Quanto è armato l’uomo più armato degli Stati Uniti?

Gestire un museo delle armi da guerra non affatto semplice, qui da noi in Europa. Indipendentemente dal paese di provenienza, occorrono permessi particolari, uno spazio sicuro guardato a vista 24 su 24, la garanzia di aver effettuato operazioni di disarmo e disinnesco su tutti gli ordigni e le munizioni di maggiore pericolosità. Osservate, per comparazione, l’opera della vita di Mel “Dragonman” Bernstein, il proprietario della Dragonmans Firearms, la più incredibile commistione di poligono di tiro, pista da motocross, spazio espositivo ed arena da paintball, che ospita nel suo capannone sito non troppo lontano dalla città di Colorado Springs fucili, mitragliatrici, granate, bombe aeronautiche, mezzi d’assalto, carri armati… Un personaggio dall’eloquenza ed il fascino certamente singolari, che in questo tour di circa 20 minuti recentemente girato con l’aiuto di suo fratello e pubblicato sul canale YouTube – Hot Brass and Bullets, non fa che riconfermare quanto molti di noi avrebbero sospettato: “La vedete questo cannone anti-carro, questa cassa di munizioni? Niente di tutto questo ha lo scopo di fare scena. È tutto carico e pronto all’uso” (Ready-To-Go). La ragione per cui ciò è possibile va ricercata primariamente nell’aspetto normativo dell’intera questione, e nel particolare funzionamento delle leggi federali sulle armi vigenti negli interi Stati Uniti. Esistono 11 diversi tipi di licenze che possono essere concesse ai proprietari seriali d’implementi bellici, generalmente legate ai diversi tipi di attività commerciali legate ad esse (riparatore, banco dei pegni, importatore, produttore…) e tra queste, una delle più flessibili è quella di tipo 3, pensata per i collezionisti di pezzi storici e “curio” ovvero letteralmente, chincaglieria. Questo perché con l’atto sulle armi da fuoco del 1986, approvato durante la presidenza di Ronald Reagan in risposta al pericolo d’infiltrazione sovietica, è stato grandemente limitato il commercio alla popolazione civile di armi automatiche e dall’alto potenziale distruttivo, fatta eccezione per quelle ricevute in eredità, d’importanza o valore storico, o connesse per l’appunto ad un’attività comprovata di divulgazione archeologica a vantaggio della popolazione. E non credo che nessuno possa negare, in effetti, la valenza notevole del museo di quest’uomo, a meno di scegliere coscientemente di rinnegare il valore della cultura bellica e tutto ciò che ne deriva. Ma ciò potrebbe derivare soltanto da una profonda ammissione di disonestà intellettuale, nevvero? Tanto più assurda, in un paese che della venerazione per le armi e ciò che rappresentano, ha fatto un distintivo e un tratto di riconoscimento, spesso indossato con orgoglio da entrambi gli schieramenti politici che si succedono al comando del paese. Chi non ricorda, a tal proposito, la famosa frase dell’ammiraglio Isoroku Yamamoto durante la seconda guerra mondiale, il quale affermò: “Non ci sarà mai possibile invadere il suolo degli Stati Uniti. Troveremmo un fucile nascosto dietro ogni singolo filo d’erba.”
È una visione del mondo che si evolve attraverso le decadi, pur restando costante attraverso la storia di quelle terre: la cognizione dello stato di pericolo costante che deriva da possedere un qualcosa, ed il bisogno che ne deriva di proteggerlo ad ogni costo, anche a costo di doverlo fare da soli. Quel qualcosa, naturalmente, è la Libertà. Ogni eventuale retrospettiva non può che riconfermare tale affermazione: ci provarono in molti, a forare questa scintillante stella appuntata sul bavero dello sceriffo. Da principio gli inglesi, durante l’epoca del colonialismo e del residuale diritto divino, non ancora disperso dai lumi della rivoluzione. Quindi la terza parte dell’Asse, cavalcando l’onda del Pacifico su poderose portaerei. Seguiti dall’alleato scomodo dell’Unione Sovietica, trasformatasi negli anni della guerra fredda in un sincero e profondo affronto verso l’eredità stessa dei Padri Fondatori. Durante gli anni oscuri di una tale epoca nacque, inevitabilmente, un’intera mitologia moderna attorno a una nube dell’incombente disastro, legata agli avvistamenti degli UFO, le cospirazioni dei rettiliani, la cognizione di un paese pieno di mostri e creature misteriose. Mentre osservate, per comparazione, l’onnipresente figura odierna dello zombie d’ispirazione afro-caraibica: un morto senza cervello, senza soldi o particolari prospettive. A suo modo, ancor più temibile di qualsiasi testone Grigio fornito di sonda anale. Perché affetto da una malattia per la quale l’unico antidoto possibile è una generosa dose di piombo, somministrata a distanza con il maggiore calibro a disposizione in base al momento corrente. E si, a scanso di equivoci: di bersagli a forma di zombie Mr. Dragonman ne possiede parecchi nella sua area dedicata alla prova pratica dei reperti meno rari e delicati. After all, è proprio QUELLO che piace ai giovani d’oggi, giusto?

