L’asino Brighty, eroe celebrato dalla Frontiera

So cosa state pensando: “Ecco la storia del solito animale idealizzato, in funzione di chi l’ha posseduto e qualcosa che costui ha fatto, con una semplice, patetica statua disposta in un luogo pubblico, affinché la gente del posto possa ricordarsi del suo passato.” Ebbene Brighty, il piccolo burro (particolare razza iberica d’equino) dal momento in cui le cronache acquisiscono il suo nome, non fu proprietà di nessuno, né ebbe modo di compiere alcuna spettacolare impresa. Diamine, spesso rifiutava persino di compiere il suo “dovere” di bestia da soma, strofinandosi contro gli alberi per far cadere a terra il carico, come sua prerogativa di bestia, fondamentalmente, ritornata alla vita selvaggia del West. No, questo personaggio peloso, rimasto famoso grazie alla testimonianza di molti, ebbe modo di diventare un simbolo dell’Arizona per gradi, attraverso coloro che seppero comprendere, interpretare ed analizzare la sua vicenda, così straordinariamente rappresentativa di quella della sua intera specie. Nonché del coraggio, e dello spirito d’intraprendenza, che ha sempre amato riconoscersi il variegato popolo americano.
Il suo viaggio verso la fama inizia, precisamente, nel 1893, quando il direttore di una società ferroviaria di nome Frank Brown, per ragioni largamente ignote, annega nel tratto più famoso del Colorado River: il Grand Canyon, gigantesco crepaccio nella pianura. Così che sua moglie, lungi dal rassegnarsi, andò a chiedere aiuto per cercare la persona scomparsa al pioniere ed allevatore John Fuller, che con un amico discende per trovare una qualsiasi traccia, anche postuma, del facoltoso turista. Una missione che sarebbe andata incontro all’assoluto nulla di fatto, tranne che per un ritrovamento del tutto inaspettato: una tenda per due abbandonata proprio nel mezzo della zona nota come Bright Angel Canyon, con un asino fuori in attesa del ritorno dei suoi padroni. Gli esploratori, a questo punto, fanno il loro ingresso scoprendo alcune lettere, un orologio ormai scarico e i bagagli di individui di provenienza incerta, la cui identità non sarebbe mai stata accertata. Dopo una breve meditazione, Fuller conclude che anche loro dovevano essere annegati, quindi slega l’asino e fa il suo ritorno in città.
Ora dovete sapere che i burros, come particolare tipologia d’animale, sono un prodotto sostanziale dell’allevamento umano. Creato per poter disporre di un trasportatore animale che sia sufficientemente docile, mangi poco e possa affrontare di buona lena una lunga giornata di lavoro. Importati nel Nuovo Mondo dai coloni spagnoli e portoghesi, simili creature diventarono quindi il vero e proprio simbolo dei cercatori d’oro del XVII e XIII secolo, che gli affidavano i propri picconi, la pala e i setacci nella speranza di riuscire a fare fortuna. Una volta raggiunto l’obiettivo prefissato, o abbandonato il sentiero della ricchezza potenziale, succedeva essenzialmente sempre la stessa cosa: l’uomo abbandonava il suo fedele compagno, nel preciso istante in cui non ne aveva più bisogno. Questi asini, tuttavia, lungi dal soccombere a causa delle avversità, si spostavano nelle zone più fertili, brucando l’erba che gli permetteva di sopravvivere e addirittura, prosperare. Si stima che all’inizio del ‘900, nel solo Grand Canyon vivessero parecchie centinaia di burros, per un numero destinato a superare i 3.000 entro soli 20 anni da quella data. Tra tutti quanti, tuttavia, Brighty era diverso. Nonostante il suo nome associato alla località topografica che aveva abitato (immagino che se fosse stato una femmina, l’avrebbero chiamato Angel) l’asinello iniziò spontaneamente a vagare, spostandosi al sopraggiungere dell’estate verso l’Orlo Nord, sito del primo hotel dedicato ai visitatori di questa zona impareggiabile nel panorama nordamericano. E fu qui, entro breve tempo, che iniziò il periodo più felice della sua vita.

