Le molte missioni di un drone militare sottomarino

Su una spiaggia in prossimità del confine, quattro uomini in tenuta da infiltrazione lasciano la presa sulle loro armi d’assalto all’unisono, lasciandole ricadere sulla cinghia che passa al di sopra della spalla destra. Con un movimento fluido, i militari si spostano attorno al contenitore anonimo consegnato tramite il paracadute, protetto da un codice di chiusura segreto. Il capo del gruppo si china sul tastierino e inserisce una serie di numeri all’esaurirsi dei quali, con un lieve sbuffo d’aria causato dall’equalizzazione atmosferica, il coperchio si solleva e scivola di lato. Per mostrare, all’interno, quella che potrebbe sembrare a pieno titolo una semplice imbarcazione giocattolo. Se non fosse del tipico color nero opaco anti-radar, nonché aerodinamica e “cattiva” in ogni aspetto tranne la bulbosa macchina da presa meccanizzata che spicca sulla parte superiore dello scafo, dotata di un doppio obiettivo per catturare un feed da inviare al pilota e illuminare con il laser, allo stesso tempo, potenziali bersagli per il satellite o l’artiglieria. Un addetto alle manovre il quale, si capisce più o meno subito, dovrà necessariamente trovarsi “altrove” o per essere maggiormente specifici, al sicuro all’interno di una base protetta in territorio amico. Perché in quale assurdo altro modo, una persona e in carne ed ossa potrebbe mai trovare posto a bordo di un natante che misura appena 1,10 metri di lunghezza, incluso lo spazio per i motori, i sistemi, l’informatica di bordo e la batteria? Veicolo che in questo preciso momento sta per essere sollevato di peso dalle quattro nerborute teste di cuoio, prima di venire accompagnato di peso oltre i quattordici passi che lo separano dal bagnasciuga e lanciato in maniera corrispondente a quella di un grosso cucciolo di tartaruga.
Questa inusuale caratteristica, della compattezza e un peso assai contenuto (appena 6 Kg) costituisce in effetti il punto cardine delle classi più piccole di Mantas, l’UUV (Unmanned Underwater Vehicle) progettato e prodotto dall’azienda MARTAC – Maritime Tactical Systems di Satellite Beach, Florida, benché la versione più grande e dotata della maggiore autonomia, denominata T-12, giunga a misurare i 3,6 metri per una massa complessiva di ben 95 Kg. Pur sempre un ingombro accettabile, quando si considera cosa possa effettivamente fare, ed a quale esigenze possa rispondere, un rappresentante a pieno titolo di questa innovativa tecnologia.
Potrebbe sembrare probabilmente assai singolare, per non dire del tutto inaspettato, che l’applicazione militare di questo concetto delle operazioni con controllo remoto, ormai largamente accettata per quanto concerne i mezzi d’aria con armamento più o meno pesante, stia trovando un applicazione all’interno dei think tanks dell’Esercito Americano soltanto nell’ultima decade, attraverso una serie di appalti e concessioni nei confronti dei fornitori storici, o piccole ed agili compagnie come la produttrice di quanto mostrato nel video di apertura. Un sommergibile controllato tramite l’impiego di onde radio, capace a seconda delle necessità di effettuare rilevamenti di natanti o strutture sommerse, sorvegliare le coste, consegnare dei materiali, condurre operazioni di sminamento o offrire supporto di vario tipo alle truppe rimaste bloccate dietro le linee nemiche. E benché ciò non abbia ancora trovato un’applicazione pratica nel mondo reale, sarebbe difficile fare a meno d’intravedere nell’immediato futuro degli UUV un qualche tipo d’armamento, potenzialmente utile a sbloccare situazioni di stallo nei conflitti di tipo acquatico tra compagini operative avverse. Il che non potrebbe far altro che avvicinare ulteriormente i dispositivi, con la loro linea idrodinamica e la forma affusolata, allo squalo famelico che li ha ispirati…

Il DriX della compagnia francese iXblue costituisce un sub autonomo dalle dimensioni decisamente più convenzionali coi sui 7 metri di lunghezza e stazza di conseguenza, coronato da una riconoscibile torretta dei sensori a “collo di giraffa”. È altamente probabile, a questo proposito, che la sua colorazione arancione sia stata selezionata per un maggior risalto durante le esercitazioni e i video dimostrativi per la stampa.

