Un salto elastico dalla scogliera greca

Zakynthos bungee

A Zante, ah, Zacinto. Fiore di Levante. Ha una bandiera molto antica, l’isola verso cui sorrise Venere secondo il canto dei poeti, sopra cui campeggia in verde la figura di un eroe: Zakynthos, figlio di quel re Dardanus della sempre temuta Troia. Ne parlò brevemente Omero, del modo in cui questo discendente del Peloponneso ritornò infine nella terra dei suoi avi, per fondare la comunità che ricevette tradizionalmente l’uso del suo nome. E il motto insigne in lettere maiuscole dell’alfabeto greco, scritto sotto quella sagoma riconoscibile che recita: ΘΕΛΕΙ ΑΡΕΤΗ ΚΑΙ TOΛMH Η ΕΛΕΥΘΕΡΙΑ – théli aretí ke tólmi i elefthería – La libertà richiede virtù e coraggio. Indubbiamente, certe affermazioni sembrano trascendere l’epoca da cui provengono, immutate. Se pure stravolte nella grafìa ed il metodo impiegato per citarle, mantengono il significato ed il contesto. Un simile suono già risuona pure nelle manifestazioni più sfrenate del contemporaneo, come l’attimo incredibile in cui gente senza caratteristiche ulteriori, sospinta innanzi solamente dal bisogno di provare, lascia indietro i preconcetti e i freni inibitori, per giungere fino al ciglio di un dirupo e fare un altro passo, giù nel vuoto senza un fondo. Ovvero, sufficiente. A liberarsi eternamente, per schiantarsi e far finire tutto quanto con coraggio, sulle sabbie di un’illacrimata e foscoliana sepoltura; tranne che talvolta tutto torna indietro, almeno in parte per poi scendere di nuovo?
Dev’essere stata una scena dalle implicazioni preoccupanti. Tra i diversi momenti mostrati nell’appassionante super-cut della sessione organizzata dal gruppo polacco dei Dream Walker sulla spiaggia del Navagio, uno dei luoghi più riconoscibili dell’isola di soli 410 Km quadrati, ce ne sono alcuni in cui gli spalti invisibili sono gremiti d’innumerevoli imprevisti spettatori. E sembra di sentirlo quel sussurro, ritrasmesso da un orecchio all’altro: “Bungee Jumping, Bungee Jumping…” Ma chi può veramente dire quanti, tra i bagnanti, siano stati messi al corrente di quello che stava effettivamente per succedere, della “pioggia d’uomini” di cui parlava Geri Halliwell, nel suo celebre singolo del 2001. E se qualcuno invero, rilassato tra le acque, o steso in disparte sopra i bianchi granuli dei molti sassolini, non abbia finito per assistere con occhi spalancati alle battute d’apertura di un suicidio: ecco una persona, con vistosa imbracatura (ma di certo il sole può giocare strani scherzi) che si lancia spensierato da 200 metri d’altitudine, oltre le ruvide rocce calcaree della cala e verso il relitto rugginoso della MV Panagiotis, la nave di contrabbandieri ormai derelitta che da il nome a un tale luogo (Ναυάγιο=naufragio). Perché virtù e coraggio, in questo caso, non sono due princìpi contrapposti, ma lo scorrere fluido dello stesso sentimento. Si potrebbe anzi, addirittura dire: la virtù è coraggio, come viceversa e chi non risica, rimpiangerà di non aver fatto quell’ultimo passetto verso il basso che lo guarda da lontano.
L’iniziativa mediatica Dream Walker, talvolta riassunta con la tagline piuttosto auto-esplicativa de “Il giro del mondo in 80 salti” nasce dalla collaborazione di un grande numero di professionisti degli sport estremi e alcuni facoltosi sponsor, tra cui la compagnia di produzione video Cam-L e il produttore cinese di ricetrasmittenti radio Hytera, i cui prodotti vengono tanto spesso ed “accidentalmente” mostrati prima o dopo l’ultima grandiosa impresa. L’obiettivo descritto nella descrizione di ciascun video è semplice ed estremamente immediato, al punto che viene da chiedersi come non sia mai stato messo in pratica, su scala simile, da qualcun altro prima d’ora: riunire finalmente le due strade divergenti del volo umano verticale da un punto di partenza fisso e pre-esistente, ovvero il Bungee ed il B.A.S.E. Jumping (Buildings, Antenna, Span, Earth) adatti, rispettivamente, a chiunque abbia l’intenzione e il desiderio, oppure solo a chi ha fatto molta pratica con il paracadute.
Chi ha detto che saltare giù con il famoso agglomerato di stringhe di latex incapsulate non possa prescindere da ambienti estremamente controllati, come torri o ponti fatti dagli umani? Ecco invero l’esempio, in questo teatro naturale a strapiombo sullo splendido Mediterraneo, che è lo scenario a creare l’occasione. Ma ci sono innumerevoli altre acque ed altri mari, a questo mondo…

