La gotica imponenza del castello che costituisce il simbolo dell’ospitalità canadese

“La più europea delle città del Nord America” è soltanto una delle definizioni utilizzate per elogiare l’eleganza architettonica e urbanistica di un luogo come Québec, effettivamente qualificabile come il più antico insediamento canadese, fondato nel 1608 dall’esploratore Samuel de Champlain. Fino alla fine del XIX secolo tuttavia sarebbe stato possibile affermare, aggirandosi per il suo centro storico ispirato parzialmente a taluni rioni di Parigi, che qualcosa di assolutamente primario mancasse per riuscire a completare l’illusione; quale centro abitato capace di far risalire la propria discendenza fin quasi all’inizio delle Grandi Esplorazioni, di suo conto, avrebbe mai potuto presentarsi privo di una piazza d’armi fortificata? Il tipo di edificio, abnorme ed elevato, i cui conci rigorosi riecheggiassero del suono mai sopito dei cannoni, gli armigeri sopra le merlature ed il cozzare delle armi bianche sopra scudi desueti. Forse non più altrettanto utili contro le armi da fuoco; ma cionondimeno funzionali a mantenere al centro dello sguardo il fiero stemma cittadino. E tutto ciò che questo, attraverso le generazioni, avrebbe potuto continuare a simboleggiare. Mancavano dunque soltanto sette anni all’inizio del Novecento quando l’architetto statunitense Bruce Price, normalmente incline ad ispirarsi ai Modernisti come Frank Lloyd Wright ed esponente dello stile Shingle dallo spiccato anti-tradizionalismo murario, appose la parola fine alla più grande deviazione dai suoi princìpi creativi; nonché quello che viene convenzionalmente definito il suo capolavoro. Frutto in egual parte della visione ed il progetto economico di una figura come l’industriale William Cornelius Van Horne, secondo direttore della Ferrovia Canadese del Pacifico e tutto ciò che gli ruotò attorno. Ivi incluso quello che potremmo definire, senza ombra di dubbio, uno degli edifici più impressionanti dell’intero secolo ormai prossimo alla conclusione. Lo Château Frontenac non può d’altronde essere definito un semplice albergo, più di quanto il Colosseo fosse soltanto un’arena per il leoni, e la Torre Eiffel la mera installazione per un evento effimero destinato a compiersi entro il decennio a venire. In primo luogo, in funzione delle sue dimensioni superiori ad entrambi: 18 piani per 80 metri d’altezza, ulteriormente accresciuti dai 54 del promontorio sopra cui sorge, nella migliore tradizione della fortezza di Salisburgo o altre roccaforti del Vecchio Mondo. E 610 stanze nelle sue multiple ali interconnesse, per non parlare dell’alta torre del mastio centrale, ornata dallo stesso tetto ripido con abbaini che caratterizza il resto del colossale edificio. Di per se stesso un’espressione del lusso inteso come l’unico soggiorno degno di un certo tipo di viaggiatori, ma anche un tipo di grandiosità che parrebbe tutt’ora trascendere l’epoca in cui venne inizialmente concepita. Parlando direttamente al cuore più profondo di coloro che hanno avuto sino ad ora la fortuna di sperimentarne gli inconfondibili ambienti..

