Agilità argentina: l’anima del capibara con le zampe di una gazzella

Chiunque abbia mai visto un grosso cane dalla folta pelliccia immergersi momentaneamente all’interno di un laghetto o corso d’acqua, ricorderà la sua trasformazione nel momento in cui è tornato a emergere, ritrovandosi a mostrare ai presenti l’effettiva forma del proprio corpo. Molto più snello del previsto, dimostrando la ragione delle capacità atletiche da lui possedute! Ed è senz’altro una fortuna che lo stesso non succeda con i frequentemente immersi mega-roditori tipici dell’area sudamericana. Perché un capibara smagrito tenderebbe a sembrare qualcosa di radicalmente differente. Qualcosa di dannatamente rapido e chiaramente affilato dal bisogno di dar seguito alla propria sopravvivenza…
Chimerico è l’aggettivo spesso utilizzato in senso figurativo per tentare di riferirsi a qualcosa di remoto ed improbabile, potenzialmente impossibile da contestualizzare. Laddove l’etimologia di questo termine, derivato dalla celebre creatura mitologica di epoca greca e romana, vorrebbe alludere convenzionalmente alla convergenza di tratti concettualmente disallineati all’interno di una singola creatura. Una caratteristica tipicamente attribuibile ai mostri. Ma che figura, in determinate circostanze, anche nel caso degli animali. Abitanti di remoti territori come le pianure della Tierra del Fuego, letterale ultimo confine del mondo, ove la continuativa lotta per la sopravvivenza non è in alcun modo più semplice, né meno feroce, di quella sperimentata ogni giorno nell’ecosistema dell’Africa Nera. Basta guardare, per comprenderlo, la conformazione fisica della specie scientificamente nota come Dolichotis patagonum o più semplicemente “marà”, i cui fenotipi evolutivi parlano di un livello di attenzione particolarmente elevato nei confronti dei dintorni, collaborazione sociale per la difesa del territorio e soprattutto la capacità, altamente caratterizzante, di trasformarsi in un razzo missile che sfreccia tra le erbe ed altre piante della pampa. Una necessità morfologica niente meno che fondamentale nel suo contesto. Poiché come sarebbe possibile spiegare, altrimenti, la sua appartenenza alla stessa famiglia del porcellino d’india ed il capibara, entrambi animali non propriamente noti per le proprie doti di prestanza fisica o velocità metabolica nel momento di darsi alla fuga. Questo perché il nostro amico dalle dimensioni pressoché mediane (69-75 cm per 8-16 Kg) rappresenta essenzialmente un chiaro esempio di convergenza evolutiva nei confronti della lepre europea, migliorata con una velocità massima raggiungibile di fino a 60 Km/h. Abbastanza per eludere dall’intero vasto novero dei suoi predatori, inclusivo di volpi, felini selvatici, grisoni ed uccelli da preda. Benché lo stesso approccio risulti inefficace nei confronti dei cacciatori umani, che nel corso delle ultime decadi ne hanno praticato un eccidio non propriamente sostenibile per l’alto valore della loro pelliccia. Al punto da giustificare l’inserimento nell’elenco delle specie a rischio da parte dello IUCN, nel culmine di una triste storia fin troppo comune negli ecosistemi di una buona metà del mondo. E dire che, prima del nostro palesarci tra le inconsapevoli creature dell’Olocene, le cose stavano andando così bene…

Con un ambiente preferito molto variabile, che va dalle pianure cespugliose alla foresta, senza dimenticare le aride distese del deserto di Monte in Argentina, il marà risulta essere dunque notevolmente adattabile, anche grazie a una dieta erbivora tutt’altro che choosy ed il possesso di una flora batterica capace di digerire facilmente la fibra e la cellulosa. Ciò detto, simili creature tendono a necessitare di un territorio piuttosto ampio a causa della loro tendenza a consumare preferibilmente la punta più tenere e le gemme di ciascuna pianta, piuttosto che l’intero gambo, oltre alla costituzione di vaste colonie composte da svariate decine di esemplari, che vengono comunemente definite insediamenti. Le quali si ritrovano per forza a condurre un’esistenza semi-nomade, alla ricerca pressoché costante di nuove fonti di cibo. Con una struttura sociale complessa che vede spesso le femmine collaborare nella tutela dei piccoli, mentre i maschi sorvegliano il perimetro delle tane scavate nel terreno, questi attivi ed ingegnosi roditori comunicano tra loro mediante segnali primariamente olfattivi, mentre resta ignoto quanto sia latore di un messaggio il repertorio non particolarmente ricco di versi e squittii dal tono sommesso, che tendono occasionalmente a produrre rivolgendosi l’uno all’altro. Così che il cunicolo di ciascuna famiglia, potenzialmente fino a un massimo di 35 coppie riproduttive intente a condividere una singola colonia, viene attentamente marchiato scavando piccole buche coincidenti, entro cui viene strofinato meticolosamente il posteriore. Mentre l’accoppiamento stesso prevede, in modo alquanto prosaico, l’impiego di generose quantità d’urina da parte di entrambi i sessi, con lui che la usa per segnare la compagna, mentre lei tende frequentemente a rispondere impiegando un getto mirato per far sapere quando non è ancora pronta. Utilizzo di segnali niente meno che fondamentale, data una caratteristica estremamente distintiva, nonché problematica di questa specie, che tende ad andare in calore soltanto per una mezz’ora ogni periodo di 3 o 4 mesi, in maniera letteralmente unica nell’intera classe dei mammiferi a noi noti. Ciò detto, e forse proprio in funzione di questo, il marà costituisce preferibilmente coppie monogame, dove il contributo del maschio all’allevamento dei piccoli risulta essere pressoché nullo. Per una prole consistente in genere di un massimo di 2-3 pargoli nonostante il possesso di 6-8 mammelle da parte della madre, che conseguentemente potrà ritrovarsi spesso a nutrire, volente o nolente, i figli di possibile una vicina di casa (a meno che gli riesca di accorgersene, in una casistica che porta spesso all’attacco e conseguente ferimento dei piccoli ladri di latte).

In una palese dimostrazione delle caratteristiche mutuate da specie distanti del Dolichotis, figura quindi la sua propensione allo stotting, un comportamento tipico degli ungulati della savana in base al quale un esemplare intento nel foraggiamento in territorio di predazione compirà, occasionalmente, dei vistosi balzi con tutte e quattro le zampe rigide sotto il corpo, una contromisura collegata dagli etologi al bisogno di scongiurare la predazione. Benché non sia ancora oggi stato raggiunto un consenso su quale possa essere, effettivamente, il vantaggio che ne deriva: forse quello di alzare momentaneamente il punto di vista, per perlustrare i dintorni. Oppure una sorta di “segnale onesto” rivolto a chi dovesse progettare d’inseguirlo, atto a dimostrare la propria preparazione fisica scoraggiando simili progetti nefasti. Ma forse l’ipotesi più affascinante è proprio quella che marà o gazzelle vogliano effettivamente indurre il carnivoro a partire lui per primo, per evitare successivi agguati e confidando nelle proprie intrinseche capacità eluderlo riuscendo ad implementare una strategia di fuga. Per come la natura è riuscita a crearli, ai remoti antipodi dei rispettivi territori. Entrambi perfetti, spericolati e possessori di un cervello in grado di comprendere istintivamente l’inerzia ed i vettori d’accelerazione. Molto più di quanto possa vantare il più scaltro e al tempo stesso ingenuo dei suoi nemici. L’uomo che tanto spesso agisce sulla base di un bisogno percepito, piuttosto che reale.

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