Basta guardarsi attorno per capire come almeno una parte del futuro teorizzato per l’inizio del terzo millennio abbia finito per sfumare verso epoche decisamente remote: nessuna automobile percorre i nostri cieli, un’utopia economica non è riuscita a realizzarsi grazie all’opera instancabile di operosi androidi, Marte e gli altri pianeti del Sistema Solare ci sembrano ancora più lontani di quanto accadesse un mezzo secolo dalla data odierna. Il che ci avvicina, in misura maggiore di quanto sarebbe stato ottimisticamente prevedibile, all’ansiogena visione di una società asservita ai desideri delle grandi multinazionali, condizionata dalle divisioni sociali ed il degrado della società civile ipotizzato dal particolare genere della letteratura cyberpunk. All’interno del quale, un punto cardine è la visione della città opprimente, un mondo di cemento sovrappopolato e dominato dalle insegne al neon, dove un cielo distante (del colore, guarda caso, di un televisore sintonizzato su un canale morto) offre l’unica evasione concessa dalla perdita di ogni connessione alla presenza inconfutabile di un principio naturale retrostante. Ciò che nessuno dei creativi collegati a questo ambito sembrava aver previsto, tuttavia, è la presenza in mezzo a tutto ciò di un ideale Central Park, oltre un laghetto e qualche timido alberello decorativo, di un’amena magione dalle proporzioni approssimative di un centro commerciale, unite al costo stimato di 40 milioni di dollari e l’aspetto di un esempio prototipico prelevato dal dizionario enciclopedico dell’architettura vittoriana. Siamo a Guiyang (贵阳) dunque, una città da oltre cinque milioni d’abitanti. Di fronte ad un agglomerato di tetti spioventi e vistosi abbaini, colonnati che alludono a epoche classiche, finestre sovrapposte con la forma di un arco. E la vistosa cupola di vetro innanzi all’ingresso, che ricorda una stazione o luogo d’incontro dell’inizio del Novecento. Di una struttura rigorosamente chiusa al pubblico per diversi anni dopo il suo completamento, avvenuto contestualmente a tutto ciò che la circonda nell’anno 2019, alimentando strane leggende ed altrettante speculazioni immaginifiche da parte degli abitanti del gremito quartiere, fino all’attribuzione da parte della stampa del suo possesso al magnate delle costruzioni Xiao Chunhong, a capo del gruppo Honglicheng incaricato oltre 10 anni fa dallo stato cinese di porre in opera lo stesso imponente complesso urbano all’interno del quale, secondo alcune teorie, avrebbe poi deciso di stabilirsi nello stile del sindaco baffuto della Monopoli dei giochi di compagnia. Profondamente affascinato come pochi altri, piuttosto che interiormente destabilizzato, dal concetto di un singolo quartiere capace di superare abbondantemente la popolazione complessiva dell’Islanda, all’interno della sua pletora di torri alte in media 45-47 piani. Con fino a nove famiglie su ciascuno ed un totale di circa 500.000 anime guidate dalle proprie aspirazioni, desideri e un effettivo scopo autonomo dell’esistenza, pur condividendo buona parte del proprio indirizzo di residenza. Un modo di vivere certamente difficile da immaginare eppure, come possiamo iniziare a comprendere dai molti reportage in-situ reperibili su Internet, meno terribile di quanto potremmo essere stati educati a pensare…
Questo notevole distretto urbano noto tradizionalmente con il nome di Huaguoyuan (花果园 – Frutteto Fiorito) rappresenta in effetti il chiaro esempio riuscito, così raramente documentato su scala internazionale, di una di quelle rotture di paradigma abitativo tanto care all’ideale città cinese moderna. Imposto dall’alto al fine di riqualificare una baraccopoli borderline, nata verso la fine degli anni ’90 per la progressiva migrazione dalle campagne in direzione dell’antica capitale della prefettura di Guizhou, diventata nel frattempo celebre per la sua capacità industriale e le numerose realtà aziendali operative nel campo dell’informatica e la ricerca scientifica. Un