al concetto di un solo vagone, che percorre ritmicamente un’intera linea ferroviaria tra due città. Negli uffici della Grande Mela, in media, i dipendenti trascorrono 16,6 anni di attesa dell’ascensore ogni 5,9 di utilizzo! Profilando lo scenario, effettivamente, di un ingorgo che inizia fuori dalla porta di casa, per raggiungere il luogo di lavoro, seguìto da un’altro, ancora più intenso, per raggiungere il piano desiderato. E sarà proprio qui che verrà combattuta la battaglia della futura ergonomia architettonica. Grazie a dei nuovi, inusitati alleati…
La singola cabina del MULTI, che vista dall’interno è del tutto indistinguibile da un comune ascensore, assomiglia in realtà concettualmente più ad un veicolo dotato di motore lineare magnetico, come il nuovo treno MagLev recentemente entrato in servizio a Shangai. Che muovendosi lungo la sua rotaia verticale, può raggiungere liberamente qualsiasi recesso recondito dell’edificio, mentre degli appositi punti di scambio, non troppo dissimili da quelli di un binario convenzionale, lo convertono dal moto verticale a quello orizzontale. Con un simile approccio, le possibilità diventano letteralmente infinite…

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La fortezza sul macigno nel cuore dello Sri Lanka

Possenti regni ed enormi imperi sono crollati per una vasta gamma di situazioni svantaggiose, come mutamenti sociali, invasioni barbariche, crisi del commercio e dell’economia. Nel corso di battaglie cruciali al culmine di un conflitto epocale, può essere bastato un imprevisto, come condizioni climatiche avverse o un errore dei generali, per modificare lunghi secoli o persino millenni di storia. Resta tuttavia profondamente impressionante, tornare col pensiero alla fulgida ascesa e l’altrettanto rapido crollo dell’era del re Kashyapa nel 495 d.C, per l’effetto disastroso del mero capriccio di un elefante. Ovvero il suo pachiderma da guerra, per essere più precisi. Del quale si narra, nel momento in cui egli scese in campo per sfidare il suo più acerrimo nemico, che deviò di lato all’improvviso, portandosi dietro il suo padrone e tentano almeno in apparenza di fuggire via. Il che bastò a gettare l’intero esercito nello sconforto. Ed a portare a molti dei suoi comandanti più fidati ad ordinare la ritirata, se non addirittura un repentino cambio di bandiera. Certo, è inutile specificarlo: se il nemico fosse stato uno straniero, o il portatore di uno spietato cambiamento dell’elite al potere, tutto questo non sarebbe mai successo. Ma il nemico di Kashyapa, in quel fatidico giorno, altri non era che il suo stesso fratellastro Moggallana, unico vero erede al trono dei Moriya, dal momento esatto in cui l’altro aveva assassinato crudelmente il loro padre, murandolo vivo in una stanza del palazzo reale ben 18 anni prima di quella data. Un gesto imperdonabile secondo qualsiasi cultura, che l’aveva probabilmente indotto, fin da allora, a trasferire la sua capitale dall’ancestrale seggio di Anuradhapura. In un luogo che veniva ritenuto, a torto a ragione, del tutto inespugnabile da chicchessia.
Il senso di colpa ed uno stato di paura costante possono indurre le persone a fare molte cose. E specialmente quando le risorse a disposizione sono virtualmente infinite, come nel caso del monarca di un predominio sul popolo concesso dagli Dei stessi, edificare delle vere e proprie meraviglie dei loro tempi. Come le piramidi in Egitto, ritenute l’unico strumento per mantenere l’importanza di un sovrano dopo la sua morte. O la ricerca, relativamente più immediata, di una vita lunga e serena, all’interno di un sontuoso palazzo completo di giardini (pensili) svariate concubine, opere d’arte, incalcolabili ricchezze ed una vista ininterrotta verso l’orizzonte, al fine di scrutare l’arrivo dell’ora temibile della vendetta. Fu così che Kashyapa, secondo alcune teorie portando a termine un progetto già stilato dal suo sfortunato padre e predecessore Dathusena, decise di far costruire il nuovo centro del suo regno in un luogo dotato di qualcosa che fosse letteralmente unico nell’intera terra di Tambapanni (antico nome dello Sri Lanka). Ciò che in termini moderni viene definito una monadnock, oppure un inselberg: l’enorme macigno, in questo caso alto più di 200 metri, che costituiva l’unico residuo tangibile di un precedente vulcano. Come la celebre Uluru (Ayer’s Rock) australiana, ma nel territorio di un popolo dotato delle risorse tecnologiche, e la propensione culturale, necessari a sfruttarne a pieno l’imponente presenza. E questa fu la nascita di Sigiriya, che sembrava dovesse garantire al suo proprietario una vita eterna. Finché l’elefante, che come sua natura non dimenticava mai nulla, non decise di porre fine ad un simile ingiustizia di fronte al popolo di questo mondo e il successivo.
Ma non prima che egli facesse, della sua preziosa gemma sopraelevata, uno dei luoghi più magnifici che il mondo avesse mai conosciuto fino ad allora. La fortezza di Sigiriya, il cui nome significa “Roccia del Leone” prendeva il nome da una colossale porta scolpita posta in fondo a 1200 ripidi scalini, raffigurante l’animale più feroce noto alle genti dello Sri Lanka. Da lì, quindi, si accedeva ad un camminamento sopraelevato lungo 140 metri, completamente ricoperto di affreschi raffiguranti più di 500 Apsaras, le leggendarie consorti degli dei del cielo. In un tratto successivo, dove un tempo continuavano i dipinti, l’alto parapetto lascia il posto ad una parete ricoperta di un marmo lucido, affinché il sovrano e i suoi sottoposti potessero osservare la loro immagine assieme a quella delle divinità. Ma soltanto ai più fidati tra gli uomini, o alle più desiderabili tra le donne, sarebbe stato permesso di penetrare ulteriormente nel sancta sanctorum del despota patricida…

