Dodici. Esattamente dodici luftschraube, ciascuno dotato di sternförmig accoppiato, rispettivamente, con la sua controparte rotativa in configurazione di spinta o trazione. E se la risposta a questo enigma può sembrare un mero passatempo dalla terra di Germania, è solamente perché il mondo, suo malgrado, ha finito per dimenticare quello che noi stessi italiani definimmo il primo ed ultimo “idrogigante” nella storia dell’aviazione. Il Dornier (dal nome del suo inventore) Do X, senz’altri appellativi né soprannomi, costituendo in tal modo massima espressione dell’assoluta compostezza d’intenti, funzionalità e valore progettuale oggettivo. E questo nonostante il senso della propaganda, in se stesso, fosse destinato a costituire fin dall’inizio una ragione d’esistenza primaria di questo titano da 53 tonnellate, con 48 metri di apertura alare. Fin da quando, in un momento imprecisato negli anni tra il 1924 e il giugno 1928, data di decollo del prototipo, l’allievo ed aiutante del grande Ferdinand von Zeppelin riuscì ad interessare il Ministero dei Trasporti del Reich, ottenendo il finanziamento che l’avrebbe condotto, dopo oltre 240.000 ore di lavoro svolto per lo più in Svizzera, al giorno in cui le restrizioni in campo aeronautico imposte dal trattato di Versailles sarebbero state finalmente aggirate. Scrissero quindi i giornali, in quel momento carico d’elettricità ed orgoglio nazionale: “Do X, l’hotel dei cieli. Un miracolo della Tecnologia Tedesca. Questo non è più un aereo ma una nave, capace di sollevarsi dall’acqua e volare in aria. Capace di dare forma tangibile a visioni che sembravano impossibili soltanto tre anni fa.”
Niente di altrettanto grande, ovviamente, si era mai sollevato prima di allora. E nulla di così potente, per un totale di ben 6.288 cavalli, forniti dalla succitata e notevole quantità di motori Siemens, costruiti sul progetto radiale inglese dei Bristol Jupiter, montati a coppie su sei gondole montate nella parte superiore, interconnesse tra di loro con una piccola ala ausiliaria. Talmente tanti che, in effetti, l’analogia nautica trovava ulteriore espressione nella presenza di un ingegnere della “sala macchine” che avrebbe regolato la potenza sulla base degli ordini ricevuti via telegrafo a corto raggio dal suo pilota e “capitano”. L’esistenza stessa del Do X era resa possibile dall’invenzione del 1903 del duralluminio, una lega d’allumino temprato, rame, manganese e magnesio, con un rapporto estremamente vantaggioso tra peso e resistenza. Com’era ancora l’usanza e necessità ingegneristica di quei tempi, una parte considerevole delle superfici aerodinamiche erano costituiti da semplici teli di stoffa, tesi e ricoperti ad arte con la vernice. Nonostante tali accorgimenti, tuttavia, il peso dell’impressionante macchina era tale da non permettergli di sollevarsi al di sopra dei 400 metri, facendone in effetti un esempio ante-litteram di ekranoplano, aeromobile capace di librarsi a bassa quota sfruttando la portanza restituita dall’effetto suolo. E mentre già la voce dei detrattori iniziava a farsi insistente, affermando con enfasi che un tale mostro non avrebbe mai potuto sollevare “altro peso che il proprio” lo stesso Claude Dornier ebbe modo di organizzare un impressionante volo dimostrativo, in cui un totale di 169 persone, tra membri dell’equipaggio, passeggeri e circa una decina di “clandestini” interpretati da attori furono posizionati all’interno della carlinga ancora priva di elementi di arredo, sopra un grande numero di sedie pieghevoli ed altri implementi similari, poco prima di un giro panoramico a tutto tondo dei dintorni di Untersee. E si dice che il peso delle persone a bordo fosse talmente ingente, da richiedere che queste dovettero spostarsi letteralmente a destra o a sinistra durante le virate, pena l’incapacità dell’aereo di manovrare. Ragione per cui, in seguito, esso avrebbe ricevuto la certificazione per il trasporto confortevole di circa 60-70 passeggeri, oltre a 11 membri dell’equipaggio tra cui navigatore, operatore radio e meccanico di bordo. Per