Dragonman, che è anche un appassionato di motociclismo, possiede un mezzo che fa onore al suo nome: un chopper costruito su misura, con testa di drago lanciafiamme e due mitragliatrici (ovviamente, funzionanti) montate sopra il manubrio. Un’invenzione degna del migliore Mad Max.

Basta osservare brevemente il filmato d’apertura, del resto, per comprendere come costui faccia sul serio. Ovvero, la sua proposta al pubblico sia veicolata da una sincera opera di ricerca, mirata a ricostruire i diversi periodi storici ed offrire uno sguardo diretto alle armi che li hanno caratterizzati. Oltre la stanza del sancta-sanctorum coi pezzi migliori, dove egli ama farsi intervistare, inizia lo spazio dedicato ai conflitti del ‘900, con un’intera schiera di manichini dotati di uniformi statunitensi ed elmetti, casse di munizioni, maschere a gas. In un angolo, dietro una fila di sacchetti di sabbia, campeggia con il suo grande cilindro di raffreddamento una Vickers inglese, forse l’arma più iconica dell’intera grande guerra. C’è anche un camion della Studebaker degli anni ’40, forse impiegato un tempo per trasportare le truppe la fronte e diverse mitragliatrici anti-aeree, puntate alquanto appropriatamente verso il soffitto del capannone. Quasi per caso, poco prima di andare oltre, l’uomo ci mostra una sfavillante bomba da 450 Kg, identica “A quelle sganciate su Hanoi” quindi aggiunge: “Qui ne abbiamo parecchie. Al napalm, a grappolo… Ma questa qui è speciale, perché non è mai stata tirata fuori dall’involucro originale. È una bomba NUOVA.” Strani parallelismi coi collezionisti dei personaggi di Star Wars o i vari supereroi…
Terminata la visita del primo ambiente, veniamo invitati all’interno del “bunker” una fedele ricostruzione di quella che potrebbe essere stata la vita al fronte durante le ultime fasi della seconda guerra mondiale. Di nuovo, campeggiano manichini ma questa volta atteggiati in gestualità realistiche, come puntare le proprie mitragliatrici all’indirizzo di un nemico che non arriverà mai. Interi cumuli di pallottole (tutte rigorosamente Ready-To-Go formano cumuli ai loro piedi, denunciando l’imminenza di una situazione di crisi impellente o appena trascorsa. Vecchie foto d’epoca alle pareti aggiungono suggestione all’idea. La quantità e varietà di scatole, pentole, baionette, vestiti appesi e gettati a terra, fucili accatastati un po’ ovunque… Fanno quasi pensare alla versione bellica del magazzino di un hoarder, la persona che tiene tutto semplicemente perché ritiene, a torto o a ragione, di potersi permettere di farlo. Non che nello specifico caso, a nessuno verrebbe mai in mente di progettare un intervention liberatorio, come nella celebre serie della A&E. Continuando a girare nell’area centrale del museo, Dragonman commenta alcuni dei suoi pezzi preferiti: “Questa è un’M60, può sparare 650 colpi al minuto. E questo… È il mio carro armato russo da 40 tonnellate, venne impiegato contro i nazisti durante la WW2” Anche se in effetti, non possiamo fare a meno di notarlo, si tratta di un T-54/55 prodotto dall’Unione Sovietica a partire dal 1947. Non ci è andato poi così lontano e con un tale nugolo di reperti, sbagliare ogni tanto è umano. Meno male! Un’altra selezione di bombe ottiene il commento distratto del padrone di casa: “Queste sono piuttosto comuni, devo averne un migliaio sparse in giro. Quest’altra invece è difficilissima da trovare. Per fortuna, ne ho trenta.”

