Ristrutturare casa è sempre un processo estenuante, sia dal punto di vista del committente che di colui o coloro che si trovano vicini al completamento dei lavori. Mentre i costi aumentano e con essi le difficoltà connesse al trasporto di materiali e detriti, tuttavia, sussiste almeno la certezza che il più è ormai fatto non lasciando più la probabilità di alcun tipo di (sgradevole) sorpresa. Ed è proprio in quel particolare momento di sollievo, attorno al 1963 in Cappadocia, che un operaio diede un colpo con la sua mazzetta da demolizione leggermente più forte del necessario dove il vecchio muro di un sotterraneo cittadino di Derinkuyu, nella provincia turca di Nevşehir, che innanzi ai suoi occhi ebbe modo di dipanarsi qualcosa di terribile e inaudito. Come un suono sordo, a vuoto, seguito dal formarsi di una lunga crepa. E dopo due secondi che sembrarono estendersi per un periodo di tempo molto più lungo, l’effettivo sgretolamento della parete, corrispondente ad uno spazio sufficientemente lungo da passarvi attraverso camminando lateralmente. Verso un lungo e tortuoso passaggio in direzione obliqua, che andava a perdersi nella profonda e irraggiungibile oscurità. Ora un ritrovamento di questo tipo, nella maggior parte delle circostanze geografiche, avrebbe suscitato immediato stupore e meraviglia. Ed invero nei contesti digitalizzati di Internet, la maggior parte degli articoli parrebbe intenzionata a presentarlo in quel modo: “il MISTERO del sotterraneo” oppure “lo SCONOSCIUTO pertugio capace di ospitare moltitudini” laddove in Cappadocia a dire il vero, l’esistenza di estensive città ipogee veniva menzionato sin dall’epoca del filosofo greco Seonofonte nella sua Anabasi (IV sec. a.C.) in connessione a un popolo che nasceva, prosperava e moriva senza quasi mai sperimentare direttamente la luce del Sole. Ciò che potrebbe anche sembrare un’esagerazione, del tipo tanto spesso attestato nelle opere storiografiche del mondo antico, se non fosse per le prove inconfutabili lasciate ai posteri fin dall’epoca ancor più remota degli Ittiti del regno di Nesha (1750 – 1650 a.C.) che una volta giunti in questa regione fecero delle sue caratteristiche geologiche, ed in modo particolare della morbida ma resistente pietra vulcanica nota con il nome di tufo, il fondamento stesso della propria architettura abitativa. Costruendo meraviglie della tecnica del mondo antico come, nell’idea di alcuni degli studiosi più ottimisti, la stessa catacomba sotterranea di Derinkuyu, la più vasta e ancora largamente inesplorata dell’intero catalogo, ad oggi ritenuta capace di ospitare agevolmente un minimo di 20.000 persone nei suoi oltre 18 livelli di estensione, fino alla profondità impressionante di 85 metri. Benché sia ragionevole pensare, come in molti hanno fatto, che le parti più antiche e meno profonde di questo complesso risalgano comunque non prima all’epoca dei Frigi dell’Anatolia, oltre cinque secoli dopo, che li realizzarono possibilmente dopo la conquista da parte dell’impero Persiano di Ciro il Grande, come rifugio per praticare indisturbati le proprie attività civili, ritualistiche e religiose. Trasportandovi all’interno non soltanto lo stretto necessario per sopravvivere, ma anche animali, merci e attrezzatura per l’artigianato, riuscendo a fare dei propri nascondigli un letterale centro urbano parallelo, accessibile da molte centinaia di botole purché ci fosse il beneplacito di coloro che si trovavano all’interno. Poiché sarebbero bastati pochi attimi, un po’ di coordinazione e molto olio di gomito, per far rotolare in posizione le pesanti e invalicabili porte di pietra, capaci di chiudere completamente ogni via d’accesso esistente…
Che Derinkuyu fosse stata totalmente dimenticata, trasformandosi in un’entità semi-leggendaria per coloro che ci abitavano al di sopra, è almeno in parte opinabile, anche visto il significato del nome della città stessa, Pozzo Profondo, e la maniera in cui i suoi abitanti continuarono per innumerevoli generazioni a tirar su l’acqua perfettamente potabile dai punti di accesso verticali facenti parte dell’antico complesso, capace quindi di rappresentare un significativo valore aggiunto, piuttosto che una mera caratteristica collaterale del sottosuolo. Resta comunque acclarato come, per la particolare storia pregressa della Cappadocia, molte furono le etnie portate a susseguirsi all’interno degli oscuri tunnel, di volta in volta sostituite assieme alla memoria ereditaria di