L’arma simbolo della cavalleria d’acciaio

Si dice che la katana sia l’anima del samurai e questo è probabilmente il motivo per cui anche i mecha ne portano una. La chiave di lettura di questa affermazione deve partire dal presupposto che la spada giapponese sia prima di tutto un concetto immateriale, lo strumento che il guerriero utilizza per riconoscere la propria Via; non certo unicamente, o principalmente, una semplice arma.
Il più rappresentativo degli oggetti giapponesi è rimasto sostanzialmente invariato per una buona parte dell’ultimo millennio. Lama adatta a colpire di taglio da cavallo, perenne memento delle origini nomadiche del popolo di Yamato. Forgiata ad oltre 800 gradi secondo un procedimento segreto e leggendario, costituita da numerosi strati di acciaio più o meno carbonifero, incredibilmente durevole ed affilata. Veniva portata nel fodero con la lama rivolta verso l’alto, sempre pronta ad una rapida e letale estrazione. Non era un’arma che si prestasse a duelli di lunga durata: il Bushidō ha sempre codificato scontri rapidi e definitivi, non la sopravvivenza grazie ad espedienti protettivi come l’usbergo, l’elmo o lo scudo. Eppure, un samurai in equipaggiamento completo indossa armature impressionanti, spettacolari copricapi cornuti, alati, sormontati da castelli, draghi, mostri. Indossa maschere demoniache, porta armi sproporzionate e gigantesche… Si potrebbe quasi dire che nel momento in cui il kami (dio) della guerra si risvegliava al suono dei tamburi taikō la sua furia ed il suo spirito combattivo dessero forma materiale a schiere di creature terrificanti ed inumane, in grado di mettere in fuga un nemico impressionabile senza bisogno di combattere una sola battaglia.
Un mecha d’altra parte, secondo il significato ormai internazionale del termine, è un possente robot guerriero, generalmente giapponese. Può essere di origini mistiche o tecnologiche, disporre di risorse supereroistiche o militarmente credibili, talvolta è quasi indistruttibile e qualche altra in poco tempo finisce persino le munizioni, ma una cosa è certa: è un moderno samurai in armatura ed in ultima analisi ha sempre una sua katana, qualunque siano le caratteristiche e l’aspetto di quest’ultima.

Nel caso in cui il mecha questione sia della tipologia super robot, come ad esempio Mazinga, Goldrake o Jeeg, è certo che tra il suo arsenale trovi posto uno strumento o una tecnica travolgente, in grado di obliterare definitivamente il nemico; tale potere, definito in giapponese hissatsu waza o todomè (coup de grace) era estremamente funzionale alla trama ed alla struttura di un genere narrativo evolutosi dagli inconfondibili telefilm tokusatsu, come Ultraman o Kamen Rider, caratterizzati da effetti speciali retrò e coloratissimi mostri di gomma. L’esigenza, facilmente comprensibile, di includere in ciascun episodio un momento di trionfo coreografico e spettacolare portava ad una sequenza ben collaudata e ripetitiva di eventi: l’eroe, alla guida del suo mega-robot o persino egli stesso ingigantito a proporzioni godzilliane, combatteva coraggiosamente contro il mostro della settimana fino ad un momento di crisi: a quel punto, quando tutto sembrava perduto, improvvisamente faceva ricorso alla sua alabarda spaziale, al raggio solare della dea Amaterasu, al cannone a raggi gamma fino a poco prima “casualmente” dimenticato… poco importava per l’inevitabile ripetizione ad libidum di tale clichè, forse anche visto che il pubblico televisivo degli anime e tokusatsu anni ’70 era tendenzialmente più giovane e meno esigente rispetto a quello di oggi.
Verso la fine di tale decennio, tuttavia, le caratteristiche dei mecha cambiarono in modo del tutto repentino e basilare: uno degli allievi del leggendario Osamu Tezuka (Astro Boy, Metropolis, Dororo…) passato al neonato studio di animazione Sunrise, produsse quello che sarebbe stato considerato il suo capolavoro, nonché una delle creazioni più influenti del Giappone contemporaneo. Il suo nome era Yoshiyuki Tomino ed il suo lavoro Kidou Senshi Gandamu, comunemente occidentalizzato come Mobile Suit Gundam, capostipite del genere real robot.
In una sorta di versione spaziale della seconda guerra mondiale si muovevano protagonisti ed avversari che non erano più eroi del bene o imperdonabili mostri alieni, ma realistici individui dotati di raziocinio e finalità ultime pienamente condivisibili. I loro mecha non sembravano metallici super-eroi, ma strumenti antropomorfi soggetti alle effettive limitazioni e debolezze di un mezzo da guerra moderno.
In quel momento le katana, intese sia come concetto che nel senso più strettamente tradizionale, potevano sparire dal mondo dei mecha: in un combattimento spaziale basato sulle effettive leggi della fisica le uniche armi realmente efficaci dovrebbero essere quelle che sfruttano proiettili o altri attacchi a distanza. Ma Tomino aveva introdotto nel suo mondo immaginario un singolo elemento di origine non scientificamente giustificata, le particelle Minovsky. Tale derivazione immaginaria dell’Helium 3 scoperta, secondo il canone della serie, all’inizio dell’epoca spaziale Universal Century, non solo veniva utilizzata come straordinaria ed inesauribile fonte di energia, ma rendeva inutile con estrema facilità ed efficienza ogni tipo di sensore o radar a lunga distanza. Con questo espediente Tomino riuscì a preservare il retaggio samuraico nascosto nella sua visione d’artista, includendo tra gli armamenti di tutti i suoi robot da guerra numerose ed affascinanti armi per il combattimento ravvicinato. Questa tecnica narrativa, definita dalla cultura memetica di Internet comea applied phlebotinium,  prevede che una sostanza reale o immaginaria assuma le precise facoltà necessarie al funzionamento della trama – succede ad esempio di continuo nei crime drama americani C.S.I, nei quali lo spray al luminol guadagna facoltà magica di rendere chiaramente evidente qualsiasi tipo di indizio o traccia sulla scena del crimine.

