Il difficile destino del castello di Sammezzano

“L’Italia è in mano a ladri, esattori, meretrici e sensali che la controllano e la divorano. Ma non di questo mi dolgo, bensì del fatto che ce lo siamo meritato.” Se voi sentiste il bisogno di trasmettere ai posteri un simile messaggio, dove lo scrivereste? All’interno di un libro, magari. Ma i testi di argomento politico tendono ad essere letti solamente da chi già la pensa a quel modo. Nel mondo moderno, forse, qualcuno affitterebbe uno spazio pubblicitario, su Internet o un semplice cartellone, affinché gli effettivi protagonisti di una simile affermazione, volenti o nolenti, vengano a patti con la sua esistenza. E poiché la pubblicità è forte, ma effimera, un simile gesto diventerebbe l’argomento della giornata. Prima di svanire come neve, al verificarsi di un successivo scandalo sotto al Sole. No, probabilmente, l’unico modo certo per assicurarsi che resti è scriverlo in modo indelebile sopra un muro. Ricoprendo col proprio astio una struttura che appaia, agli occhi di chi dovesse passare in futuro di lì, eterna e immutabile, persino degna di rappresentare un’Era. Così Ferdinando Panciatichi Ximenes d’Aragona, fiorentino e uomo del Risorgimento, figura politica, scienziato, botanico, imprenditore e bibliofilo (non laureato) scelse nel 1853 di farselo costruire, questo muro. Ed attorno ad esso uno stretto corridoio decorato con stalattiti. Con all’estremità, una vasta sala da ballo bianca circondata da 24 colonne con capitelli, il soffitto decorato da un centinaio di fregi astrali e il pavimento in grado di far zampillare l’acqua, se necessario. E tutto attorno a questo, un’intero castello in stile marcatamente orientalista, di cui l’intero paese non avesse mai visto l’eguale. Certo, per quanto fosse un uomo che era giunto ad odiare i suoi contemporanei ed il proprio difficile lavoro presso la Camera dei Deputati, nella Firenze capitale di Marco Minghetti, uomo di destra ed opposto a lui politicamente, sarebbe riduttivo limitare l’opera della sua vita al semplice veicolo di un singolo velenoso messaggio. Eppure tutto, nella vasta struttura del Castello di Sammezzano, sembra in qualche modo parteciparvi: la scelta di andare a vivere in quella che era e in parte resta aperta campagna, presso la frazione Leccio del comune di Reggello. Che differenza, con la posizione privilegiata del palazzo di Borgo Pinti a Firenze, angolo con Via Giusti, dal quale non era possibile uscire senza incontrare proprio coloro di cui Panciatichi aveva una tale risibile opinione! E poi, c’è la già accennata questione dello stile scelto per rinnovare l’antica residenza, proprietà della famiglia Ximenes d’Aragona dal 1605, nella quale lui era entrato tramite il matrimonio, e in cui ogni singola pietra, ogni anfratto o decorazione, sarebbero ben presto diventati un metodo per evocare il luogo geografico più distante che gli riuscisse d’immaginare: la terra d’Oriente, o forse sarebbe più giusto dire, l’evanescente paese creato dallo spettro di un sogno, trasformato in materia tangibile e apparente.
Il castello di Sammezzano viene generalmente descritto come un esempio di architettura moresca italiana, benché le influenze siano in realtà ancor più eclettiche e varie. il committente che in larga parte, fu anche progettista, lo fece in effetti disseminare d’influenze indiane, persiane e persino dell’Asia orientale, includendo per buona misura nel processo di rifinitura una vasta serie d’epigrafi in latino. Qualcuno, inoltre, ha ipotizzato un’attenzione riservata all’inclusione di simboli e proporzioni massoniche, come la ricorrenza della forma geometrica del triangolo perfetto, anche se, per lo meno ufficialmente, lui non entro mai a far parte di tale confraternita. Né viaggiò mai, e forse proprio questo è l’aspetto più interessante, nell’Oriente che tanto amava. Che aveva avuto modo di conoscere, piuttosto, attraverso i libri che amava e le sue visite ai principali musei d’Europa, nonché un occhio della mente straordinariamente sviluppato. Mentre coloro che incaricò di ricostruirlo per il suo maggior piacere, incredibile a dirsi, erano tutte maestranze di provenienza locale. Personalmente istruite sui metodi e la ricerca estetica dei loro colleghi dell’altra parte del mondo, da un uomo che certamente non doveva essere privo di un certo grado di carisma, ma soprattutto, disponeva di pecunia pressoché illimitata. Così prese forma, in questo luogo che era appartenuto in precedenza agli Altoviti e poi ai Medici, ma che ancor prima, secondo alcune versioni, era stato visitato addirittura da Carlo Magno in epoca medioevale, la visione di un mondo nuovo, il Prodotto della sua fantasia. L’edificio fu ricostruito come una sorta d’esperienza sensoriale, a partire dalla doppia scalinata ritorta, sotto la torre dell’orologio, che conduceva nel’appariscente foyer. All’interno del quale, tra stucchi e decorazioni di gesso straordinariamente variopinte, campeggiava la scritta di tutt’altra modestia NON PLUS ULTRA, incorniciata da greche e figurazioni geometriche di vario tipo. Per poi proseguire, avanzando di qualche passo, nella sala cosiddetta delle stelle, ispirata alla Spagna meridionale, dove un complesso sistema di oculi (finestrelle circolari) proiettavano giochi di luce tra colonne e candidi rosoni vagamente arabeschi e la scritta in bassorilievo NOS CONTRA TODOS e TODOS CONTRA NOS, anch’essa in grado di cambiare d’aspetto a seconda dell’ora della giornata. Ma le meraviglie del castello, ovviamente, non finivano qui…