quanto, effettivamente, potessero riuscire ad essere profondi. A partire da quando, tra l’ottavo e dodicesimo secolo d.C, le catacombe diventarono appannaggio in epoca bizantina degli Arabi musulmani, che vi si rifugiarono all’interno per motivi non dissimili da quelli degli originali costruttori frigi, ingrandendo in modo significativo la portata del complesso nascosto e migliorando le sue difese con trappole di varia natura. In buona parte successivamente trovate, disinnescate e in seguito rimesse in posizione dai nuovi inquilini cristiani successivamente al XIV sec, che iniziarono ad abitare qui sotto durante l’egemonia dei conquistatori sotto la guida del mongolo Tamerlano. Un ruolo largamente conservato anche per buona parte del Rinascimento, quando il volto dell’oppressore culturale finì per appartenere a taluni organi amministrativi dell’Impero Ottomano, mentre le caverne antropogeniche sotto Derinkuyu continuavano ad arricchirsi di graffiti d’argomento cristiano, spazi scolastici e vere e proprie chiese a pianta latina, le cui navate venivano letteralmente scavate nella pietra viva dell’antichissimo sostrato di tufo. Un processo d’ampliamento e ridefinizione degli spazi potenzialmente continuato fino all’inizio del secolo scorso, quando durante il periodo di conflitti e deportazioni etniche noto come guerra Greco-Turca (1912-1922) i profughi di entrambe le parte tornarono di nuovo ad abitare i sepolti rifugi dei loro antenati, ribattezzati nel presente caso con il nome in lingua greca di Mαλακοπια (Malakopia) o [città] “Morbida”.
Così che osservando tutto ciò che è stato costruito, attraverso l’incommensurabile trascorrere delle generazioni, è difficile non mettere a confronto il risultato tangibile di una così lunga e stratificata opera civile con qualsiasi altro traguardo mai raggiunto dal vasto ingegno della specie umana. Di un complesso scavato da persone semplici all’interno di un contesto straordinario, inclusivo di un clima di superficie inospitale, continue pressioni di natura bellica e la rara, irriproducibile presenza della pietra architettonicamente più funzionale che questo pianeta abbia mai avuto ragione di creare. Benché gli interrogativi sull’effettivo meccanismo logistico di un sito come Derinkuyu siano senz’altro significativi, inducendo il moderno adepto dell’ingegneria civile a chiedersi come, esattamente, fosse possibile smaltire la gigantesca quantità di rifiuti e scorie di varia natura prodotta da una smile quantità di persone, senza il vento, la pioggia e gli altri elementi a facilitarne almeno in parte le trasformazioni necessarie a far ritorno nel grande ciclo della natura. Lo stesso bene più prezioso di cui disponevano i coloni d’altra parte, i loro animali, sarebbe stato particolarmente difficile da far scendere al di sotto dei primi due o tre livelli, lasciandoli facilmente catturabili da parte del nemico, mentre la scoperta ed avvelenamento dei pozzi estesi fino alla superficie avrebbe costituito una mera questione di tempo. Tutto questo mentre gli abitanti, asserragliati nelle più remote profondità chiudibili ermeticamente, oltre corridoi strettissimi e per questo assai facili da difendere, avrebbero potuto resistere ad oltranza contro forze numericamente assai superiori. Ma a che prezzo, e perché?
Così circondati dall’opera dei nostri contemporanei, tanto spesso ci dimentichiamo come i monumenti più antichi della superficie costituiscano null’altro che un parziale richiamo a quanto il tempo, e la convenienza, ci hanno indotto a calpestare come se non fossero mai esistiti. Il che diventa certamente più difficile da fare, quando l’estensione di tali recessi riesce ad essere pari, o addirittura superare in grandezza molto di quello che è potuto venire soltanto dopo. Ma che l’uso di macchinari pesanti avrebbe potuto ampliare i confini più reconditi della città “segreta” di Derinkuyu resta largamente opinabile. Di certo, avrebbe ridotto considerevolmente la portata dello sforzo fisico necessario a definirne la caratteristica primaria: una sorta di latente ergonomia, nata dal bisogno e il desiderio di trovare ciò che qui mancava in natura. Il vasto spazio abitativo, lontano dall’arsura delle estati e il gelo degli inverni della Turchia continentale. Oltre agli sguardi indiscreti (e non solo) di coloro che credevano di conoscere gli interessi del popolo ancor più del popolo stesso, comprensibilmente incline ad occultarsi nelle oscure profondità di un così inospitale universo.