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I quattro* di Liverpool sul Fronte del Porto

Un altro giorno, un’altra massa di turisti che s’inoltra lungo le spaziose strade che si affacciano sul fiume Mersey, dove un tempo si affollavano le navi partite dal più antico porto con darsena del mondo. Uomini e donne, virgulti ed anziani, abitanti d’Europa o delle terre più remote all’altro capo dei Continenti. D’un tratto, le guide turistiche si scambiano uno sguardo di circostanza: che va per primo, tu o io? Ci vuole organizzazione. La massima attenzione. Prima di far scontrare le svariate dozzine di persone tutte quante attorno alla massima attrattiva di questo luogo di questi ultimi tempi: il nuovo gruppo statuario in bronzo, dalle dimensioni di poco superiori alla realtà, con i quattro nativi locali più famosi in assoluto. John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr, perfettamente riconoscibili in tutto il loro splendore di grandi icone della cultura Pop. I cellulari si materializzano fra le mani, assieme a qualche rara macchina fotografica, mentre la gente inizia a prelevare un’immagine che serva da ricordo per “quella volta in cui hanno incontrato i Beatles.” Se soltanto qualcuno a quel punto, magari un singolo bambino, avesse la voglia di dare per un attimo le spalle all’acqua e alle figure immobili nel tempo, alzando lo sguardo verso il cielo… Scorgerebbe qualcosa. Le alti torri fra le nebbie, di quattro edifici in marmo e cemento, con quadranti di orologi e cupole maestose. Assieme a un refolo di vento, quello spirito d’intraprendenza ereditato da coloro che, all’inizio del secolo del ‘900, salirono lassù per assemblare fra gli altri, un parallelepipedo coperto di sculture che prende il nome suggestivo (e stranamente, plurale) di India Buildings. Molto appropriato, poco ma sicuro. Da dove pensate fosse provenuta dopo tutto, in quell’epoca e le molte precedenti, la fortuna finanziaria dell’attuale capoluogo della contea del Merseyside? Se non dal vasto Oriente… Così come la filosofia alla base di certe canzoni scritte da quegli altri quattro, il cui significato più profondo è stato in grado di appassionare ogni generazione sopraggiunta da quei vecchi tempi. Lo sguardo allora correrebbe, senza un attimo di sosta, fino ai due svettanti uccelli, anch’essi in bronzo, eternamente appollaiati in cima al Royal Liver, l’edificio completato nel 1911 come sede di un’associazione finalizzata a fornire assistenza ai familiari dei morti sul lavoro. E presto diventato, alquanto appropriatamente, il simbolo stesso della città. Grossi cormorani, secondo alcuni, il cui significato simbolico fu presto caricato di un bagaglio leggendario dai concittadini umani: affinché la femmina, che guarda verso il mare, aspettasse il suo consorte di ritorno dalla pesca o dalle rotte commerciali. Mentre il maschio, rivolto all’entroterra, controllasse se era giunta l’ora di apertura dei pub. Mentre un altro detto, altrettanto celebre, voleva che se mai un uomo onesto avesse conquistato l’amore di una donna vergine all’ombra di questo edificio, gli uccelli avrebbero spiccato il volo, e il fiume Mersey sarebbe straripato distruggendo la città.
Ah, che bello! Direbbe allora il piccolo bambino stretto fra i turisti intenti a fare foto “Questo edificio fa parte di un trio.” E in un certo senso è proprio vero, considerate le altrettanto affascinanti mura che proseguono alla sua destra, con la presenza del Cunard Bulding, un tempo sede dell’omonima compagnia di trasporti (1916) e il Port of Liverpool Building (1907) forse il più intrigante ufficio per la gestione di una darsena che si sia mai visto in tutta l’Inghilterra. A voler puntualizzare, sembra di trovarsi dinnanzi a un pezzo del Rinascimento e del Barocco italiano, prelevato con la macchina del tempo e in qualche modo trasportato fin qui. Ma anche il primo concetto pienamente realizzato in Europa di un centro cittadino dall’alto skyline frastagliato, come da qualche tempo stava iniziando a profilarsi, all’altro capo dell’Atlantico, New York.

