Aperte per l’incendio nuove prospettive sull’architettura aborigena della Preistoria

Cessato il vento in questo tragico 2020, il fumo finalmente si disperde. L’aria torrida, eppur limpida dei mesi estivi torna a governare l’ampia terra dei koala, nella parte sud-occidentale dello stato di Victoria, una delle parti d’Australia maggiormente colpite in questo periodo di devastanti incendi stagionali. Ma è durante la perlustrazione tramite elicottero, al fine di quantificare i danni, che le personalità preposte scorgono qualcosa di assolutamente inaspettato: proprio lì, dove più di 30.000 anni fa il corso delle piogge si era incanalato, in modo naturale, per la pista non del tutto permeabile dello scivolo di lava, venuto a formarsi causa l’eruzione del possente monte Budj Bim.
Niente più vegetazione, dunque, erba o alberi, capaci di coprire le tracce di un qualcosa che possiamo riconoscere in maniera istantaneamente chiara: per il semplice fatto che, non soltanto siamo soliti apprezzare simili caratteristiche del paesaggio; molto spesso, le costruiamo ancora. Canali, assai profondi e regolari, scavati in mezzo alla radura dagli antichi popoli di questi luoghi. Con una finalità specifica ormai chiara, da parecchi anni… Fu in effetti per primo George Augustus Robinson, costruttore e predicatore inglese, a scrivere nel 1841 a proposito di un tratto di palude nei dintorni di Mt. William scoperto durante una spedizione: “[Abbiamo qui] un enorme sezione di territorio con canali ed argini, simile all’opera dell’uomo civilizzato ma che a un’ispezione più approfondita risulta essere l’opera degli aborigeni australiani, messa in opera con l’obiettivo di catturare le anguille”. Un fine che nei fatti, risultò straordinariamente utile, nel permettere alla popolazione residente dell’etnia Gunditjmara (alias Dhauwurd Wurrung) di sopravvivere praticando uno stile di vita stanziale sin dall’epoca di 6 millenni prima di Cristo, nonostante mancassero ancora di conoscere l’agricoltura. Esatto! Non si tratta di un’esagerazione: stiamo qui parlando della chiara traccia archeologica di un popolo più antico, tra le altre cose, delle piramidi egiziane. E della loro straordinaria abilità nel catturare in maniera sostenibile, attraverso un metodo paragonabile all’allevamento sistematico, l’equivalente coévo dell’attuale popolazione locale di Anguilla australis, un pesce noto per le sue frequenti migrazioni dai laghi dell’entroterra fino al mare. Così che chiunque, motiva dalla fame, avrebbe potuto facilmente catturarne quantità copiose, con il fine di nutrire in modo soddisfacente le genti del villaggio, per una generazione o due. Ma quello che costoro furono in grado di realizzare fu molto, molto di più: come accertato attraverso le ricerche archeologiche dell’ultimo secolo, non ultima quella iniziata poche settimane fa in funzione della nuova sezione scoperta in seguito all’incendio, il loro sistema di canali scavati nel basalto (perché è di questo che si tratta) aveva specifiche diramazioni, fornite di dighe e sbarramenti, capaci d’instradare l’acqua con il proprio contenuto ittico all’interno di pozze artificiali, dove le anguille restavano confinate fino al momento in cui se ne rendeva necessaria la consumazione. Mentre la cattura propriamente detta, possibile nel corso dell’intero anno, avveniva tramite speciali trappole costruite con canne e lunghi fili d’erba intrecciati, simili a un cilindro con due aperture, una grande e l’altra più piccola. Così che, secondo quanto ritenuto probabile, il pesce serpentino entrava da una parte per poi restare incastrato con la testa che sporgeva dall’altra; frangente in cui, in maniera repentina ed esperta, l’aborigeno poteva moderne la nuca, uccidendolo istantaneamente. L’intero territorio culturale del Budj Bim, disseminato di resti evidentemente appartenuti a insediamenti umani come capanne di pietra e luoghi di sepoltura, è stato quindi iscritto nel corso del 2018 nell’elenco dell’UNESCO, acquisendo la tutela su scala internazionale come importante patrimonio storico dell’umanità, mantenuto notevolmente integro grazie alle attenzioni della popolazione locale. Benché, come spesso capiti a margine di simili siti, tale situazione ideale non abbia avuto di concretizzarsi fino all’acquisizione della moderna coscienza della Storia…

Le vestigia delle antiche civiltà potranno non avere tutte lo stesso splendore ed implicita magnificenza; resta indubbia, tuttavia, la loro importanza nel consentire e amplificare lo stile di vita praticato a quel tempo.

