La Bestia di Torino fa tremare la campagna inglese

Beast of Turin

Un’automobile stavolta, ma con il motore più imponente della storia. Preso come niente fosse da un comune dirigibile e montato lì, sopra quattro ruote dalle dimensioni più appropriate ad una moto. La brughiera è sempre stata piena di leggende su mastini della notte, creature indissolubilmente legate a questo o quello stemma nobiliare, eterne persecutrici dell’antico sangue. Ne parlò per primo Sherlock Holmes, con la sua indagine sull’infame maledizione dei Baskerville, per mille volte riproposta nelle sale cinematografiche di molte ere, ringhio canide e occhi di brage fiammeggiante. Ma forse nessuno, tra gli appartenenti a simili famiglie, ricevette mai la visita di un mostro come questo. Per 104 anni sopito in qualche sotterraneo, le catene della trasmissione tintintinnanti giù nel buio e nel silenzio, la sua voce un tempo tonante, già dimenticata. Il veicolo perfetto. L’imponenza spropositata del desiderio di primeggiare ad ogni costo, sopra un record che era stato appena agguantato dai tedeschi. Una fame senza precedenti. La fierezza di quel periodo e un mondo tecnologico che ha nome Italia, puramente futuribile e già quasi Futurista. La Fiat S76 Record, dal nome comune più affine a quello del cattivo di una piéce teatrale, l’alto cofano col radiatore a pera, oltre 28.000 centimetri cubi (venti-otto-mila) di cilindrata per 1.650 Kg di peso, l’equivalente motoristico di un ariete per l’assedio di Costantinopoli, quando ancora i barbari correvano da un lato all’altro di spauriti continenti. È un veicolo davvero senza precedenti, ma cosa altrettanto rilevante, neanche successori, quello che qui vediamo pilotato da Charles Gordon-Lennox, Earl di March e di Kinrara, nel grazioso giardinetto prospiciente casa sua. O per meglio dire, la tenuta del suo mirabile castello, al quale mancano gli armigeri ma non di certo, i draghi. Perché lui seppe ricercarseli con gioia e un dispendio motivato degli ingenti capitali, quella che l’ha portato, dall’ormai remoto 1993, un evento che seppe subito imporsi nell’ampio e variegato panorama delle commemorazioni motoristiche. Una passione che accomuna la fredda Inghilterra al caldo sole della nostra penisola mediterranea: stiamo parlando, per intenderci, niente meno che del celebre Godwood Festival of Speed, dal nome del maniero che costituisce poi il suo punto di partenza, una gara in salita per macchine dell’epoche trascorse, fatta seguire da sfilate, mostre e gran concorsi di bellezza delle cromature. Vera e propria festa annuale del carburatore, rigorosamente collocata la fine di giugno e l’inizio di luglio, per evitare di sovrapporsi alla stagione della F1, altro sacro passatempo di questo titolato discendente dell’antica elite britannica, simbolo di estrema eleganza e grande dignità.
Perciò eccolo, capelli al vento, assieme all’attuale proprietario dell’unico esemplare funzionante dell’automobile, l’ingegnere meccanico di Bristol, Duncan Pittaway mentre fuoriesce brevemente dagli schemi designati, trascinato verso l’entusiasmo di un bambino. E come biasimarlo? Le mani ben strette attorno a quel volante leggendario, gli occhi fissi innanzi, sulle curve leggiadre della sua tenuta, casualmente fiancheggiate da un fagiano e qualche pecora, perché diciamolo: la natura ha sempre il suo fascino immanente. Persino dinnanzi alla furia sregolata dell’irraggiungibile tecnologia.