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Senza cani, gioca coi bastoni che ritornano da soli

BoomerangsbyVic

In fondo batarang non è che un nome e l’uomo pipistrello, prima di decidere di fare il giustiziere, era un primato, mica un chirottero notturno. E come tutti, nei casi in cui il bisogno usava palesarsi (tra l’alba e il tramonto del mattino preistorico ideale) andava pure a lui a cacciare, fra le siepi, oltre i colli erbosi tipici del centro cittadino, conigli, canigli, semplici consigli: ovvero come fare, signora tecnologica sulla panchina, se da orfano miliardario con problemi nel controllo della rabbia contro i criminali, un giorno assiste ad uno scippo, ma fuori della portata del proprio pugno aculeato, nero e intabarrato di rabbioso accanimento? È una storia vecchia quanto il mondo. E come tutte quelle cose, così talmente insite nel profondo dello spirito pensante, benché superata tende inevitabilmente a ritornare.
Nello sport, nell’intrattenimento. Perché no: persino nella cultura (moderna) di simili cose concepite al fine di suggestionare il movimento, senza indurre inutilmente le popolazioni dei fruitori, utenti, figli e genitori, ad uscire fuori dall’ambiente casalingo. Simulazioni digitali di battaglie senza tempo, ludismi riproposti nella forma e nel colore: l’eroe che cavalca con lo strascico nel vento, lungo mantello fiammeggiante, in pugno può tenere molte cose differenti; spada, mazza-coltello, frusto-dardo temerario. Ma talvolta, e sono poi queste le migliori volte, dispone al fianco di un aiuto inanimato, l’assistente senza sangue ne cervello, che non è un falco, non è un cane oppure un lupo, né altra bestia naturale. Bensì quel meta-droide costruito in officina per assisterlo in battaglia: l’arma quasi-pensante. Come un funnel schierato dai piloti dei mezzi robotici venuti dal Giappone. Come una sfera luminosa, fluttuante a 26 centimetri dal magico bastone di un canuto strego-barbo tolkeniano. Come lui, l’astruso, inusitato wo-mur-rang, la “ELLE” rovesciata (o “VU” davvero molto arcuata) di cui si racconta per la prima volta, nelle variegate memorie degli uomini cosiddetti bianchi, in un resoconto scritto dagli agricoltori della colonia di Farm Cove (l’odierno Port Jackson) sita nell’allora nuovo, nuovo-errimo dei continenti. Australia, terra di canguri o almeno ciò si dice. Ma ecco, dovessimo pensare, incitati in fase d’interrogatorio all’aeroporto, ad un secondo simbolo di quel paese, subito rimanderemmo il nostro repertorio immaginifico, l’inconscio collettivo, a quel distante giorno del 1804. Quando a Dicembre in piena estate guarda caso e così è scritto, le tribù native degli aborigeni intavolarono una cortese diatriba tra di loro, in merito ai confini condivisi e relativi armenti. Culminante, come tanto spesso capita, in uno scontro nella valle designata, con abbondare di mazzate, calci e pugni, colpi ben vibrati. Finché non emerse dalla mischia un certo Bungary, tale abitante che ivi è descritto come estremamente”distinto ed educato” a stagliarsi contro il sole, sfoggiando un curioso dispositivo assai probabilmente fabbricato in legno o in osso di balena, descritto dai presenti come “simile a una scimitarra turca”.
Seguì una leggera flessione del polso ma rapida come un volo d’uccelli, poi l’arma che sparisce dalle mani e vola innanzi a una distanza approssimativa di 30 yarde (27 metri) colpendo un avversario al braccio, quindi rimbalza e continua la sua corsa, per oltre il doppio della strada già percorsa. Il botto emesso da una tale unione momentanea, di guerra e marziale avvenenza, sotto lo sguardo di diverse civiltà, in certo senso ancora riecheggia nello scibile del diversivo qui rappresentato.

