Liuti nel Pacifico: la travagliata condizione delle tartarughe più imponenti al mondo

Cosa sia un mostro rappresenta una questione largamente soggettiva, intesa come l’interpretazione dei singoli fattori descrittivi, per l’accesso a un’impressione d’insieme che possa riuscire ad esser valida nel caso di un determinato essere, sia questo una persona, un uccello, un rettile o altro animale. Dal punto di vista di una semplice medusa semi-trasparente dell’Oceano, la cui vita è consistente unicamente nel lasciarsi trasportare dalle più notevoli correnti della Terra, nulla può apparire maggiormente terrificante che l’esistenza di un tubo aspiratore, la cui apertura principale risulta essere del tutto priva di denti, avendo sostituito questi ultimi con lo strumento evolutivo di una moltitudine di aculei rivolti verso l’interno, affinché qualsiasi cosa si ritrovi all’improvviso circondata da una simile possente camera d’intrappolamento, sia del tutto condannata a fare visita all’interno dello stomaco situato all’altro capo di quel canale. E non c’è pietà ne alcun senso d’inerente morigeratezza, nel modus con cui opera la grande tartaruga liuto o leatherback (let. “dalla schiena di cuoio”) che gli scienziati chiamano Dermochelys coriacea, almeno sin da quando nel 1816, il zoologo francese Henri Blainville coniò tale termine per definire l’essere, catturato per la prima volta nel Mediterraneo quasi 50 anni prima e donato all’Università di Padova da Papa Clemente XIII. Questo imponente dinosauro dell’era Moderna, caratterizzato da una forma idrodinamica riconducibile all’eponimo strumento musicale, la cui precisa ecologia sarebbe rimasta ancora largamente incomprensibile fino all’esecuzione di studi più complessi ed estensivi, capace di raggiungere un peso di fino a 700 Kg per la lunghezza di “solo” 1,75 metri, aveva infatti l’inaspettata abitudine di fare la sua comparsa nelle coste più lontane tra di loro al mondo.
Finché all’incirca 40 anni a questa parte, fu finalmente fatta chiarezza sulla quantità di appartenenti alla sua specie che venivano osservati, e qualche volta catturati, lungo buona parte delle coste orientali nordamericane, sebbene in tali ambienti non fosse mai ancora stato possibile registrare l’esistenza di una popolazione stabile, né il suo chiaro effetto sull’ecosistema dell’alta colonna marina. Questo perché le suddette tartarughe, con i le loro due pinne frontali simili ad ali spalancate verso l’infinito, erano capaci di percorrere una quantità di miglia inferiori soltanto a quelle dell’enorme squalo balena, dai territori pescosi dell’Asia, l’Indonesia e le isole del Pacifico Meridionale fino alle acque comparativamente gelide dei Caraibi. Al solo fine di riuscire a procreare, seppellendo le proprie uova in un preciso luogo di spiagge così distanti, alla stessa maniera in cui avevano fatto i propri genitori, e gli antenati di quest’ultimi da un periodo approssimativo di 110 milioni di anni. Un vero e proprio fossile vivente, dunque, inteso come forma di vita capace di resistere a innumerevoli trasformazioni climatiche, mutazioni delle condizioni in essere e la nascita di varie specie concorrenti. Ora tale particolare storia riproduttiva, appartenente alla prima e un tempo maggiormente numerosa popolazione delle tartarughe in questione (con altre due situate rispettivamente nel Pacifico Occidentale e nell’Atlantico) è stata sottoposta a un rinnovato conteggio verso la fine del 2020, mediante l’impiego di un’estensiva campagna di cattura e rilascio previa installazione di appositi segnali a distanza, oltre all’impiego rinnovato di quelli ancora funzionanti da precedenti iniziative, fino alla pubblicazione dello studio di Scott R. Benson e colleghi dell’Istituto Oceanico di Moss Landing (CA) che dando un numero e precise statistiche alla questione, ci ha permesso di far mente locale su quanto purtroppo, ormai da lungo tempo, in molti eravamo giunti a sospettare: che il numero totale delle tartarughe in questa straordinaria collettività itinerante, nelle ultime decadi, è andata incontro ad una progressiva riduzione, che considerata l’appartenenza a tale gruppo di un buon 38-57% di tutte le femmine in età riproduttiva del mondo, potrebbe condurre ad una quantità di esemplari restanti nel mondo intero inferiore ai 1.000 entro il non troppo remoto anno 2030. Una condizione meritevole, quanto meno, di essere sottoposta a un certo grado di approfondimento…

La cattura a scopi scientifici di una tartaruga liuto è un’operazione complessa e faticosa, che richiede metodologie comprovate. Forse anche per questo, lo studio di tali animali procede ancora oggi a rilento.