In questa intera parte dell’Australia vennero infatti combattute, attorno alla metà del XIX secolo, una serie di accese guerre tra le popolazioni locali discendenti degli antichi Gunditjmara e i coloni europei di quella che era stata recentemente battezzata Nuova Olanda, guidati tra gli altri proprio dal succitato George Augustus, investito della carica di “Capo Protettore degli Aborigeni” (ovviamente, quelli che si erano arruolati volontariamente tra le schiere della polizia coloniale). Un conflitto degenerato, come tristemente prevedibile, in una sorta di guerriglia condotta strenuamente dai nativi, mirata a distruggere le proprietà degli stranieri e costata la vita a letterali migliaia di pecore, sterminate dai primi nel vano tentativo di costringere i secondi ad imbarcarsi di nuovo sulle proprie grandi navi. Un conflitto durato oltre 20 anni, passato alla storia come guerra di Eumeralla, ed il cui costo in termini di vite umane risulta ancora variabile tra le 442 e 7.000 ma la cui più chiara ed immediata conseguenza sarebbe stata la costruzione, da parte dei soliti “vincitori” di un sistema d’irrigazione tramite canali sul modello olandese, capace di spazzare via, senza eccessive preoccupazioni, una parte significativa dell’antica rete di acquacoltura ancora correntemente impiegata dagli indigeni locali.
Soltanto nel 1977 quindi, a seguito di un periodo di forti piogge, la tracimazione delle acque dal lago almeno parzialmente artificiale di Condah rivelò la maniera estremamente specifica e deliberata con cui l’acqua fluiva attraverso queste antiche autostrade per le anguille, fino alle pozze a forma di “C” con l’evidente funzione d’immagazzinare provviste viventi, molti millenni prima che l’uomo potesse disporre di sistemi di raffreddamento. La lunghezza media di questi canali dunque, inclusi quelli recentemente scoperti al disperdersi dell’incendio, è solita estendersi per circa 3 chilometri, con una larghezza di 2,5 metri e una profondità di 1. La pronta conduzione dell’analisi al carbonio 14 sui residui di legna custoditi dalle paludi di torba, un tempo utilizzata per affumicare le anguille all’interno cavo degli alberi di eucalipto, avrebbe quindi permesso di datare l’intera questione ad un’epoca molto antecedente a quella ritenuta, fino a quel momento, popolata dalle genti di etnia Gunditjmara. Fondamentale, per il recente riconoscimento ad opera dell’UNESCO, sarebbero quindi risultate le precise mappe tridimensionali realizzate da Heather Builth tra il 1990 e il 2000, capaci d’individuare l’ingegnosa struttura del complesso sistema, posto sul sentiero percorso dalle anguille verso i loro luoghi riproduttivi nel distante Mar dei Coralli. Oggi la struttura dei territori culturali del Budj Bim, attentamente tutelata, è anche un’importante risorsa turistica, capace di suscitare nei visitatori importanti interrogativi sull’antico rapporto dell’uomo con la natura e le pratiche possibili per dominarla in maniera sostenibile, senza per questo arrecare danni significativi ai suoi insostituibili presupposti.

La costruzione delle trappole Gunditjmara viene ancora praticata correntemente dalle genti aborigene dei territori australiani meridionali, dirette discendenti di quei popoli che avevano costruito i canali e le dighe, ben prima di dover guerreggiare per il possesso del territorio con il presunto “destino manifesto” degli europei.

Siamo a conoscenza, a tal proposito, delle antiche credenze delle plurime tribù dei Dhauwurd Wurrung, tramandate attraverso le generazioni attraverso un’attenta tradizione orale. Miti che parlavano del dio Creatore Budj Bim ovvero letteralmente “Testa Alta”, che si era trasformato in un vulcano per nutrire la terra con il suo sangue (la lava) e i propri stessi denti (pietra pomice, basalto). In uno stretto legame degli usi e costumi con la natura stessa del paesaggio ritrovato anche nella sepoltura dei membri più importanti della tribù, sempre disposti con la testa verso l’isola di Deen Marr, anche nota come “strada degli spiriti” luogo ove avveniva tradizionalmente il trapasso verso le regioni dell’Oltretomba.
Il tutto nella precisa visione cosmica di un regno in cui le anguille, come viaggiatrici unicamente di passaggio, risultavano essere nient’altro che una forza potenzialmente utile tra le molte altre, così come i fuochi che erano soliti scatenarsi nelle terre in mezzo ai fiumi, distruttori di una vegetazione e fauna che ogni volta, non tardavano a tornare, più forti di prima. E se adesso ci troviamo a dubitare di un simile processo, per la superiore gravità e devastazione di simili eventi, è soltanto perché i presupposti sono cambiati, attraverso le lunghe stagioni del tempo. Una situazione di cui, almeno in parte, non possiamo fare a meno di accettare un qualche tipo di pesante responsabilità.

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