non parlare degli addetti all’assistenza di bordo: sfruttando lo spazio ed il peso recuperato, si decise infatti di trasformare il Do X nel più lussuoso spazio che avesse mai lasciato il contatto col suolo. L’aereo era dotato di tre ponti, tra cui quello superiore era completamente dedicato al personale, quello inferiore conteneva il bagagliaio ed i serbatoi di galleggiamento; mentre in mezzo, trovava posto la più fedele e ragionevole interpretazione del concetto di Grand Hotel. Tappeti, lampadari e un vero e proprio ristorante, collocato in asse con l’area dei sedili, che potevano essere reclinati nel caso in cui i passeggeri volessero dormire (benché i voli notturni fossero all’epoca piuttosto rari). Dopo alcuni voli di prova riservati alla stampa, lo stesso Dornier e i suoi dipendenti per un totale di 37 ore di volo, dunque, il primo esemplare dell’impressionante aereo fu consegnato al Ministero dei Trasporti, che per qualche tempo non seppe che cosa farsene. I motori Siemens della prima versione, in effetti, erano propensi a surriscaldarsi con l’uso, rendendo voli a lungo raggio decisamente poco praticabili mentre la sostituzione con altri modelli di provenienza estera veniva considerata controproducente dal punto di vista primario dell’immagine nazionale. Entro il 1930, con un colpo di scena decisamente significativo, Dornier riuscì a farsi prestare gratuitamente l’aereo per utilizzarlo in quello che doveva essere un giro dimostrativo d’Europa. Immediatamente, fece quindi sostituire i propulsori con 12 performanti Curtiss-Conqueror, prestati dall’omonima compagnia americana con scopi pubblicitari, dando inizio a quella che sarebbe diventata, ben presto, una straordinaria quanto travagliata avventura.
				
Jacopo			
					Le leggendarie pietre usate per misurare la forza degli scozzesi
Granitico, magmatico conglomerato di feldspati, antico solido macigno dentro il quale, con un gesto carico di pathos, l’ignoto combattente fece penetrare il rigido metallo della spada “Excalibur”. Caledfwlch in gaelico, Caladbolg in Irlandese, Caliburnus per le genti del britannico meridione, influenzate dalla chiesa e dalla lingua dei Latini. Ma una volta che il futuro re di tutte le isole britanniche, dopo aver compiuto l’ardua impresa, impugna l’invincibile strumento nelle sue battaglie contro le ingiustizie, dove credete che permanga ciò che resta del potere primordiale, l’energia sacrale dei rituali druidici dei Celti, ovvero il nesso al centro della ragnatela disegnata dalle linee della prateria (ley lines)? Nell’oggetto creato dalla mano artificiale degli umani, oppure dentro l’approssimazione naturale dello stesso meteorite a partire dal quale, secondo la leggenda, poté trarre l’origine la spada di una quantità finita di generazioni? Basta rivolgere una simile domanda al popolo che viene da Braveheart, per avere una risposta presumibilmente chiara, e molto più sicura di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi. Poiché nella tradizione di Scozia, esiste una roccia che non ebbe mai ragione di accogliere alcun tipo di lama. Eppure detta “Pietra del Destino” per la sua funzione imprescindibile nella nuova nomina di un re o regina di quelle terre e in epoca meno remota, dell’intero regno stesso d’Inghilterra. Il suo nome è Stane o Scuin, ma in epoca moderna trova la semplice definizione di Scone, dal toponimo dell’abbazia in prossimità di Perth, dove venne custodita per molti secoli prima di essere portata nel 1296 a Westminster, come bottino di guerra catturato da re Edoardo Plantageneto I. Con conseguenti grandi e irrimediabili sventure, di lì a seguire: sanguinose rivolte da parte dei precedenti proprietari e lo stesso popolo di Londra, che non voleva dover sopportare la maledizione degli antichi Dei. Eppure da quel fatidico giorno, l’oggetto venne non soltanto custodito gelosamente, bensì addirittura collocato all’interno di una sedia speciale, l’unica che fosse ritenuta degna di sorreggere il futuro sovrano al momento fatidico dell’incoronazione. Dando inizio a un treno d’acrimonia che ancora nel 1950, avrebbe portato al furto da parte di un gruppo di nazionalisti dell’oggetto sacro, accidentalmente spezzato in due parti e sepolto per qualche tempo in un campo, prima che le autorità riuscissero a recuperarlo e portarlo nuovamente nel luogo designato. Ma secondo alcuni, ancora adesso, si tratterebbe solamente di una copia…