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L’uomo che cavalca le correnti oceaniche in apnea

Nery Current

Stasi e movimento due princìpi contrapposti ma questo non significa che senza l’uno, l’altro cessi di essere davvero rilevante (come avverrebbe per la luce e l’ombra, a voler sentire il fiato dei filosofi o dei pensatori). Prima di tutto, perché il primo è un’astrazione: non esiste nulla di immobile a questo mondo, in quanto il mondo stesso, con noi che ci viviamo, è frutto di un incontro tra le forze plurime del vento, del magma che ribolle, della gravità. Ma pure per il fatto che una cosa che comincia a muoversi, raramente poi si ferma, se non per l’apporto di una forte volontà. E qualche volta neanche in quel particolare caso! Ci sono esperienze che ti mettono su strada, con un pieno di benzina e le tue mani saldamente sul volante. A quel punto puoi cambiare marcia, rallentare, fare finta di distrarti. Ma mai davvero, fermarti. Ne dominare il senso e una passione, come quella, assoluta e totalizzante, di Guillaume Néry per il Mare. Nata, a quanto racconta con sentita enfasi, verso i 14 anni di età, tuffandosi per gioco con l’amico giù nei flutti della Costa Azzurra, in quel di Nizza la Marittima e l’antica. Osserva. L’acqua scura, limpida e profonda, azzurra e gelida che toglie il fiato; tanto meglio, dunque, scendere con già l’ossigeno di cui hai bisogno. Dentro al corpo, come facevano i predecessori del remoto brodo primordiale.
Il merito aggiunto di questo straordinario atleta francese, che fu detentore nel 2011 del record di profondità d’immersione in apnea (-117 metri a Kalamata, in Grecia) è il saper cogliere il sublime senso di poesia. Quanti sportivi, persi in un mondo di numeri e di prestazioni, finiscono per trasformarsi in altrettante macchine del pragmatismo, tese al superamento delle aspettative come unica forma di soddisfazione…E quanti, dimenticata l’epoca dell’entusiasmo naturale, dedicano i propri giorni unicamente alla vittoria? Mentre non soltanto questo è quel costui, come si osserva dai suoi video più famosi, diffusi online come perfetta ambasceria della specialità. Di cui l’ultimo, già pubblicato da un paio di settimane, ce lo mostra mentre attende il suo momento, in mezzo al nulla. Siamo, stando alla descrizione in allegato, a Tiputa Rangiroa, nella Polinesia Francese, ma il bello è che al contempo siamo ovunque. Fra le nebbie di Avalon, oltre la nebulosa di Orione, sugli anelli di Saturno a galleggiare, come del resto suggerisce il titolo: OCEAN GRAVITY, che storia. Si, la logica. Che qualche volta trae in inganno: giacché pensando in termini abissali, come per l’appunto i pesci di quei luoghi, si potrebbe tendere a identificare il basso come direzione. Staremo pure sotto l’acqua a profusione, diremmo quindi eppure, metafore tralasciando, sarà questa pur sempre la stessa regione del sensibile, soggetta a forze comparabili di cosmica attrazione! Giusto. Una cosa è ritmo degli eventi, un’altra lo specifico contesto. Perché nulla è veramente mai, fermo. Tanto meno il mare e le sue imprescindibili correnti.
Ecco d’un tratto, dunque, che l’atleta prende vita nuovamente. Inizia a distendersi, si gira tutto attorno. L’unico punto di riferimento della scena, che guarda caso è il ruvido fondale, inizia allora a muoversi, senza l’ombra di una minima bracciata. Ciò che sembra per l’osservatore, ed in effetti solamente quello potrà fare (tanto è alieno tale luogo e tali le sue regole) è che una volta in piedi, la figura umana sia ad agire come la bolina di una vela. Infine sufficiente per raccogliere una spinta immane quanto dispersiva, quella delle masse d’acqua senza fine. Così inizia la caduta verso avanti, un’avventura senza fine. Mentre alcuni tra i commenti al video, ingenuamente o forse di proposito, pongono l’ovvia e inutile domanda: “Ma-come-faceva-a-respirare?!”

