Esperimenti sul pruno, pericolosa bevanda vinicola dei carcerati

Nessuno sa esattamente quando, come o da chi sia stata inventata. Risulta tuttavia perfettamente elementare, immaginare il perché: lunghi mesi, anni e decadi trascorse ad aspettare. Che la pena, variabilmente meritata, si esaurisca (in un modo o nell’altro) con la mente vagabonda che si muove tra i diversi lieti giorni di un repertorio d’esperienze oramai smarrito. Pazienza, sofferenza, rimorso. E qualche volta, un transitorio desiderio d’evasione, che può essere più o meno metaforico, ovvero inteso come metodo di far viaggiare via lontano l’immaginazione. E come può essere individuato in tali circostanze, quell’approccio comprovato fin dai tempi antichi, che consiste nell’indebolire temporaneamente i freni inibitori, tramite assunzione più o meno copiosa di particolari sostanze? Alcol, il più antico amico dell’umanità. E come disse una volta qualcuno: come potremmo mai abbandonare un vecchio amico… Costi quel che costi, costi quel costi. Costi quel che costi, splash!
C’è quindi un’associazione stereotipica che tenderebbe ad individuare un simile portale trascendente verso i lidi baccanali tra le tristemente celebri e alte mura del penitenziario californiano di San Quintino, il più antico degli Stati Uniti nonché uno degli ultimi due luoghi nello stato dove sia attivamente messa in pratica la pena di morte. Ottimo pretesto, se vogliamo, perché i suoi detenuti cerchino una valvola di sfogo alternativo, occasionalmente valida, in potenza, per raggiungere in anticipo l’ultima destinazione. Fu presto dimostrata, a tal proposito, la maniera in cui una tale pratica costruisca una linea di collegamento assai diretto con un regno particolarmente problematico e indesiderato. Quello da cui scaturisce, senza alcun preavviso, il letale demone del botulismo, come avvenuto più volte a memoria d’uomo, con occorrenze reiterate di emergenze di gruppo all’interno di questo o quel penitenziario. Ci vuole certamente del coraggio. E intraprendente senso dello sprezzo del pericolo, nonché un certo grado d’autodistruttiva incoscienza, per fare quanto esemplificato in questo video da Alex Ketchum, youtuber del tipo “o la va o la spacca” che inseguendo l’ineffabile drago degli algoritmi internettiani, ha deciso d’intitolare la sua ultima creazione “Ho fatto il vino all’interno del mio WC”. Una locuzione che è anche un programma, come si dice, ed in effetti, questo è proprio ciò che si verifica nel giro dei 4 frenetici minuti (trattasi di sanitario eccezionalmente lindo e candido, per lo meno) durante i quali si ritrova ad esplorare la più rinomata ricetta per fabbricare il pruno, alias hooch, anche detto dall’esterno il vino da prigione statunitense. Una pratica e semplice prova, se vogliamo, del processo naturale di fermentazione secondo cui la frutta marcescente, di tanto in tanto, finisce per inebriare senza conseguenze permanenti i più (s)fortunati membri del regno animale. A patto, s’intende, che le cose vadano per il verso giusto. E tutto venga messo in pratica secondo l’ideale metodologia di partenza…

Per una dimostrazione pratica maggiormente funzionale e risolutiva, completa di degustazione più o meno compiaciuta, non potrebbe esserci fonte migliore del canale di Emmymade, cuoca e videomaker britannica capace di spingersi la dove pochi altri si sono dimostrati in grado di osare.