luogo dove la vita sembra soltanto poter migliorare dunque, finché i mezzi da demolizione non hanno fatto il proprio ingresso sulla scena, dichiarando inadeguato tutto ciò che era stato costruito in problematica autonomia, per fare spazio al nuovo e l’imponente, impressionante monumento alla complessità strutturale. Torri svettanti come dicevamo, ma non soltanto quelle. In qualità di zona attentamente pianificata sulla base dei bisogni logistici dell’epoca contemporanea, la costruzione della “nuova” Huaguoyuan ha dunque coinvolto un’area di 4 milioni di metri quadrati, delimitata dai binari di sistemi di transito ad alta velocità, ferrovie pubbliche, 12 strade comunali di prima classe ed altrettante gallerie e ponti. La letterale “città nella città” vanta inoltre 2 nodi di autobus urbani, con 3 terminal convenzionali ed altrettanti stazioni BRT (Bus Rapid Transit) per la versione più capiente di questi veicoli. In previsione potenziale di una crescita ulteriore della popolazione complessiva, oltre al numero e la quantità di turisti interessati annualmente a fare l’esperienza di un così spropositato recesso urbano, oltre all’insolito edificio che sorge orgoglioso nel bel mezzo di tutto questo. La cosiddetta Báigōng (白宫 – Casa Bianca) così chiamata non tanto per la presunta somiglianza con la residenza del presidente americano (una cui effettiva riproduzione, molto più piccola, si trova invece a Pechino) quanto in riferimento alquanto prosaico al semplice colore delle sue mura. E l’antonomasia largamente immaginifica di un regno fantastico destinato, finalmente, ad aprire le sue porte al pubblico verso la fine dell’anno scorso, in occasione di una convention dedicata al mondo creativo ed ultra-popolare degli anime (cartoni animati) giapponesi. Svelando in effetti la sua configurazione interna largamente consona ad uno spazio per l’organizzazione di eventi, con ampi corridoi ed immense sale, a potenziale ed ulteriore sostegno per l’idea che potrebbe trovarsi in futuro adibita alla funzione di hotel. Per tutti coloro che, guidati dalla ricerca di divertimenti o al fine di assolvere a mansioni professionali, potrebbero trovarsi a soggiornare tra gli alberi svettanti del frutteto fiorito figlio d’impreviste proporzioni abitative ed idee.
Per permetterci d’individuare un fattore chiave, nell’evidente successo di un quartiere ragionevolmente pulito ed abitabile, con la sua ricca selezione di negozi e amenità che si presentano nei piani sequenza degli YouTuber residenti, un merito ingegnoso rispetto ad altri simili mega-progetti cinesi. Ovvero la relativa accessibilità economica della stragrande maggioranza degli appartamenti proposti, rintracciabile mediante una rapida ricerca su Google delle agenzie locali attorno ad un minimo di 3.000 yuan (meno di 500 euro) per l’affitto mensile ed appena 270.000 (36.000 euro) per l’acquisto del più accessibile monolocale. Permettendo, se non proprio ai precedenti abitanti di seconda generazione di continuare a vivere nello stesso luogo dei loro genitori immigrati dalle campagne, per lo meno ad una classe di media borghesia urbanizzata di emergere dal rigido sistema d’inquadramento e suddivisione sociale cinese. A patto d’accettare lo stile di vita di un agglomerato di cemento minaccioso ed imponente, con spazi verdi attentamente calibrati in base alla dose minima psicologicamente necessaria a non trasformarsi in spersonalizzati automi metropolitani delle futuribili circostanze.
O forse proprio questo, dovrebbe in ultima analisi l’accelerata meta ultima del mondo corrente? Un’epoca in cui trovare il proprio posto nell’accogliente alveare, recando ogni mattina i propri omaggi alla versione candida del più grande palazzo d’Oriente: il Potala. Il cui sovrano rigorosamente laico, vestito nell’abito sacro del mondo degli affari, non può fermarsi a rendere conto nei confronti di alcun Dio o Buddha, che provenga fuori dal proprio ambito produttivo e rigorosamente, imprescindibilmente professionale.