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Colpisce una freccia in volo e la divide in due

Lars Andersen

Quest’uomo è Lars Andersen. Lars Andersen può lanciare lanciare dieci strali prima che uno solo tocchi terra, come sapeva fare solo il capo Hiawatha, fondatore della confederazione degli Irochesi. Ma lui è Lars Andersen. Che quindi salta verso il ramo alto dentro il quale la penultima di quelle frecce si era conficcata, per raccoglierla e scagliarla anch’essa contro l’obiettivo. Tutto, nel compiersi di un solo fluido movimento. Robin Hood pensava di essere il migliore degli arcieri. Quell’allegro ladro si sbagliava e come lui lo svelto Guglielmo Tell. Perché non conoscevano, Lars Andersen. L’artista e studioso danese, che da qualche anno spara dardi a tutte le distanze, con vari metodi e nelle più diverse situazioni, verso l’obiettivo di veder segnato il proprio nome negli annali de…Lo sport? Il cinema? La guerra riportata nello stato primigénio? Difficile capirlo, per lo meno basandosi soltanto sull’ultimo trailer, narrato e montato come un segmento pseudo-catastrofista dell’History Channel, quel caravanserraglio digitalizzato in cui spesso l’archeologia sperimentale diventa l’approssimazione di un’orribile battaglia, con tanto di sangue finto e manichini tagliuzzati. Qui, fortunato sia il buon gusto, ci si limita a bersagli bidimensionali, pur se semoventi. Però! Non manca invece nulla del resto, neanche l’irrinunciabile voce robotica e spietata, qui fornita dall’amico Claus Raasted, doverosamente citato nei brevi, ma intensi titoli di coda con l’appellativo di SPEAK. E non poteva essere altrimenti. Questo susseguirsi di scene tende a far perdere il fiato e la concentrazione (addirittura, il supporto tecnico riceve la firma vagamente sconcertante di Incompe-tech). Pare quasi di assistere, grazie a validi artifici situazionali ma sopratutto per l’innegabile capacità di lui, ai primi timidi passi di un supereroe.
È innegabile che lo spunto di partenza sia piuttosto originale: vengono mostrati, nel giro di 10 secondi, alcuni geroglifici egizi non meglio definiti, un bassorilievo assiro di “almeno 5.000 anni fa” e la copertina di un famoso testo del tardo periodo medievale, ad opera dell’arciere-filosofo Nabih Amin Faris: Il libro sull’eccellenza dell’arco e delle frecce (a cui spesso ci si riferisce con il telegrafico titolo in inglese di Arab Archery) ciascuno conduttivo ad una particolare visione della tecnica di combattimento a distanza più antica, nonché culturalmente nobile, nella storia di ciascuna civiltà. Ovvero: quantità, prima che precisione. Il che parte da un presupposto molto valido, a pensarci. Sui campi di battaglia del contesto pre-moderno, perché a tali dichiaratamente lui s’ispira e non certo a Orione o Diana, ciò che contava maggiormente non sarebbe mai stato: la percentuale dei colpi portati a segno rispetto a quelli scagliati, oppure l’avvicinarsi con la punta acuminata ad un pallino rosso ed arbitrario; bensì fermare, il nemico. Ad ogni costo e con qualsiasi metodo a disposizione.
Nel concepire il combattimento all’arma bianca, il senso comune dispone di strumenti maggiormente validi alla comprensione: immaginiamo un moderno sportivo armato di fioretto, pur se agile e veloce, contro un vichingo in cotta di maglia che brandisce in una mano l’imponente brando della scuola runica di ULFBERHT, due spanne d’ampiezza ed una lama lunga a doppio taglio, nell’altra l’ampio scudo ligneo simbolo della categoria. Benché possano sorgere dubbi sull’effettivo vincitore del confronto, ciò anche in funzione dell’abilità dei contendenti, è indubbio che la vecchia maniera presenti alcuni vantaggi particolarmente significativi. Perché, dunque, non pensiamo in questi termini dell’arco? Chi ha detto, come vuole lo stereotipo, che i più leggendari praticanti dei secoli trascorsi fossero paragonabili, per precisione, ai campioni olimpionici di oggi, per di più senza l’uso di mirini, corde nanotecnologiche o vistosi contrappesi…Di doti, assai probabilmente, ne avevano parecchie; ma erano diverse!

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