Tre metri di diametro: scoperto il fungo in grado di sostenere il peso di uno scienziato adulto

Testimone silenzioso di un secondo tipo di foresta, assai meno visibile ma non per questo priva dello stesso grado d’importanza ecologica per la sopravvivenza di un sistema complesso. Il regno dei polipori, funghi con il compito di decomporre il legno marcescente per poter restituire le sostanze nutritive alla terra, possiede un’ampia quantità di affioramenti possibili, nella guisa dei carpofori che spiccano visibili sui tronchi delle varie tipologie di arbusti. Senz’altro il più grande, notevole e imponente conosciuto fino ad oggi è lungamente stato il cosiddetto Sandozi peloso (Bridgeoporus nobilissimus) descritto dalla scienza per la prima volta nel 1949 dopo essere stato avvistato da occhi increduli nelle fredde foreste del Nord-Ovest statunitense. Fino a 140 cm di diametro, per 140 Kg di peso posseduti da un singolo corpo fruttifero, grossolano ed imponente come la scultura opera di un falegname intagliatore figlio del popolo segreto del sottobosco. Nulla di simile è stato perciò acquisito dal novero della tassonomia micologica, fino al recente 2017 quando sui pioppi Ussuri della Cina fu classificato inizialmente il B. sinensis, un possibile parente più piccolo del gigante, almeno finché non venne successivamente spostato nel genere degli Oxyporus, funghi maggiormente rappresentativi del Vecchio Mondo. Distinzione non da poco poiché indicativa di un diverso tipo di metabolizzazione della cellulosa, sostanzialmente incompatibile ed anche più efficace dei processi chimici sviluppati dal suo fratello maggiore.
Per un destino che parrebbe al momento differente da quello della terza possibile specie di quel genere, per il momento in attesa degli approfondimenti genetici di rito, individuata stavolta nello stato indiano dello Arunachal Pradesh, distretto del Kameng Occidentale. Scoperta dal ricercatore del Servizio Botanico di quel paese, Arvind Parihar durante un’escursione motivata dalle voci fatte circolare dai visitatori occasionali di quel territorio per lo più rurale. Dove i nativi, abituati al pragmatismo dalle circostanze, per lungo tempo avevano dato per scontato la presenza di questi funghi tanto massicci quanto inutili ed incommestibili dal punto di vista di noi comuni mortali…

La questione più notevole del nuovo Bridgeoporus kanadii, così denominato in onore del celebre micologo indiano Kanad Das, è dunque la sua capacità di superare abbondantemente nelle dimensioni persino l’enorme B. nobilissimus, raggiungendo l’impressionante ampiezza di tre metri strettamente abbarbicati ai tronchi di abeti locali tramite il reticolo invisibile delle sue ife, tanto solide da permettere ad un individuo adulto di sedersi agevolmente appoggiando il proprio intero peso sul bordo del cappello tanto imponente. Senza che quest’ultimo, di suo conto, finisca per subirne in alcun modo le conseguenze. Esperimento compiuto a più riprese, almeno a giudicare dalle fotografie pubblicate, dai membri della spedizione di Parihar essendo entrati in contatto diretto con ben 40 corpi fruttiferi autonomamente supportati, potenzialmente parte di un reticolo di micelio sotterraneo capace di estendersi non visto al pari di una linea ferroviaria metropolitana. Ritrovamento assolutamente degno di nota giacché i polipori di questo genere, anche nell’Oregon americano più strettamente associato alla loro presenza, risultano in genere degli avvistamenti rari per lo più connessi ad esplorazioni approfondite dei recessi delle zone caratterizzate da vegetazione molto intensa. Il che ci porta al quesito successivo che merita di essere ulteriormente approfondito: com’è possibile che due specie dalla distribuzione geografica tanto distante possano discendere, in maniera verificabile, da un singolo antenato comune? I sentieri percorribili a ritroso sono molteplici, sebbene tutti strettamente interconnessi ad un distante periodo nella storia della Terra. Quello risalente ad almeno 650 milioni di anni fa, quando le masse emerse planetarie erano suddivise nei due soli continenti di Laurasia e Gondwana, permettendo alle specie animali e vegetali di dividersi nei gruppi che avrebbero successivamente primeggiato nei rispettivi ambienti di appartenenza. Con pertinenza territoriale varabile sulla base delle rispettive capacità di espandere il proprio areale, così come fatto da taluni funghi di grandi dimensioni, notoriamente in grado di far trasportare le proprie spore dal vento anche per migliaia di chilometri nel corso di un singolo “balzo”. E va da se che un tale intervallo di tempo garantisca, a vantaggio del principio evolutivo di adattamento, tutte le prerogative opportune affinché categorie biologiche adiacenti raggiungano la propria forma ideale, ovvero quella in grado di garantire le maggiori possibilità di sopravvivenza. Dal che le molte caratteristiche comuni tra i due macrofunghi: la copertura di fibre di micelio pallido simile ad un manto peloso, la grande quantità di pori d’areazione nella parte inferiore o radice nonché la dura consistenza fibrosa, capace di garantire la ben nota resistenza dei carpofori abbarbicati ai rispettivi vegetali moribondi di appartenenza. Sempre verticali ed imprescindibilmente collegati ad un sistema di radici quanto meno moribonde, essendo i funghi di tali dimensioni incapaci di trarre le sostanze nutritive sufficienti ad affacciarsi da un tronco ormai caduto e posto orizzontalmente sul suolo della foresta.

Mediante un processo chiamato in lingua anglofona brown rot o carie del legno, che vede la disgregazione della sola cellulosa ed emicellulosa mediante l’utilizzo di perossido di idrogeno prodotto nel laboratorio biologico del fungo, laddove la white rot (disgregamento bianco) degli Oxyporus riuscirebbe invece a processare in aggiunta ad esse anche la lignina facente parte del proprio malcapitato albero di appoggio. Un destino in realtà meno terribile di quanto si potrebbe pensare, soprattutto da un punto di vista utilitaristico, data l’accelerazione della dipartita per piante ormai prossime alla senescenza, corroborando in tale modo il ritorno delle sostanze nutrienti tra cui azoto, carbonio, fosforo ed altri minerali al suolo fertile del sottobosco. Così da rendere ancor più importante la conservazione presente e futura di questo ingranaggio primario dei suoi distanti sistemi ecologici di provenienza.
Una mansione che taluni studiosi (Gordon & Van Norman, 2015) considerano forse meno complicata del previsto almeno per quanto concerne l’esponente americano del genere, data la preponderanza di tronchi di Abies colonizzati dal micelio anche in assenza di parti visibili evidenti. Lasciando intendere una crescita lenta del carpoforo in questione, come lungamente risaputo, che sia tuttavia del tutto all’opposto della propagazione sotterranea del micelio stesso, perfettamente in grado di preservare di suo conto gli effettivi presupposti della sua stessa sopravvivenza. La perfetta dimostrazione di quanto dobbiamo ancora comprendere la diramazione fungina del grande sistema degli esseri viventi, capace di preservare se stessa anche in assenza dei presupposti normalmente interconnessi al benessere di animali o piante. Facendone, potenzialmente, uno dei successi maggiormente misurabili tra i molti sentieri percorsi in parallelo dal grande ciclo dei mutamenti.

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