L’espressione colpevole del raro elefante fumatore

Tra le notizie scientifiche del mese, questa non può certamente sfuggire a chiunque nutra una curiosità, sia pur vaga, nei confronti dei pachidermi terrestri, il tabagismo o gli oscuri misteri delle foreste indiane. L’autore, Varun Goswami, è uno scienziato della Wildlife Conservation Society che si trovava casualmente nel parco naturale di Nagarhole, nel distretto di Mysore in Karnataka. E con “casualmente” intendo che stava disponendo le fototrappole per ottenere alcuni ottimi scatti della minacciata popolazione di tigri locali. Quando ad un tratto, dinnanzi ai suoi rari occhi senza alcun tipo d’interfaccia digitale, non si è palesato quello che in molti avrebbero potuto ritenere un effetto speciale. Il pachiderma grigio femmina, Elephas maximus Linnaeus, mostrava il suo profilo dietro un tronco albero, quasi stesse tentando di nascondersi dagli eventuali coabitanti. Gli elefanti, si sa, hanno un’intelligenza sviluppata, ottima memoria e una struttura sociale complessa. Elementi per via dei quali, forse, la protagonista dell’insolita scena aveva percepito di stare facendo qualcosa di strano, potenzialmente nocivo per il suo prossimo nonché fastidioso. I segni, dopo tutto, chiarivano la situazione. Benché non vi fosse alcuna sigaretta o pipa visibile, dalla bocca dell’animale fuoriuscivano animati pennacchi di fumo. Già il tipico fascino di colui o colei che trascura la salute, a vantaggio del piacere rilassante di un piccolo fuoco che irrora i polmoni, pareva trasparire dalla sua proboscide rovesciata, gli occhi socchiusi, la coda dondolante come un simbolo di distrazione.
Che cosa stava facendo, dunque, il grosso mammifero solitario? I più dotati di spirito d’osservazione, tra cui annoverare indubbiamente lo stesso Goswami, non hanno tardato a notare come ad ogni singolo sbuffo, l’animale tornasse a pescare da terra un materiale nerastro, chiarendo un fatto di primaria importanza: qualunque fosse la fonte della sua evidente soddisfazione, era un qualcosa di soggetto al processo di fagocitazione. Non una pagliuzza, insomma, una cicca o una ciospa di qualsivoglia natura. Bensì, diciamolo pure… Legno, bruciato, durante l’insorgere dell’ultimo incendio boschivo (non tanto recente, possiamo desumere dal contesto) in condizioni sufficientemente anaerobiche, ovvero nella fase finale del disastro, quando l’unico modo di ardere è farlo in maniera estremamente rallentata, andando incontro a un processo di pirolisi e mineralizzazione. In altri termini, ecco a voi, signori e signore, un elefante che mangia carbone. Davvero un segno dei tempi in cui viviamo, nei quali tutto può Fare Bene, se si tratta di una moda prodotta dalla ricerca imprescindibile della salute, magari condita dal giusto pizzico di New Age. Bé, più o meno. Poiché ciò che l’imponente creatura sta facendo, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, vanta in realtà attestazioni innumerevoli attraverso l’intera storia della natura e si, anche quella della civilizzazione umana. La ragione di questo è la supposta, ed anche dimostrata in determinate circostanze, capacità di questo materiale nel campo dell’assorbimento delle tossine, che l’ha fatta trasformare attraverso i secoli nel rimedio preferito da chi avesse subito avvelenamenti più o meno volontari. Come l’elefante in questione avesse acquisito una simile nozione, o che tipo d’istinto potesse averlo condotto all’identica conclusione, non è stato ancora determinato. Tutto quello che ci resta è l’immagine, alquanto surreale, della maniera in cui le sue potenti mascelle stringono il pezzetto di legno carbonizzato scelto di volta in volta, polverizzandolo letteralmente e producendo la nuvoletta di cenere che così tanto ha affascinato il naturalista indiano, i suoi colleghi ed in tempi più recenti, l’intero popolo variegato del web. Come spesso capita in simili situazioni, tuttavia, esistono precedenti ed almeno un possibile spunto d’analisi più approfondita…

Come il più strano dei gelati, il pezzo di legno annerito dal fuoco diventa un tesoro da custodire gelosamente. Con una gestualità quasi teatrale, che potrebbe anche aver fornito l’ispirazione al Gollum cinematografico del Signore degli Anelli.