L’effettivo sforzo per la conservazione delle tartarughe liuto è quindi stata per lungo tempo un’iniziativa dalle ramificazioni particolarmente complesse, dato l’estensivo areale di suddetti animali capace di estendersi per un’intero lato del globo planetario, entro il territorio di paesi dalle condizioni sociali ed economiche molto diverse tra loro. Una leatherback che giunge a riva per la sua complicata mansione riproduttiva, consistente nel trascinamento della propria massa significativa fino a una distanza non del tutto ragionevole dal bagnasciuga, con conseguente scavatura della buca necessaria a mettere al sicuro (relativamente parlando) e custodire le proprie uova, costituisce una presenza inerentemente vulnerabile, che qualsiasi abitante umano dei dintorni può decidere di catturare e trasformare in un fondamentale pasto per l’intera comunità del proprio villaggio o altra comunità d’appartenenza, nonostante la carne poco gradevole per l’alta presenza di grassi e qualche volta persino tossica, causa l’alto numero di meduse facenti parte della sua dieta. Una prassi niente meno che tradizionale in molte regioni, tra cui ad esempio la Malesia, dove fino all’epoca recente è mancata un qualsiasi normativa rilevante alla risoluzione di questo problema dalle implicazioni drammatiche e durature. Il cui effetto può essere pienamente apprezzato nella situazione della singola spiaggia di Rantau Abang a Terengganu, dove ancora all’inizio degli anni ’60 dello scorso secolo nidificavano fino 10.000 tartarughe l’anno, finché la consumazione ad opera degli umani non avrebbe trasformato tale luogo nell’effettivo deserto che continua ad essere tutt’ora. Le pressioni umane sulla sopravvivenza delle tartarughe liuto non si limitano tuttavia a questo, con la maggior parte degli esemplari che vanno incontro ad un improvvido destino per l’effetto involontario delle reti a strascico, dove per tante volte tendono a restare catturate accidentalmente, finendo per morire di stenti o strangolate dalle impietose maglie. Un altro problema largamente documentato, nel frattempo, è quello dell’urto da parte di eliche o gli scafi delle navi, situazioni nelle quali il guscio semi-rigido dell’animale, in realtà composto da una pelle coriacea pur essendo relativamente vulnerabile, si rivela largamente insufficiente a proteggerlo dai pericoli creati dall’uomo. Aggiungete a tutto questo, una metodologia riproduttiva che potremmo definire certamente flessibile pur risultando tutt’altro che caratterizzata da un significativo grado di efficienza. Vedi il modo in cui sulle 50-170 uova deposte in media in ciascuna buca, soltanto l’85% del totale risulta effettivamente fecondato, anche prima che inizino a subire la ben nota predazione ad opera di granchi, lucertole, uccelli, procioni, coati, genette, cani e maiali. E prima della schiusa e conseguente corsa fino al mare, comune a svariate altre specie di tartarughe marine, così tanto spesso rappresentata come una versione all’inverso, ma altrettanto letale, dello sbarco in Normandia mostrato nel film “Salvate il soldato Ryan”.
Questioni addizionali che inficiano in maniera ulteriore la possibile esistenza futura di queste ponderose nuotatrici, con possibili ripercussioni a più livelli del sistema ecologico globale. È stato infatti stimato in un studio del 2004 (Spotila et al.) come una singola tartaruga liuto possa giungere a consumare, nel corso di un intero anno, fino a 2900-3650 Kg di meduse, riservando in tal modo all’intera popolazione del Pacifico Orientale un ruolo assolutamente di primo piano nel contenimento di una moltiplicazione del tutto fuori controllo da parte di quest’ultime. Che diventerebbero perciò capaci, a loro volta, di nutrirsi di una quantità eccessiva di larve di pesci, andando a ledere la redditizia industria della pesca nell’intera zona della California statunitense. E in chissà quanti altri luoghi! Nient’altro che l’ulteriore conferma, se mai fosse necessaria, di come preservare determinate specie risulti essere un passaggio fondamentale non soltanto per gli amanti della natura. Bensì tutti coloro che, in un modo o nell’altro, vivono e respirano l’aria di un così stratificato e qualche volta fragile meccanismo planetario.

Questa enorme creatura simile ad un kaiju dalle proporzioni godzilliane potrà anche essere la risultanza, almeno parziale, di un mero gioco prospettico dell’inquadratura. Ma nessuno nutrirebbe dubbi, in merito all’appariscente magnificenza di simili giganti dei mari.

Strano come essere abbastanza grandi da proteggersi dall’assalto di qualsiasi predatore, ed invero abbiamo addirittura la testimonianza di leatherback dimostratesi capaci di mettere in fuga orche o squali, non serva assolutamente a nulla nel contesto spesso ostile del moderno sistema post-industrialista dell’uomo. In cui ogni cosa deve necessariamente servire allo stesso identico scopo oppure, nel caso in cui non riesca a farlo, perire dinnanzi alle cosiddette cause di forza maggiore, alimentate dalla stessa identica fiamma del bisogno percepito. L’imprescindibile avidità di nuovi spazi e meriti da parte di una multiforme, non-cooperativa massa d’individui. Laddove non c’è nulla che possa ottenere risultati tanto importanti e duraturi, quanto i membri di una specie che collaborino verso l’ottenimento di uno scopo; vedi il caso dell’associazione Leatherback Trust, operativa dal 2000 a partire dalla nazione del Costa Rica, dove ha già operato per garantire la salvezza di una grande quantità di appartenenti a questa specie ormai considerata vulnerabile dagli indici internazionali.
Ma cambiare veramente le cose, come spesso capita, richiederà del tempo, poiché dovrà partire dalla sensibilizzazione dei nuovi giovani e futuri pescatori, affinché ciò che un tempo si era soliti dato per ovvio, venga sovrascritto da un diverso tipo di coscienza responsabile. E soprattutto quella cognizione totalmente necessaria, eppur così drammaticamente inaccessibile, secondo cui quello che un giorno dovesse scomparire, potrebbe non tornare mai più.

Osservare l’unica via d’accesso (sola andata) nello stomaco della tartaruga più imponente al mondo può incutere un certo transitorio senso di soggezione. Sarà perciò meglio passare oltre, senza cadere nel tranello della Bocca della Verità.

Lascia un commento