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Gli stupendi palazzi sui laghi del Rajasthan

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Fluttuando lievemente tra l’onde, dietro il collo del cigno di legno, compare sull’acqua un maestoso edificio. Decine di finestre, quattro grandi padiglioni al centro delle mura ed altrettanti chhatri (gazebo decorativi) più piccoli agli angoli, con sullo sfondo un filare d’alberi piantati nel misterioso giardino. Sito nel punto in cui l’acqua ed il cielo s’incontrano, poggiato sul proprio riflesso, l’imponente Jal Mahal (palazzo dell’Acqua) conduce lo sguardo e il pensiero ad un tempo passato, quando la dinastia dei re di Amer mandava qui i propri giovani per svagarsi, a caccia d’anatre e d’altre conquiste. Ma guardando più attentamente la vasta struttura, come un turista dovrebbe pur fare, ad un certo punto ci si rende conto di qualcosa di molto strano: sotto le antiche mura, nei fatti, non c’è alcun appezzamento di terra. È come se queste mura galleggiassero, in effetti, sull’acqua stessa. O in altri e più probabili termini, proseguissero al di sotto della superficie, per poggiare più o meno saldamente sullo stesso fondale sabbioso del lago Man Sagar.
È universale il senso di desiderio che l’uomo prova, dinnanzi a una gemma di preziosa, di raccoglierla ed ornarsi del suo splendore. Così come un famoso archeologo raccoglie l’antica moneta, e la trasporta fino al museo che riporta il suo nome, colui che scava per raccogliere risorse non può fare a meno, ad opera compiuta, di edificare un qualcosa che dichiari ai posteri la propria esistenza. Una meraviglia dei secoli. L’edificio che è il frutto, sopra ogni cosa, dell’ambiente e delle circostanze presenti. Per questo Jaipur, città capoluogo dell’omonimo distretto nello stato indiano del Rajasthan, che fu fondata nel 1728 dal Maharaja Sawai Jai Singh II, è oggi nota in modo particolare col nome di “Città Rosa” per il colore predominante dei propri edifici, costruiti principalmente nella pietra d’arenaria e quarziti che da sempre affioravano, invitanti, sul suolo selvaggio di questa regione. Mere curiosità geologiche, forse, nell’occhio dei semplici mercanti che di qui passavano verso regni più ricchi e allettanti, ma le fondamenta stesse, in attesa di essere edificate, per l’intenzione di un ambizioso governante alla ricerca di terre presso cui imprimere la propria visione del mondo. Nei secoli successivi, dunque, la città fu attentamente pianificata e gradualmente ingrandita, secondo un progetto planimetrico molto preciso e moderno, mentre mano a mano si arricchiva di luoghi di riferimento degni di essere per lo meno citati: il Jantar Mantar, un osservatorio stellare all’aperto, costruito sul modello di analoghe strutture a Delhi; l’Hawa Mahal, palazzo dei venti, così definito per le mille merlettature e finestre da cui le donne di corte potevano osservare, non viste, la gente comune sbrigava le proprie faccende in strada; il Chandra Mahal, l’enorme reggia del capo del clan rajput dei Kachwaha, con sette piani letteralmente pieni di dipinti, sculture, specchi sui muri e decorazioni floreali. Eppure niente di tutto questo, per certi versi, avrebbe mai potuto eguagliare il fascino silenzioso dell’edificio abbandonato nel Man Sagar.
L’origine esatta del Jal Mahal, in effetti, resta tutt’ora un mistero irrisolto. Si ritiene che sia stato costruito agli albori della dinastia, per far fronte alla tradizione per cui la corte della vicina Amer doveva viaggiare in estate, recandosi presso diversi luoghi e residenze dal notevole splendore e gli scopi più diversi, benché spesso legati alla caccia. Qui sostano, infatti, numerose specie di uccelli migratori, probabile fonte di piume e di carni straordinariamente pregiate. Mentre ciò che sappiamo per certo, invece, è la ragione dell’esistenza del lago stesso, in realtà un serbatoio artificiale creato secondo dei piani tutt’altro che insoliti in quest’area geografica, le cui carenti piogge non furono mai sufficienti a far fronte al fabbisogno agricolo della popolazione. Fu dunque determinato a seguito di una grave carestia, avvenuta nel 1596, che una diga sul fiume Darbhawati fosse la perfetta soluzione al problema, in quanto ne avrebbe deviato le acque in prossimità di una depressione nel terreno già naturalmente non permeabile, garantendo una riserva a cui attingere per tutto il corso della stagione più secca. Il fatto che lì fosse presente il pregiato palazzo dei trascorsi Maharaja di Amer, alquanto comprensibilmente, non fu considerato un problema del tutto insormontabile…

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