Quello che conta, in ogni caso, è che il robot da combattimento pilotato dal quindicenne eroe terrestre Amuro Rei, che dava il nome alla serie, era dotato di spada laser, mentre l’iconica controparte verde militare schierata dai separatisti, l’utilitaristico MS-06 Zaku II, era dotato di un’ascia a mano termica. Questi mecha, detti Mobile Suit, a differenza dei loro predecessori non erano unici ed insostituibili, ma parte degli sforzi produttivi contrapposti di due realistiche fazioni in guerra. Lo schema narrativo dell’anime di Gundam, divenuto poi una sorta di marchio di fabbrica di molti tra i suoi successori, prevedeva che due equipaggi di navi spaziali si inseguissero attraverso lo spazio e le regioni terrestri, mentre dai loro numerosi scontri emergeva gradualmente e spontaneamente un rapporto di rivalità cavalleresca destinato a rimanere incompreso dai generali e dai capi di stato delle due parti, fino al sopraggiungere di una catastrofica battaglia finale.
Per quanto l’intento fosse quello di creare qualcosa di assolutamente nuovo, alcuni degli schemi precedenti permanevano. Il pilota del Gundam, contrario alla guerra ma non per questo pronto ad arrendersi, era proprio il figlio di colui che l’aveva progettato e si trovava a pilotarlo per caso. I suoi due gregari corrispondevano agli stereotipi universali della cultura manga:  Hayato fisicamente goffo, insicuro, non particolarmente abile ma sempre pronto a fare la cosa giusta, Kai pessimista e cinico ma anche furbo ed a modo suo altruista. Come in un classico tokusatsu del genere sentai o in un manga di Go Nagai, i tre erano assolutamente complementari in battaglia ed i loro robot antropomorfi ne richiamavano direttamente caratteristiche e fisicità.
Il rivale della storia invece, destinato a segnare un’epoca ed a ritornare in una quantità innumerevole di seguiti e rehash, aveva presupposti ed uno stile completamente differenti. Char Aznable era un giovane militare in carriera nel Principato di Zeon, che grazie alla straordinaria abilità di pilota aveva guadagnato il grado di ufficiale ed il nome di battaglia “Cometa Rossa” nonchè il diritto a pilotare uno Zaku conseguentemente ricolorato. Come altri misteriosi antagonisti della fantascienza egli porta spesso la maschera  e la sua vera identità è un segreto, ma a differenza di altri la ragione di questo è in effetti piuttosto interessante ed originale. Le estreme conseguenze di tale particolarità ed il suo diritto di nascita non arriveranno a realizzarsi nel corso degli appena 43 episodi del primo Kidou Senshi Gandamu (la prima serie venne abbreviata per il poco successo) ma le vicende della sua maturazione come figura di capo ed eroe per gli abitanti dello spazio costituiscono forse il più importante filo conduttore di molti dei seguiti e spin-off di Gundam.