Una delle sale più famose di Sammezzano è quella cosiddetta dei pavoni, vagamente ispirata a taluni ambienti dell’Alhambra di Granada, ma con una scelta cromatica che potrebbe venire dalla Cina della dinastia Ming. Le decorazioni degli archi e della volta sono realizzate in legno dipinto.

Da lì si accedeva quindi al succitato salone da ballo, ricoperto da una cupola anch’essa bianca e dotata di 47 colonne di sostegno, sulla quale alcuni cartigli scolpiti elencavano le virtù in latino Misericordia, Clementia, Temperantia, Fortitudo, Prudentia, Pax, Libertas e Justitia. Da un piano sopraelevato un enseble musicale avrebbe potuto allietare le danze degli ospiti sottostanti, benché venga naturalmente da chiedersi quanti grandi ricevimenti possa aver dato un personaggio dalla psicologia come quella sopra descritta, il cui amore più grande era per particolari aspetti della vita, di cui presumibilmente la vita sociale non avrebbe costituito la parte dominante. Dal salone centrale, quindi, si apre un’altra serie di ambienti, ciascuno dotato di caratteristiche o doti particolari. La sala del fumo, ad esempio, è stata costruita con un particolare sistema di prese d’aria sul soffitto che avrebbero trasportato via le emanazioni dei tabagisti sottostanti, tramite un innovativo sistema di tiraggio concepito da Panciatichi in persona (completo di iscrizioni in finto alfabeto cufico arabeggiante, con altri termini latini dal significato non del tutto apparente). Mentre quella delle farfalle (o degli specchi) presenta un soffitto decorato con la soluzione mediorientale delle muqarnas, elementi simili a stalattiti. Ritrovata quindi nel corridoio che gira attorno a tutto questo sfarzo, di nuovo policromo, di nuovo colmo d’iscrizioni ed epigrafi varie, come: “O voi ch’avete l’intelletti sani mirate la dottrina che s’asconde sotto il velame degli segni strani.” In questo caso, la versione lievemente modificata di una terzina dell’inferno dantesco. Fuoco e fiamme, punizione divina! La più atroce delle sofferenze: venire dimenticati. Riuscite a crederci, viste le premesse?
Come da dichiarazione programmatica del soprastante titolo, veniamo dunque all’odierna condizione di questo luogo. Che sarebbe ragionevole pensare, vista la sua unicità ed antichità, debba essere tenuto in palmo di mano dalle istituzioni, ed essere visitato quasi quotidianamente da una schiera infinita di turisti provenienti da ogni regione del mondo. Dovrebbe, ma non lo è. Questo forse perché, come avrebbe indubbiamente convenuto lo stesso Panciatichi, finché una cosa è simile viene preservata assieme alle altre, con il minimo impegno procedurale. Mentre quando è diversa, richiede uno sforzo più sincero e profondo. Il castello di Sammezzano, passato dopo la sua dipartita in tarda età alla figlia Marianna, studiosa di uccelli e conchiglie, fu quindi ereditata dai nipoti, e poi venduta nel 1955 ad una società privata, che nominalmente lo possiede ancora. Trasformato negli anni ’70 in hotel e ristorante, il grandioso palazzo fu quindi lo scenario d’innumerevoli feste e memorabili matrimoni, prima che gradualmente, il gravoso costo di restauro e mantenimento fosse giudicato eccessivo. Quindi, molto gradualmente, ha iniziato la sua lenta ma inesorabile discesa verso l’assoluta rovina