Della Bestia di Torino si è parlato molto, alla sua epoca anteguerra, quando i film erano muti ed i campioni di guida, coraggiosi scavezzacollo disposti a rischiare la vita su pionieristiche invenzioni, già in grado di raggiungere velocità notevoli, eppur prive delle sicurezze successive. Il primo record di velocità su strada, almeno che fosse stato registrato in quanto tale, risaliva ormai alla fine del XVIII secolo ed apparteneva rigorosamente all’àmbito dei veicoli a vapore, da quando il conte Gaston, fratello minore del marchese de Chasseloup-Laubat, fondatore della compagnia veicolare francese di Jeantaud, si cimentò nell’ardua tenzone. Fu lui a raggiungere sopra una strada deserta vicino Parigi la velocità per i tempi assolutamente sconvolgente di ben 65 Km/h. Da allora, osservando il successo di pubblico ottenuto al seguito di una tale rischiosa impresa, furono in molti ad impegnarsi nel superamento della tappa d’eccellenza risultante.
Pochi anni dopo, nel 1906, l’epoca del vapore finì bruscamente, soppiantata dalla nascita dei veicoli basati sul carburante diesel e poi infine, la benzina. La Jeantaud non seppe reinventarsi e fallì pochi anni dopo. Così nel frattempo emergevano le nuove stelle di quel panorama, tra cui altri due nomi destinati a fare strada: Hans Niebel e Friedrich Nallinger.

Blitzen Benz
La Blitzen Benz vedeva l’applicazione già di molte delle soluzioni tecniche che sarebbero state della Fiat S76, ivi incluso l’impiego di un numero di soli quattro cilindri nel motore, ma ciascuno grande approssimativamente quanto una pentola per far lo spezzatino.

La loro Blitzen Benz, vettura risalente al 1911, fu la risultanza collaterale di un’altra tendenza tecnologica di allora: l’aviazione. In un’epoca in cui le rotazioni di un motore erano limitate da capacità metallurgiche non ancora allo stato dell’arte, l’unico modo per potenziare un motore diventava farlo più grande. Impresa tutt’altro che impossibile nel caso dei velivoli che avrebbero connotato il capitolo più rinomato dell’incipiente prima grande guerra, quei pericolosi mezzi che sarebbero stati elogiati da Dannunzio o ancora prima, esemplificati dal doppio tripla-ala del temuto Manfred von Richthofen, alias il Barone Rosso. Ma poiché i loro spaventevoli implementi di propulsione, ciò che conduceva verso il cielo un nuovo tipo di guerriero, erano generalmente riscaldati a liquido e non, come avviene più di frequente oggi, grazie all’aspirazione naturale dell’aria d’alta quota, montarli su un mezzo di terra era difficile, ma niente affatto impossibile. Bastava avere la capacità tecnica e il desiderio di primeggiare, nella competizione senza tempo di chi fosse il più veloce produttore di…Qualsiasi cosa, con le ruote o senza. Quest’ultima branca dell’ingegneria, di certo, già percorsa da molti eminenti costruttori, fin da quando le bighe correvano nel Circo Massimo di Roma.
Karl Benz, il fondatore e primo direttore della compagnia che sarebbe stata successivamente fusa con la Mercedes, era un conservatore rigoroso che non amava le eccessive spettacolarizzazioni. Sotto il suo comando, la pur rinomata azienda tedesca partecipò a pochissime gare di velocità, proiettando le sue competenze piuttosto nei campi ancora giovani della sicurezza e l’affidabilità. Fu soltanto dopo il suo pensionamento, con il subentro delle due personalità già brevemente citate di Niebel e Nallinger, che si giunse a un compromesso con il desiderio estremamente umano di vedere il proprio nome iscritto nel Guinness dei Primati. La loro creazione assurse presto ai fasti della storia motoristica, raggiungendo presso una strada di Daytona Beach la spaventevole velocità di 228 Km/h. Ciò bastante a dimostrare, senza ombra di dubbi residui, che era giunta l’ora di abbandonare definitivamente l’antica strada del vapore. Il futuro erano le trivelle, tutte quelle trivelle piantate giù verso la linfa del Pianeta.

Beast of Turin 3
Nel documentario di Stefan Marjoram in uscita nei prossimi mesi “The Beast of Turin” si narrerà della complessa rinascita di questa mitica automobile, ricostruita quasi integralmente nell’officina di Duncan Pittaway nel corso di diversi anni di lavoro.

