Si tratta di una di quelle notizie in grado di suscitare un immediato senso del dubbio, subito seguito dallo scetticismo inerente nel venire a patti con tali balzane idee. Almeno fino a quando, come avvenuto solamente poche settimane fa, la Disney stessa non fa il nome di colui che dopo tutto, avrà il compito di sostenere sul palcoscenico la pièce: niente meno che il solo ed unico Ichikawa Ebizō (in effetti l’undicesimo, ma comunque l’unico al momento) forse il più celebre attore vivente dell’altra forma tradizionale di drammaturgia giapponese, dopo i rigidi formalismi dell’ancor più antico teatro Nō. Nome degno di essere ereditato, attraverso i quattro secoli di una simile forma d’arte, di volta in volta dal secondo più importante e rappresentativo volto in qualità di yagō (屋号 – nome della casa o nome ereditario) come voleva l’usanza di tante arti e mestieri di questo paese. Destinato questa volta ad interpretare niente meno che il samurai Kairennosuke (魁連之助 ) sostanziale reinterpretazione del “cattivo” della più recente trilogia, attraverso i tre momenti più drammatici della sua esistenza d’individuo e guerriero: l’uccisione spietata del padre Hanzo (半蔵 – Han Solo) la ribellione contro il malefico maestro Sunonaku (敷能 – Snoke) ed infine la battaglia col fantasma di Ruku (琉空 – Luke) sul pianeta di sale, Crait. Un annuncio ai margini del quale, in aggiunta alla curiosa traslitterazione dei nomi, in realtà finalizzata a poterli rendere attraverso l’impiego d’ideogrammi piuttosto che l’usuale alfabeto sillabico katakana, colpiva la scelta di dividere la trama in atti cronologicamente così distanti, così lontano dal linguaggio cinematografico ma totalmente in linea col formato di tanti celebri drammi del teatro kabuki. Così dopo il completamento di una lotteria segreta, così come misterioso sarebbe rimasto fino all’ultimo momento il luogo dello spettacolo, destinato ad essere inscenato soltanto una volta e per un gruppo di fortunati spettatori a poche settimane dall’uscita nelle sale del prossimo film, la rappresentazione sarebbe stata successivamente proposta in streaming per un pubblico globale, affinché tutti potessero stupirsi, o in qualche modo rimanere colpiti, dalla strana ma efficace commistione d’influenze tanto (apparentemente) distanti.
Ichikawa Ebizō XI stesso, quarantunenne al secolo Takatoshi Horikoshi e figlio di un altro gigante del kabuki contemporaneo, Ichikawa Danjūrō XII, è il centro assoluto di ciascuna delle tre scene, con l’impressionante kimono nero dai risvolti rossi che allude all’armatura di Kylo e un’interessante katana, dotata dell’essenziale elemento cruciforme allusivo all’arma del personaggio da lui interpretato. Mentre al posto della maschera indossata da costui, egli stringe nell’altra mano la tesa di un ampio cappello nero, dal riconoscibile mon (emblema) geometrico, usato a più riprese come ausilio drammatico, scudo o schermo che accentua, piuttosto che nascondere le sue espressioni. Ma è l’effettivo pathos dei momenti, accompagnato da quel senso di un corposo melodramma che da sempre è una parte inscindibile della saga di Star Wars, esattamente come della trama di tanti drammi kabuki, a portare fino alle più estreme, nonché desiderabili conseguenze una tale espressione della rinomata creatività nazionale, così trasformata in mezzo che apparentemente riesce a completare il ponte tra due culture tanto diverse, ma simili nei sentimenti e talune idee di partenza. Nonostante nel procedere della vicenda, alcuni cambiamenti di storia dovessero necessariamente essere introdotti…
La prima scena, quindi, si apre con un gruppo di monaci buddhisti che recitano sutra (preghiere) per la salute dei membri della troupe del kabuki e nuovo film di Star Wars, seguite da invocazioni per il successo di entrambe le creazioni nei rispettivi contesti. Subito quindi Kairennosuke, al suono degli shamisen (liuti) ed altri tipici strumenti del teatro giapponese prende il centro della scena, mentre il suo stesso padre Hanzo tenta d’infiltrarsi nella base Starkiller, episodio rappresentato al termine del primo film. Dopo un breve confronto tra i due quindi, sarà proprio il giovane corrotto dalla furia del Lato Oscuro a gettare il genitore verso le profondità del baratro, non prima di averlo trafitto spietatamente con la sua katana: un gesto il quale, nel contesto di qualsiasi cultura ma in modo particolare quella nipponica, simboleggia il rifiuto della propria linea ereditaria e