E mentre nelle serie successive questi personaggi ed i loro discendenti diventavano sempre piú moderni e lontani dall’etica dei loro antenati feudali, i mecha continuavano ad affrontarsi brandendo spade, fruste elettrificate, shuriken e pugni d’acciaio. Il razionalismo del genere super robot non é mai riuscito, di per se, ad annullare i molti punti di contatto tra il samurai cybernetico d’acciaio e la sua contoparte storica, piuttosto rafforzandolo e talvolta portandolo ai massimi livelli.
É il caso di G-Gundam di Yasuhiro Imagawa, una delle tre serie parallele al piú canonico Universal Century nate negli anni ’90. L’idea folle era che, per allargare il pubblico e favorire l’interessamento di nuove fascie d’etá, Gundam avesse una serie di “universi alternativi” simili a quello principale solo per alcuni elementi di design e lo stile fortemente aggressivo del merchandising. Cosí, sull’onda del successo dei manga di arti marziali piú eclettici come Hokuto no Ken, Dragonball e Saint Seya (I Cavalieri dello Zodiaco) questa nuova iterazione di Gundam non era piú basata su un conflitto militare, configurandosi piuttosto come un torneo tra guerrieri con in palio il destino dell’umanitá. Qui, seguendo l’estetica della piú rappresentativa cinematografia di Hong Kong, i piloti sono spesso esperti praticanti di antiche tecniche cinesi, spadaccini, acrobati e lottatori. Per mettere a frutto queste loro abilitá, nella serie i mecha guerrieri non vengono piú pilotati con cloche, leve e pulsantiere, ma attraverso una tuta speciale che replica direttamente i movimenti di chi si trova in cabina. Ben piú che semplificazione tecnologica, tale espediente consente l’identificazione totale tra robot e pilota: come nel piú classico manga supereroistico i personaggi passano dalla normalitá all’apoteosi guerriera per gradi di transizione ben collaudati. C’é la sequenza sempre uguale in cui il protagonista “diventa” nei fatti Gundam, evocato in pochi attimi dal nulla, come se fosse lui stesso a trasformarsi. Ci sono modalitá robotiche di combattimento che comportano grida, pose coreografiche e formule di auto-esaltazione da parte del pilota. E c’é l’arma simbolo dei tokusatsu, il colpo finale, l’ideale culmine della via del guerriero che annienta il male e l’oscuritá. Le premesse della serie, inutile dirlo, sono piuttosto bizzarre: per porre fine fine a tutte le guerre, le nazioni del mondo e dello spazio hanno decretato che i loro rappresentanti si affrontino in un torneo universale di combattimento tra Gundam. Con intento prettamente commerciale, per antonomasia era stato attribuito all’intero cast il nome del robot piú famoso; del resto era comprovato e misurabile che tra i popolarissimi modellini e giocattoli dell’intera meta-serie quelli piú venduti si chiamassero, appunto, Gundam.


L’eroe della storia é Domon Kasshu, rappresentante del Giappone, un personaggio moralmente forte, privo di dubbi, arrogante e persino brutale, diametralmente all’opposto rispetto ai giovani soldati per necessitá delle serie precedenti, spinti al combattimento unicamente dalle circostanze. Inizialmente la trama appare piuttosto lineare, con Domon ed il suo Shining Gundam che, accompagnati dalla collega addetta alla manutenzione Rain, sconfiggono in una puntata dopo l’altra i guerrieri rappresentanti Italia, Francia, Cina, Inghilterra, Russia… I loro mecha sono un tripudio di stereotipi buffi e quasi naïf: ci sono Gundam boscaioli canadesi, Gundam mulini a vento olandesi, Gundam mummia, Gundam torero…  L’unico tema ricorrente é la ricerca da parte di Domon del fratello Kyoji, che lui ritiente unico responsabile della morte della madre e del furto del potente Devil Gundam, creazione nanotecnologica di fondamentale importanza per la salvezza della Terra dall’inevitabile entropia planetaria.
Tuttavia la trama é destinata a complicarsi diventando, alla fine, una delle piú originali e stratificate dell’intero franchise. L’antagonista piú interessante é Master Asia, precedente maestro di arti marziali e strategia di Domon ed “Imbattuto dell’Est” da lui sempre ammirato come guerriero straordinario. In questa figura di condottiero, ed in particolare nel modo in cui viene mostrato combattere a piedi contro schiere di robot alti una quindicina di metri, si concretizza la sovrapposizione completa tra pilota e mecha, con il secondo che da strumento militare ridiventa arma, o piuttosto armatura samurai. Alcuni hanno visto in questo un tentativo di rifarsi allo stile dei primi manga ed anime super robot, ma la portata puó dirsi differente. Questi Gundam vengono ancora danneggiati, persino irreparabilmente, ed hanno limitazioni tecniche e tecnologiche. Ancora una volta, per quanto meno di frequente, esauriscono le munizioni.

É come se il fatto di combattere dall’interno di un colosso metallico armato fino ai denti fosse una scelta unicamente di stile, priva di conseguenze sull’esito di ciascuna battaglia. Ogni volta che Domon enuncia tra grida di furia la formula “QUESTA MIA MANO RACCHIUDE UN POTERE INVINCIBILE, SHINING FINGEEEEER AAARGH!!!!” prima di colpire e far esplodere la testa degli avversari con un poderoso colpo di energia, la mano in realtà é quella di Gundam. E nella versione finale della stessa mossa, Domon esegue il gesto impugnando una sorta di spada laser, la piú riconoscibile katana dei nostri tempi.

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