Il che ci porta verso la fine dello stesso anno, quando la nostra Fiat, allora sostenuta da numerose piccole fabbriche nei dintorni di Torino (l’iconico complesso del Lingotto sarebbe stato completato solamente tre anni dopo) decise che era giunto il momento di imporsi parimenti sulla scena internazionale, tramite lo stesso artificio scelto dalla Benz. Il che, incidentalmente, vista la natura di questo settore, voleva dire stracciare il traguardo dei predecessori, con una creazione che fosse al tempo stesso più grande, più potente, ancora più fragorosa e rumoreggiante.
Così nacque attraverso una lunga fase di progettazione la Bestia, per il lavoro di creatori specifici oggi largamente ignoti, almeno al catalogo di nozioni del web, ma forse proprio così maggiormente rappresentativi dell’impegno collettivo di quella che potrebbe dirsi l’azienda stessa e invero addirittura, l’intero paese di chi già seguiva simili racconti leggendari. La soluzione scelta fu del tutto sorprendente: piuttosto che impiegare un semplice motore d’aeroplano, come fatto dai tedeschi, il veicolo italiano ricevette l’ausilio di un vero e proprio propulsore da dirigibile, un attrezzo tanto imponente da riuscire ad erogare ben 290 cavalli di potenza, contro gli “appena” 200 della controparte. Cifra tutt’altro che trascurabile, persino oggi, benché naturalmente limitata dal peso veicolare di appena una tonnellata virgola sei, per iperbole paragonabile a quello di un mini-carro armato. Ma sarebbe poi davvero bastato, questo, a limitare la sua corsa verso il mitico traguardo del record assoluto di velocità su ruote?

Beast of Turin 2
Esistevano soltanto due esemplari del Mostro di Torino, il primo dei quali venne smontato dopo il sopraggiungere della prima guerra mondiale, affinché il nemico non potesse rubare i segreti della Fiat. Il secondo, stando alla leggenda, fu acquistato dal nobile russo Boris Soukhanov e poi trasportato fino in Australia. Sarebbe quindi proprio questo prezioso mucchio di metallo, riacquistato e ricostruito dall’ingegnere inglese di Bristol, il protagonista del video d’apertura.

Questo video d’archivio, naturalmente privo di audio come si confà ai reperti di quell’epoca, non ha dubbi: nel 1913 la FIAT 300 HP raggiunge la velocità di 211 Km/h sul rettilineo della pista belga di Ostenda, con al volante il francese Arthur Doray, stabilendo un record assoluto di velocità. La storia, in realtà, è parecchio più complessa: innanzi tutto perché, come dicevamo, l’automobile tedesca aveva già fissato un primato superiore di circa una decina di Km/h, totalmente ignorata dal cinegiornale coévo. E poi perché, in effetti, la velocità massima del Mostro di Torino non fu mai registrata, per problemi tecnici attribuibili agli ospitanti dell’evento in Belgio. Pare infatti che l’exploit fosse condizionato dagli orari di un certo tram, che correva parallelo alla pista, e che la super automobile non avrebbe potuto tentare di superare il record finché quest’ultimo non avesse completato la sua corsa. E poiché il conducente, per ragioni certamente giustificate dai dettami e le procedure di allora, si rifiutò di anticipare l’orario del suo turno operativo, il numero di tentativi concessi ufficialmente al team Fiat furono grandemente ridotti, permettendo di registrare la velocità massima qui citata, purtroppo inferiore a quella del record precedente. Venne quindi l’ora di cena, e l’opportunità passò. Pare comunque che, secondo registrazioni effettuate con il cronometro da alcuni dei presenti, il rosso fulmine italiano avesse superato, in assenza dei giudici di gara, addirittura i 225 Km/h. La veridicità di questo fatto, purtroppo, è già andata persa nelle pieghe della storia.
O forse no? Mancano in fondo pochi mesi. Al momento in cui Duncan Pittaway, già mostrato assieme al lord di Godwood sul sedile magnifico da lui rimesso assieme, tenterà di nuovo l’impresa del secolo scorso, sotto gli occhi appassionati dell’intero gotha dell’automobilismo d’epoca britannico. Forse sarà proprio la riuscita o il fallimento della sua impresa, a decretare chi avesse ragione in questa ennesima ed ormai antica rivalità tra Italia e Germania, che odora di gomma bruciata e incredibili speranze di un futuro futuribile infuriato, forse dopo tutto, mai arrivato. Già mi pare di sentire le scuse accampate dai vecchi avversari: “CHIARAMENTE non vale più, perché l’auto è stata MODIFICATA, e poi…”

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