Il Leon Solingo, cortometraggio con la regia di Antonio Chiavacci e l’interpretazione di Bruno Santini, mirato ad espletare una breve, ma puntuale analisi di questo insolito personaggio. Lo strumento drammatico del monologo, enunciato in chiara ed assoluta solitudine, appare più che mai utile a questo scopo.

Il primo e più terribile affronto l’avrete forse notato durante le riprese via drone, mostrate in apertura dell’articolo: le rovine di un centro commerciale che era stato previsto e poi abbandonato negli anni ’70, pericolante e grigiastro, eretto a poche centinaia di metri dal castello e immediatamente antistante al suo terreno, in cui Panciatichi aveva fatto collocare piante rare ed un certo numero di sequoie nordamericane, alte più di 35 metri. Ma purtroppo non finisce qui: come altri luoghi magnifici ed abbandonati, Sammezzano è stato più volte visitato e danneggiato da saccheggiatori di vario tipo, che negli anni hanno danneggiato finestre, lampioni e persiane. Nel 2005 dal sepolcreto della famiglia, posto a lato dell’edificio, è stato rubato un leone di terracotta del 1887, sul quale Internet riporta l’esistenza di “un’antica maledizione” in grado d’indurre una paralisi progressiva e letale. Non è ben chiara l’origine di questa leggenda, attribuita ad una non meglio definita fattucchiera (benché in effetti, se compi un simile furto, peste ti colga! O no?)
In tempi più recenti, la situazione del castello è diventata ancora più complessa. Rigorosamente chiuso alle visite tranne che per alcune su prenotazione ed a numero chiuso, generalmente due l’anno ad opera dell’associazione culturale Comitato FPXA, ha visto cessare anche questa rara serie d’opportunità dopo l’ennesimo tentativo di venderlo all’asta, con questa volta, grazie allo strumento realmente universale di Internet, il palesarsi di un compratore: la compagnia araba Helitrope Limited, per l’insignificante cifra di 15 milioni di euro. Se non che dopo il deposito dell’assegno presso il notaio incaricato, si è palesata una realtà giuridica inaspettata: l’esistenza di una società che aveva rilevato in precedenza tutti i debiti della Sammezzano srl, e che ora, avrebbe diritto al possesso di questo bene architettonico dall’enorme valore potenziale. Risale giusto al finire di giugno dunque la sentenza del tribunale di Firenze, il quale dopo aver annullato la vendita agli arabi, ha rimandato la decisione finale in appello ad ottobre, quando finalmente si conoscerà il fato ultimo della reggia quasi, eppure mai del tutto dimenticata. Fortunatamente i diretti interessati, la compagnia Kairos nata da una sinergia toscana locale con fondi d’investimento inglesi, si è già detta interessata ad un’opera completa di restauro, mirata alla riapertura pubblica della struttura. Eppure fatto strano, sul sito Asteimmobili.it il castello è ancora presente ed in vendita, con tanto di planimetria in PDF, documentazione notarile completa ed un prezzo assolutamente invariato. Chi può dire se avremo modo di sperimentare altri incredibili colpi scena…

Per chi desiderasse approfondire, una delle rare visite complete al castello è stata registrata e pubblicata su YouTube dall’utente Edoardo Pratelli. Il lungo video offre in virtuale un’opportunità che materialmente, forse, non ci verrà mai offerta.

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