Il North Rim Canyon Lodge esiste ancora, essendo stato trasformato in un vero e proprio centro visitatori dotato di ristorante, per chi volesse godersi una vista sull’immenso vuoto sottostante. Nel foyer, in determinati periodi a partire dal 1966, è stata presente una statua dell’asino più famoso della storia americana.

L’hotel in questione, ancora ben lontano dalla rustica, ma funzionale struttura dei nostri giorni, era gestito da una gioviale famiglia di montanari che di cognome facevano McKee, famosi per le molte opere di miglioramento e il mantenimento continuativo dei sentieri che permettevano di accedere al Canyon in quegli anni, ancora agli albori del turismo in un luogo così remoto. Il loro sodalizio con Brighty arrivò per gradi, e fu caratterizzato da un rapporto straordinariamente improbabile tra uomini ed animali: l’asino, ormai diventato ferale (ritornato alla natura) andava e veniva a piacimento, accettando tuttavia di essere usato, quasi quotidianamente, per trasportare l’acqua fino alla località sopraelevata dell’hotel. Fatta eccezione per tale servizio, pagato generalmente con un’offerta di pancake dell’ora di colazione, gli veniva lasciata la libertà di andare e venire come preferiva, familiarizzando coi visitatori ed offrendo quello che veniva definito come un “muso amico” rassicurante ed amichevole, durante l’ardua discesa e le rischiose contingenze di una visita nella più celebre crepa del pianeta Terra. E pensate che talmente importante, fu considerato il suo contributo, che la gente del posto era solita scherzare sul fatto che il capo dell’organizzazione fosse in realtà il burro, mentre i McKee si limitavano ad assisterlo nella mansione di farsi dei nuovi amici. Nell’inverno del 1920, quindi, Brighty concluse quella che potrebbe definirsi la sua responsabilità maggiore: trasportare i materiali per la costruzione del primo ponte su questo tratto del fiume Colorado, mansione in onore della quale, gli sarebbe stato permesso di attraversarlo per primo (uhm, forse c’era un secondo fine…) Non può che sembrare tristemente ironico, dunque, che proprio una tale struttura avrebbe aperto il suo “parco personale” ad una quantità sempre maggiore di viaggiatori, ponendo le basi per quella che un giorno, sarebbe stata la sua fine. L’anno successivo, infatti, un ladro in fuga dalla giustizia avrebbe fatto il suo ingresso nel canyon dell’Arizona in cerca di rifugio dalla legge, trovando ed impossessandosi del burro per farsi aiutare nel trasporto dei propri bagagli. Giunto presso una capanna abbandonata proprio all’inizio dell’inverno, restò quindi bloccato dalla neve, ma non prima che un ex-soldato, anch’esso interessato ad allontanarsi dalla civiltà, si trovasse a condividere con lui questo scarno rifugio. Al migliorare della situazione meteorologica, quindi, molte settimane dopo, i due uomini emersero da una tale spelonca. Dell’asino, nessuna traccia: se l’erano mangiato.
Nel 1922, tuttavia, arrivò la svolta: Thomas McKee, giornalista ed autore radiofonico, scrisse una storia sul Sunset Magazine a proposito del benamato ed ormai defunto animale di famiglia, idealizzato come spirito libero e simbolo, alla sua maniera, dell’ideale mai sopito del fantastico Sogno Americano. Un pezzo breve, ma estremamente sentito e toccante, che giunse per caso sulla scrivania della conclamata scrittrice per bambini Marguerite Henry, la quale ne resta straordinariamente colpita. Ella decide, quindi, di recarsi dalla sua casa in Illinois presso il Bright Angel Canyon, per bere la stessa acqua, e addirittura assaggiare la fresca erba, che l’idealizzato equino aveva sperimentato in quei fondamentali anni di cambiamento. Il suo nuovo romanzo, Brighty del Grand Canyon, esce quindi nel 1953.
Nel frattempo, la situazione dei burros del Grand Canyon era tutt’altro che felice: i ranger di stato, avendo deciso che questi animali erano un rischio per l’ecosistema, essendo stati introdotti artificialmente ed occupando con maggiore efficacia la stessa nicchia di specie native, avevano lanciato una vera e propria crociata per la loro eliminazione dal territorio. Secondo i registri ufficiali dall’epoca del decesso di Brighty, erano già stati uccisi circa 1700 dei suoi simili, con un numero che continuava drasticamente ad aumentare. C’era soltanto una cosa, a quel punto, che avrebbe potuto salvarli: la potenza comunicativa dello schermo argenteo, ovvero la tenebra, e il luccichio, del grande cinema hollywoodiano.