Presenza inconfondibile dello skyline cittadino, da molte angolazioni il primo degli edifici Québécois a sorgere dall’orizzonte mentre si percorrono le strade che convergono entro il tessuto urbano, l’ipertrofico chateau dimostra a pieno la portata della celebre citazione di Van Horne: “Se non possiamo esportare il paesaggio, importeremo i turisti” giungendo a costituire il primo esempio veramente significativo, in ordine cronologico, dell’epoca dei Grandi Hotel Ferroviari, alcuni degli edifici più imponenti che sarebbero stati eretti nei primi secoli del vasto impero britannico d’Oltreoceano. Un monumento. Un simbolo. E il punto focale di una nuova strategia turistica e comunicativa. Costruito dunque non più mediante un’applicazione interpretativa del tipico stile Italianeggiante impiegato per gli edifici formali in buona parte del Nordamerica, il castello vedeva dunque un ampio spazio riservato alla corrente meno popolare del cosiddetto Châteauesque o “Francesco I” un approccio alle soluzioni architettoniche inteso a deviare il più possibile verso l’aspetto complessivo di un castello della Loira, con tutto ciò che questo comporta. Così fondamentalmente goticheggiante, benché caratterizzato da un’asimmetria del profilo derivante probabilmente dalle inclinazioni dell’architetto Price, esso venne inoltre caratterizzato dalla pletora di torrette e piattaforme d’osservazione, intervallate da una quantità letteralmente spropositata di finestre (nessuna cannonata nemica, d’altra parte, avrebbe mai dovuto essere assorbita dalle sue mura). Continuando il tema di un palazzo la cui apparente forza inespugnabile nascondeva in realtà un invito espresso nei confronti dei viaggiatori, ben due strade pubbliche attraversano altrettante generose aperture nelle svettanti mura, mentre l’ingresso degli ospiti avviene preferibilmente da svariati porte-cochère con tettoie a cupola finemente ornate. Verso un atrio ove campeggiano, molto appropriatamente, svariati ritratti del governatore generale Louis de Buade de Frontenac (1672–1682) amministratore diretto per conto del Re Sole della colonia definita all’epoca con il nome di Nuova Francia, prima che l’intero Canada venisse ceduto agli Inglesi col trattato di Parigi del 1763, al concludersi della guerra dei sette anni. Chiunque dovesse tuttavia pensare che un luogo come lo Chateau Frontenac non abbia mai avuto un ruolo bellico di primo piano, potrebbe rimanere stupito nel conoscerne la funzione svolta niente meno che primaria prima del concludersi del più vasto conflitto nella storia dell’uomo: quando per la prima volta nel 1943, ed in modo ancor più rilevante due anni dopo, i leader del mondo democratico s’incontrarono nelle fondamentali conferenze del Quebec, mirate alla risoluzione del problema che vigeva ormai da troppo tempo in Europa. E come dimenticare, dunque, il modo in cui tra queste vaste sale discussero animatamente Churchill, Roosevelt, il primo ministro del Canada William L.M. King ed i capi di stato maggiore degli alleati, per meglio definire quello che sarebbe diventato il piano dell’operazione Overlord, iniziata con il sanguinoso sbarco in terra di Normandia. In un certo senso il ritorno della preponderante marea della Storia, poco prima che la situazione diventasse impossibile da recuperare.

In seguito più volte ristrutturato ed ampliato attraverso i suoi cambi d’amministrazione, l’hotel Frontenac sarebbe quindi diventato una meta irrinunciabile per chiunque volesse eleggere la città di Quebec come meta di un viaggio attentamente progettato. Non propriamente a buon mercato, ma neppure costoso quanto si potrebbe tendere a pensare, l’hotel vede i propri ambienti di maggior pregio nelle suite denominate sulla base dei diversi capi di stato che idealmente avrebbero potuto soggiornarvi negli anni trascorsi, inclusi Charles de Gaulle ed Elisabetta II, nella sua veste di regina del Canada. Celebrato più volte dal gotha di Hollywood, il vecchio castello compare inoltre come set di alcuni film celebri, primo tra tutti “Io Confesso” di Alfred Hitchcock, girato nel 1953. Gestito dalla Canadian Pacific Hotels fino al 2001, lo chateau venne quindi venduto alla Fairmont per 185 milioni di dollari, che lo mantenne operativo nel suo portafoglio soltanto per i 10 anni a venire. Prima che passasse nuovamente di mano alla Ivanhoé Cambridge, operatrice del maggior progetto di restauro effettuato entro quelle mura, con estensivi restauri e significativi cambiamenti nella disposizione e funzionalità interne, oltre alla ricostruzione di oltre tre quinti delle stanze per gli ospiti, ormai conformi a standard eccessivamente desueti. Per una spesa totale di ulteriori 66 milioni di dollari, un investimento non propriamente semplice da recuperare. Ma è davvero possibile assegnare un valore, per quanto elevato, ad un edificio patrimonio dell’UNESCO che comparve in precedenza sui passaporti di un intero paese? Ambiente tra l’altro vivido e tutt’ora utilizzato quotidianamente per lo scopo che ne aveva visto l’originale edificazione. Molto più di quanto sia possibile affermare allo stato dei fatti attuali per il caro vecchio Colosseo di Roma. “Ahimé, ROAR!” ruggirebbe qualcuno.

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