Il problema del pruno “fatto in casa” per sport o i click di Internet, oltre al pericolo inerente della già citata contaminazione ad opera del batterio gram positivo Clostridium botulinum, è la difficoltà nel trovare una ricetta effettivamente valida a preservarne le scarse qualità meritorie. Spesso citata, a tal proposito, è la questione dei cibi fermentati consumati abitualmente dalle popolazioni inuit di Alaska, Canada orientale e Groenlandia, relativamente ai quali l’introduzione di metodologie moderne come confezioni in plastica piuttosto che il semplice seppellimento nella nuda terra sembrerebbe aver aumentato, piuttosto che ridurre, i casi di avvelenamento accidentale. Per cui esiste, in ogni caso, un modo “giusto” (si fa per dire) ed uno sbagliato per fare le cose. E non è detto che sia sempre il primo di questi ultimi, a sembrare istintivamente migliore, aprendo la strada verso un qualche tipo di possibile soddisfazione…
La principale fonte citata per la produzione del pruno, una bevanda il cui nome proviene etimologicamente dal termine inglese per le prugne, un tempo ingrediente di primaria importanza, è in effetti una celebre poesia scritta nel 2005 dal condannato a morte Jarvis Jay Masters, intitolata per l’appunto “Recipe for Prison Pruno”. Componimento vincitore dell’annuale PEN award che coniuga in un reiterato intercalare, in maniera sottilmente riuscita ed inquietante, la dichiarazione della corte che giudicò colpevole l’autore nel caso poco chiaro di omicidio di una guardia carceraria, con i passaggi successivi necessari alla preparazione di quel fluido sovversivo, capace d’inebriare chi avrebbe idealmente perso ogni diritto e privilegio innanzi allo sguardo severo della collettività. Il “suo” vino, quindi, è una faccenda alquanto semplice che trae i natali da 10 arance sbucciate, 8 once di macedonia, qualche goccia di ketchup ed una busta di plastica, da sigillare e custodire attentamente al caldo fuori dallo sguardo di occhi indiscreti (uno dei metodi preferiti è per l’appunto, avvolta in un asciugamano dentro il serbatoio del WC) Provvedendo a riscaldarla, ad intervalli regolari, con l’acqua proveniente dai semplici rubinetti della prigione per un periodo di almeno 48 ore, prima di aggiungere una quantità approssimativa tra i 40 e i 60 cubetti di zucchero (va da se, a questo punto, che il produttore debba avere una certa dimestichezza con i metodi e le forniture dei suoi carcerieri). Chiuso nuovamente l’improvvisato contenitore, dopo aver avuto cura di aver fatto fuoriuscire l’anidride carbonica contenuta all’interno, tutto quello che resta a questo punto è attendere ulteriori 72 ore, affinché i microrganismi cresciuti di numero si occupino di mettere in pratica la loro antica magia, trasformando la dolce brodaglia in alcol, in quantità di fino al 15-20% del risultante liquido dall’odore acre ed intenso. Segue filtratura mediante l’impiego di fazzoletti o altri simili implementi ed almeno si spera, gradita consumazione in occasioni giudicate adatte ad un liquido che è stato a più riprese definito avere il gusto di “Un aperitivo al gusto di bile”. Ma è chiaro che il sapore costituisce l’ultimo dei problemi, in tali circostanze…
C’è un frequente aumento nella quantità di vino da prigione prodotto, in effetti, nella maggior parte delle ricorrenze stagionali, come il Natale e il Capodanno, per non parlare dei principali eventi del calendario sportivo americano, vedi tra tutti il celebrato Superbowl. Casistiche all’interno delle quali, sfortunatamente, risulta essere tutt’altro che raro l’avvelenamento accidentale di una parte dei partecipanti all’improvvisata festa segreta, come quelli verificatosi più volte in California nel 2004 e nel 2005, e di nuovo nel 2012 in Arizona e nello Utah. In casi in cui può sopraggiungere la paralisi temporanea, parziale o totale, seguìta dalla perdita della coscienza ed infine nei casi più gravi, la morte.

Un’alternativa maggiormente responsabile è invece quella proposta dai due “idioti di professione” Brian e Jason (“The Modern Rogue”) il cui esperimento carcerario viene accompagnato dal cosiddetto “metodo artigianale” di aggiungere, semplicemente, un paio di bustine di lievito ad una bottiglia di succo di frutta. Non propriamente un ingrediente facile da procurarsi all’interno di un penitenziario…

Il metodo per la preparazione del pruno incluso nella poesia di J. Masters può essere infatti descritto come uno dei più sicuri (relativamente parlando, visto il contesto) data l’assenza di “ingredienti” segreti quali pane, miele o patate. Ciascuno dei quali è stato dimostrato, in varie occasioni, fornire un terreno particolarmente fertile per le spore del botulino pur diminuendo il tempo necessario a completare la preparazione, assieme al rischio conseguente di essere scoperti dal secondino di turno.
Ciò detto, permane necessariamente un certo senso autodistruttivo in essere nel modus vivendi di chi scelga d’intraprendere la fermentazione alcolica in simili condizioni. O il puro e semplice bisogno di una valvola di sfogo. Proveniente dall’intraprendenza di chi non ha più nulla da perdere, accompagnata dalla pura semplice disperazione. Poiché supremamente triste è il mondo in cui tanto grave e tragico possa essere il gesto di un criminale, da dover richiedere nell’opinione di un intera nazione la più suprema ed irrimediabile delle punizioni. Soprattutto quando, come avviene talvolta, un giudizio possa dimostrarsi troppo tardi fondato su presupposti errati.
Per citare quell’ultimo verso, possa allora Dio aver pietà della tua anima, distillatore clandestino di sostanze funzionali al più difficile degli obiettivi: dimenticare la triste condizione di chi ha già perso tutto, e perderà anche il resto. Ma non il desiderio di divertirsi, quello mai. Fino alla fine dei giorni.

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