Un visitatore di Fox News viene accolto da Dragonman nel nexus del suo museo e riceve l’occasione di maneggiare alcune mitragliatrici “leggere”. Ma la mancanza di massa muscolare, nel suo caso, si fa purtroppo sentire. Ah, la cara vecchia palestra di una volta!

Un altro minuto, altre due stanze. Ce n’è una dedicata agli anni ’60/70 ed alla guerra nel Vietnam, con tanto di distributori di Coca-Cola ed altre amenità della vita civile. Dopo tutto, tutti questi soldati dovevano pur svagarsi, no? E poi quella seguente, decisamente più inquietante, dedicata al nazismo in ogni sua forma ed espressione tecnologica. Qui la quantità e varietà di armi è decisamente inferiore (dopo tutto, stiamo parlando di reperti distanti nel tempo e nello spazio) e i pezzi migliori si trovano dietro vetrine di sicurezza. Tra cui la fibbia-pistola di riserva in dotazione ad alcuni ufficiali delle SS, resa famosa da un video del canale Forgotten Weapons nonché la sua comparsa in un memorabile episodio del cartone animato giapponese Black Lagoon. Certo sarebbe difficile non notare, in questo ambiente, la profusione di svastiche ed altri emblemi certamente appropriati dal punto di vista storico, ma anche apprezzati da particolari sottoculture che in effetti, potrebbero anche costituire una parte significativa della clientela di Dragonman.
Tutto questo, alla fine, potrebbe anche far sorgere una domanda: quanto vale una collezione simile? Lo stesso proprietario, in video ed interviste precedenti, azzardava una stima in grado di aggirarsi sui 10 milioni di dollari. Che in effetti, fa piuttosto impressione. Soprattutto considerato come si tratti di un valore accumulato attraverso anni ed anni di collezionismo, grazie una costante attenzione ai dettagli e all’aiuto amministrativo della compianta moglie di oltre trent’anni Terri Flanell, deceduta nel 2012 per un incidente con un fumogeno, durante le riprese del primo episodio del reality show del marito. Evento a seguito del quale Mel “Dragonman” Bernstein, di discendenza ebrea, perse anche i suoi genitori ed un figlio, che si era ammalato di cancro. Duramente colpito dagli eventi, tentò allora di riallacciare i rapporti con il resto della sua famiglia e gli altri sette figli e figlie avuti da due matrimoni differenti. Ma almeno a giudicare dalla testimonianza lasciata da una di loro sul forum Elite Firearms & Training, l’operazione non avrebbe avuto l’esito sperato. Risentendo forse della gravosa condizione di chi, dominato da una passione totalizzante, fa necessariamente fatica a restare all’interno di un ruolo predeterminato, come quello del genitore? Difficile dirlo. Di sicuro, visto dall’esterno, quest’uomo non sembra il tipo di persona disposta a scendere a compromessi. Con la correttezza espressiva del liberalismo statunitense, con la ragionevolezza di una quantità “sufficiente” di armi, neppure con la storia dei passati conflitti bellici. Il messaggio è: ciò che spara, merita rispetto. E lui ne spara, ne spara tantissime…

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