l’importanza degli stessi antenati, costituendo un gesto imperdonabile per qualsiasi individuo. Dopo un rapido cambio di scena e l’incontro programmatico tra la madre Reian (澪殷 – Leia) e l’eroina Reina (麗那 – si tratta ovviamente di Rey) l’azione si sposta nella sala del trono da noi conosciuta al termine del secondo film, dove l’ersatz samuraico di Kylo dovrà prima affrontare, assieme a Reina le guardie del suo mentore ed originario corruttore Sunonaku, posto a capo del malefico ordine degli Oda-gun (旺拿軍 – ancora una volta, un riferimento al signore della guerra Oda Nobunaga diventa sinonimo di crudeltà assoluta) per poi vibrare l’unico e fatale colpo nei suoi confronti. La battaglia in questione rappresenta, forse, il momento più memorabile del dramma, con una coreografia di danza memorabile tra i due e i vermigli pretoriani dell’ormai vecchio, e debole signore del male. Ulteriore cambio, quindi, ancora una volta introdotto dopo la proiezione di un’immagine dai film, ricreata con tecniche di pittura tradizionali, e siamo adesso all’ultimo e più significativo confronto di Kairennosuke: quello contro l’immagine, creata grazie all’uso della Forza, del saggio ed ormai stanco Ruku, l’uomo che soltanto per un attimo aveva dubitato della sua possibile bontà futura, condannandolo ad un’esistenza priva di riscatto. Così attraverso lo scambio di colpi tra le due katana/spade laser, ingegnosamente fato svolgere attorno ad elementi coprenti del fondale, i due attori si scambiano di costume più volte, affinché Ebizō interpreti sempre il ruolo del personaggio parlante, in un vezzo di creatività scenografica così tipica degli artifici associati spesso al teatro kabuki. Nel culmine della battaglia quindi, che porterà alla morte del corpo fisico di Ruku, la figura di un fanciullo in abiti da nobile compare sulla sommità della scena: si tratta di nientemeno che Kangen Horikoshi, suo figlio primogenito avuto con la moglie purtroppo già passata a miglior vita, destinato probabilmente a ereditare lo yagō di Ichikawa Shinnosuke VIII entro il 2020, durante la cerimonia in cui il padre diventerà Ichikawa Danjūrō XIII, nome sostanzialmente riservato alla massima figura del teatro kabuki attualmente in vita. Il nuovo personaggio senza nome quindi, ancora una volta esprimendosi con lo stile arcaico e caratteristico della drammaturgia kabuki, enuncerà la conclusione della vicenda, preparando il pubblico a conoscerne il seguito attraverso successive narrazioni, una chiara allusione all’uscita del nuovo film.
Che dire dunque di una così intrigante commistione, generosamente offerta in formato gratuito all’intero pubblico del vasto Web? Beh, personalmente direi che funziona. E che non poteva essere diversamente: dopo tutto, il teatro kabuki (歌舞伎 – termine che significa “recitare in modo stravagante”) nasce con intenti parodistici e d’intrattenimento popolare, dalle danze organizzate presso i principali templi buddhisti, talvolta dagli stessi membri di tale clero. Con interpreti in origine, strano a dirsi, tutte di sesso femminile, laddove fin dall’epoca dello shogunato Tokugawa (1603-1868) il bakufu (幕府 – governo centrale) istituì la regola che ogni ruolo dovesse essere interpretato da uomini, onde prevenire l’eccessiva dissolutezza dei costumi. Un punto oggi inscindibile da questa forma d’arte, così come le invenzioni sceniche, le acrobazie e le innumerevoli invenzioni che fanno parte della loro espressione più moderna. Sarebbe quindi più che mai appropriato ritrovare, alle radici stesse di quel teatro, l’intento di stupire e far divertire, sorprendere e catturare il pubblico, che ancor oggi viene perseguito con pari enfasi nel cinema dai molti effetti speciali dal piglio tipicamente hollywoodiano.
Ed alla fine, non l’abbiamo sempre pensato? Che i Jedi con le loro spade e le maniche ampie, i dogmi irrinunciabili ed il valore dato alla meditazione, dovessero in qualche maniera richiamarsi al mondo dei samurai giapponesi. Meno la necessità inerente di servire fedelmente un singolo padrone, aspetto che del resto, anche in patria sembra oggi essere passato in secondo piano. In un mondo post-moderno d’infiniti eroi, guerrieri e guerriere dei manga o cartoni animati, che proprio attraverso la globalizzazione dei mezzi di comunicazione, ormai appassionano i più remoti angoli del globo. Proprio come Star Wars riuscì a fare, in epoca pregressa e coéva, percorrendo a ritroso il vasto spazio cosmico, concettualmente indiviso.