L’equino più rappresentativo del Grand Canyon resta comunque, nell’opinione di molti, nient’altro che il mulo, figlio sterile di un cavallo e di un’asina, la cui forza e tenacia gli permettono di accompagnare i turisti lungo i sentieri più difficili della zona. Di certo, esso deve dimostrarsi un animale meritevole di grande fiducia…

La situazione si evolve all’inizio degli anni ’60, quando la moglie del produttore televisivo Steve Booth, pensando di acquistare un libro per i suoi figli, porta in casa una copia del romanzo di Marguerite Henry. Il quale, entro poche ore, viene letteralmente divorato dal marito. Sarà costui, quindi, a pronunciare le storiche parole: “Da tutto questo, trarrò molto presto un film.” Fu una produzione frutto d’investimenti abbastanza considerevoli, in grado di coinvolgere anche il regista Norman Foster, già autore del film Davy Crockett. Il ruolo di Brighty venne interpretato da due asini, uno dei quali aveva il ruolo di “stuntman” benché non sia chiaro che cosa ciò dovesse implicare. Ed il successo, nonostante il monopolio pregresso della Dysney in tale settore, non tardò ad arrivare; tanto che, nel 1966,  Booth pagò di tasca sua per far consegnare una statua di bronzo presso il North Rim Lodge, per “ringraziare la brava gente e i coraggiosi animali dell’Arizona.” L’iniziativa certamente bene intenzionata, tuttavia, fu ben presto al centro di significativi problemi e proteste. Le associazioni animaliste nascenti in quegli anni, oltraggiate per il trattamento crudele dei burros ferali del Grand Canyon, si radunarono attorno ad essa, e ne fecero un simbolo delle loro proteste. Così che gli amministratori, a malincuore, decisero di farla riporre in un magazzino, affinché non diventasse un simbolo di disobbedienza civile. Ciò ebbe, assai prevedibilmente, l’effetto contrario.
Mentre i ranger continuavano imperterriti a sparare agli asini, mettendo in campo persino elicotteri militari, la campagna “Ridateci Brighty” arrivò a coinvolgere frange influenti della classe dirigente nazionale, riuscendo ad annoverare tra i suoi sostenitori persino alcuni membri del Congresso a Washington. I quali, nel 1971, promulgarono la Legge per la protezione dei cavalli e degli asini ferali, che ridefiniva questi ultimi, dopo tanto tempo, come un importante simbolo e storici rappresentanti del passato degli Stati Uniti d’America. Il cambio di rotta, a quel punto, fu drastico e repentino: in meno di una settimana, la campagna per lo sterminio dei burros venne riconvertita in un trasferimento in massa degli stessi (con spese di 1.000 dollari ciascuno) presso regioni il cui ecosistema avrebbe risentito meno del loro costante brucare. Fu in un momento imprecisato dei primi anni ’80, quindi, che la statua di Brighty sarebbe stata di nuovo esposta all’ingresso dell’hotel, acquisendo la fama rinomata di un porta fortuna. Ragione per cui oggi quel muso argenteo, lucido per il tocco di molte migliaia di mani, continua ad essere accarezzato dai turisti, nella speranza che il suo spirito possa proteggerli durante i tratti più spaventosi della loro escursione a dorso di mulo.
Ecco in definitiva, a mio parere, ciò che può rendere speciale una simile creatura: non quello che ha fatto, ma il semplice fatto di essere esistita. Di aver coinvolto, attraverso le sue alterne fortune, un’intera generazione, riuscendo a trasformare il senso e il valore di un singolo asino eremita, in mezzo alla rada vegetazione dell’arido e inumano canyon. Forse in questo, persino la sua infelice dipartita in forma di bistecche, non deve rattristarci eccessivamente. Brighty l’asino doveva per forza morire, affinché Brighty il simbolo potesse venire inciso col fuoco tra le alterne lettere della storia del West. Il suo sacrificio, come molti nobili sacrifici, non fu propriamente una scelta. Ma non per questo, dovrebbe essere dimenticato.

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