La questione fondamentale da considerare nel prendere in considerazione i mezzi subacquei privi di pilota, e un importante aspetto per la loro progettazione ingegneristica, è il fatto che l’acqua non sia un mezzo di trasmissione in alcun modo valido per la trasmissione di segnali a lunga portata. Ragion per cui, diversamente da quanto avviene per i velivoli radiocomandati che operano al di sopra delle nubi, nel momento stesso in cui l’UUV dovrà immergersi per evitare l’individuazione da parte del nemico il suo funzionamento dovrà necessariamente avvenire in totale autonomia. Non costituendo tutto ciò, altro che la conduzione fino ai massimi termini del concetto basilare dei cosiddetti droni, un termine che (all’insaputa di molti) dovrebbe sottintendere ragionevoli gradi d’autonomia. Ecco perché negli ultimi anni, un acronimo altrettanto valido per mezzi come i MARTAC Mantas è diventato AUV, ovvero “Autonomous underwater vehicle” o volendo essere più descrittivi, una sorta di vero e proprio robot. Tra le caratteristiche elencate dalla compagnia produttrice in Florida figurano almeno due importanti modalità d’utilizzo: quella identificata come “alligatore”, in cui il sub prende posizione sotto il pelo dell’acqua, lasciando emergere solamente la torretta di controllo e i relativi sensori ed antenne, cui si contrappone la navigazione completamente autonoma verso il raggiungimento di una serie di punti d’interesse, precedentemente inviati a distanza o registrati direttamente all’interno del computer di bordo. Il che ci porta ad un altro aspetto assolutamente fondamentale della faccenda: come risulta possibile, una volta immerso sott’acqua e interrotto il segnale GPS, per un drone conoscere esattamente la sua posizione su quel vasto palcoscenico che è l’oceano? La risposta ricade inevitabilmente nell’antico concetto della navigazione stimata (dead reckoning) con un sistema di calcolo che prevede, generalmente, l’impiego di apparecchiature moderne come accelerometri e giroscopi. Un altro aiuto può essere, a seconda dei casi, la dotazione di un ADCP (Acoustic Doppler Current Profiler) sensore acustico in grado di misurare la risposta del sonar alla particolare conformazione del fondale, prima di raffrontarla alle mappe precedentemente acquisite del teatro operativo corrente. La propulsione scelta per questi natanti, nel frattempo, rientra generalmente nella classe elettrica, del tipo apprezzato anche in molti sottomarini convenzionali per massimizzare la silenziosità, benché nel 2011 sia stato prodotto, dopo una lunga serie di sperimentazioni, il primo “aliante marino” pienamente realizzato con impostazione autonoma, il SeaExplorer della francese ALSEAMAR, del tutto privo di motore e capace di spostarsi trasversalmente a una velocità ridotta attraverso la sua particolare forma e modalità di galleggiamento. Compagnie di altra portata e caratura, nel frattempo, proponevano alla Marina e all’Esercito un tutt’altro tipo di approccio procedurale, concepito per affrontare il problema con quella caratteristica metodologia statunitense, che deriva tra l’incontro tripartito d’imponenza, abbondanza e potenza del motore…

Chi ha detto che un sottomarino autonomo debba essere di dimensioni (relativamente) ridotte? Sott’acqua, tutto può scomparire, a patto di essere sufficientemente silenzioso. Ecco dunque l’Echo Voyager della Boeing, un UUV la cui classe massima raggiunge i 15 metri di lunghezza, da cui derivano ad ogni modo 6.500 miglia d’autonomia.

Qualunque sia il tipo di filosofia progettuale scelta, ad ogni modo, vi sono aspetti che sembrano essere del tutto imprescindibili in questo campo ancora giovane della produzione di mezzi militari a controllo remoto. Tra i quali figura, centralmente, la modularità: ovvero uno spazio libero, riservato all’interno dello scafo e tenendo conto della capacità di carico complessiva, idoneo all’integrazione con sistemi di sensori, d’arma o un carico scelto in base al tipo di missione da portare a termine di volta in volta. Più o meno come avviene per i vascelli ad uso scientifico prevalentemente adottati in campo civile. Poiché diversamente dai droni militari di tipo aereo ed in maniera inerente alla raggiungibilità fisica del sub successivamente al suo schieramento, gli UUV possono ipoteticamente assolvere a un ventaglio di compiti molti maggiore, ancora non del tutto evidenti, persino per chi si occupa di commercializzare direttamente questa specifica classe di apparecchi. Un altra funzione autonoma dei MARTAC Mantas, ad esempio, è quella di formare un vero e proprio sciame (modalità SWARM) in grado di circondare e insidiare un potenziale battello nemico. Benché in assenza di sistemi d’arma a bordo, non è esattamente chiaro quale possa essere il passo successivo.
Forse l’imitazione, fatte le debite proporzioni, di un branco di delfini arrabbiati, pronti ad aggredire eventuali intrusi nel loro territorio di caccia elettivo? Qualcosa mi dice che potremmo scoprirlo fin troppo presto. Il mare non ci mette mai un tempo particolarmente lungo, a riportare a riva i suoi segreti.

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