Questo particolare concetto, dell’individuo che si nutre di sostanze minerali normalmente considerate non commestibili (geofagia) trova la sua probabile massima espressione nel mondo animale tra i colòbi rossi dell’isola di Unguja (Procolobus kirkii) presso l’arcipelago africano dello Zanzibar. Le quali si sono abituate, a causa delle condizioni ecologiche della loro specifica terra emersa, a nutrirsi principalmente di due tipologie di cibo, entrambe poco raccomandabili per motivi differenti: il seme del mandorlo indiano (Terminalia catappa) dal gusto acido e ricco di componenti fenoliche, in grado di dare il mal di stomaco e le foglie del mango comune (Mangifera indica) letteralmente ricoperte dal composto velenoso dell’urushiol, irritante ed indigeribile all’estremo. Si tratta di una vita certamente difficile, qualcuno potrebbe affermare, che non potrebbe in alcun modo condurre alla prospera serenità della scimmiesca moltitudine, se non fosse per il segreto posseduto da questi piccoli, intelligenti animali. Mangiare carbone, ovviamente. Un qualcosa che in tempi recenti, hanno imparato a fare con estrema assiduità, grazie alla vicinanza sempre maggiore con le comunità umane locali, abituate ad usare il fuoco all’aperto come principale strumento per cuocere i cibi. Risulta quindi documentato dal qui sopra riportato spezzone della tv inglese BBC, il surreale scenario di questa famigliola sobbalzante, che prendendo di mira un falò non tenta in alcun modo di sottrarre i più preziosi averi dell’umano responsabile della situazione, andando possibilmente incontro ad un colpo assestato, nella migliore delle ipotesi, col palmo aperto della mano. Scegliendo piuttosto come bersaglio, un qualcosa di meno sorvegliato, ma per lei altrettanto utile: il carburante stesso da usarsi per l’accensione del fuoco, ingrediente fondamentale, e direi quasi irrinunciabile, della loro insolita dieta.
Un altro animale che si mostra propenso a divorare il carbone ogni qualvolta gli si presenti l’opportunità, notoriamente, è il comune pollo domestico, propenso ad assumerne istintivamente grosse quantità, qualora un edificio della fattoria di appartenenza sia andato sfortunatamente bruciato in un incendio. In tempi recenti, la Società Giapponese delle Scienze Animali ha dimostrato come i volatili che assumono regolarmente questa sostanza tendano a deporre uova più solide, con una componente di collagene maggiormente significativa. Mentre l’effetto benefico sulla digestione concesso dal materiale modifica la composizione del loro guano, riducendo le sostanze a base di ammoniaca e rendendo drasticamente meno probabile l’insorgere di malattie all’interno del pollaio. Con l’indubbio valore aggiunto, di rendere tale prodotto collaterale ma comunque prezioso, ancor più efficiente nella concimazione del suolo. Per questo più di un allevatore, nel corso degli anni, si è attrezzato per produrre carbone e cenere, fornendone generosi dosi quotidiane ai suoi amici pennuti, con risultati non sempre misurabili, ma spesso evidenti a un esperto del settore.
Assai prevedibilmente, a partire da simili osservazioni, più di un medico umano pensò di trasferire la cura nell’ambito delle persone. Non esiste online una cronistoria particolarmente antica della consumazione umana di carbone, con il primo esempio documentato nell’Inghilterra del XIX secolo, quando il testo The Retrospect of Practical Medicine and Surgery (1859) consigliava ai pazienti affetti  da problemi gastrointestinali di assumere delle speciali tavolette da 648 mg della legnosa e bruciacchiata sostanza. Negli anni successivi non si trovano ulteriori notizie, a dimostrazione del fatto che si trattasse di una pratica poco diffusa. Quindi nel romanzo di romanzo di Evelyn Waugh Ritorno a Brideshead (1945) il protagonista Charles Ryder viene descritto mentre prende il caffé ad Oxford, accompagnando l’importante rituale con biscotti a base dell’insolito e, possiamo soltanto presumere, non gradevolissimo ingrediente. Il principale medico contemporaneo ad aver sperimentato su larga scala l’impiego del carbone a scopi medicinali è stato quindi l’italiano Desiderio Passali, già presidente della Società Italiana di Otorinolaringoiatria (1994–1996) nonché importante promotore di cure e metodi sperimentali. Si è così giunti alla conferma del carbone attivo, in soluzione di sorbitolo, come sostanza medicinale riconosciuta.

La cura dell’avvelenamento mediante l’impiego di carbone, anche se non ancora diffuso in tutti i campi della medicina umana, è largamente accettato in veterinaria. Si ottengono ad esempio, in genere, degli ottimi risultati somministrandolo ai cani che hanno mangiato sostanze tossiche, i quali raramente rifiutano tale medicinale, guidati da loro istinto innato.

Tutto quello che resta dunque da determinare, è quale particolare commistione di fattori abbia portato l’elefante di Mysore osservato, e registrato dal Dr. Goswami, ad assumere un comportamento tanto logico sebbene raro nella sua categoria. È realmente possibile, che una creatura tanto grande avesse assunto una tale quantità di sostanze velenose da richiedere un auto-trattamento a base di carbone? O si tratta piuttosto di una forma di svago per l’animale, effettivamente comparabile a quella di chi aspira e butta fuori il fumo prodotto dal tabacco delle migliori qualità?
Alcuni misteri, prima di essere svelati, necessitano imprescindibilmente di una pluralità di attestazioni, da mettere a confronto ed osservare nei dettagli grazie allo strumento della mente clinicamente informata. Oppure, perché no, una sufficiente quantità di còlobi digitalizzati, che sghignazzando enunciano l’uno sull’altro le proprie discordanti opinioni. E direi che su Internet, in questo, siamo già sulla buona strada. Come potrebbe affermare lo stesso Shakespeare, leggendo il seguito dell’Amleto. Prodotto, tra lo stupore generale, battendo a caso sulla tastiera.

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