Alla sottrazione dell’antico simbolo in epoca medievale, tuttavia, gli scozzesi non si erano certo persi d’animo. Ed avevano iniziato a designare, con prontezza lodevole, una vasta gamma di sostituti. È del resto ancora usato, in taluni circoli, l’appellativo per quella landa di Terra delle Pietre poiché ogni singola città, paese o villaggio sembrava trarre giovamento della protezione di un antico menhir, monolite o altra inamovibile presenza, testimonianza degli antichi repertori di leggende mai davvero sovrascritti dalla “mano salvifica” della trasformazione clericale. Tutt’ora inamovibili, davvero? Fino a un certo punto, ovvero dove cessano le arcane storie di antichi personaggi, come i cavalieri degli ordini che usavano determinare il proprio grado sulla base della forza fisica dimostrata nel sollevarle, e inizia la reale vicenda ottocentesca di Donald Dinnie (1837-1916) colui che poté fregiarsi per l’intera durata della sua carriera del titolo invidiabile di “Più grande atleta del mondo”. Lottatore, sollevatore di pesi, lanciatore di tronchi, corridore e saltatore di ostacoli, che dopo aver girato l’Inghilterra e gli Stati Uniti con l’equivalente di quello che oggi potremmo definire uno spettacolo di strongmen, ancora alla veneranda età di 70 anni si esibiva a Londra tenendo sollevato un tavolo su cui ballavano due boscaioli del Nord. Eppure come tutti i personaggi di un simile tenore, la vita pubblica di quest’uomo ebbe inizio all’epoca della sua gioventù, quando aiutando il padre muratore presso il ponte di Potarch sul fiume Dee, Donald sollevò senza pensarci due pietroni dotati di anelli d’acciaio, usati all’epoca come contrappesi per le passerelle degli addetti alla manutenzione locale, trasportandoli per l’intera lunghezza del cavalcavia. Soltanto successivamente, facendo seguito all’espressione basìta dei presenti, egli avrebbe saputo che gli oggetti in questione pesavano, rispettivamente, 144 e 188 Kg.
Di lì a poco le ribattezzate “pietre di Dinnie” sarebbero state elette a parte irrinunciabile del folklore locale, con dozzine di persone ogni giorno che venivano per vedere con i propri occhi cosa, effettivamente, quest’uomo forzuto fosse stato in grado di spostare. Mentre alcuni, tra i più coraggiosi, tentavano di ripetere l’impresa, senza avere il benché minimo successo. Questo perché, come successo in certi altri casi nella storia dello sport, è nostra prerogativa ipotizzare che l’atleta originario potesse vantare conoscenze e doti in merito all’allenamento, l’alimentazione e la preparazione fisica che oggi diamo per scontate, ma che all’epoca lo ponevano molte generazioni avanti rispetto ai suoi connazionali. Una situazione destinata a durare per molti anni…
Il pesce che credeva di aver messo i piccoli nel luogo più sicuro
Gli antichi laghi africani, profondi e incontaminati, rappresentano un’occasione eccezionale per osservare le dinamiche evolutive di numerose specie sulla base delle caratteristiche del loro habitat, sia questo di tipo roccioso, abissale, pelagico o situato in prossimità delle rive rocciose. Victoria, Malawi e Tanganica non sono che tre nomi distinti, corrispondenti ad altrettanti vasti ammassi d’acqua dove prosperano, rispettivamente: ciclidi, ciclidi e ciclidi. La sterminata famiglia di vertebrati, estremamente varia ed adattabile, il cui sistema di sopravvivenza presuppone l’intera gamma di soluzioni alimentari, di autodifesa e riproduzione possibili tra le creature dotate di tre pinne e una coda. Ma c’è un approccio in particolare alla tutela genitoriale, comune a specie non direttamente interconnesse e addirittura alcune tipologie di rane, che sembra ricorrere tra le schiere di questo speciale ramo dell’evoluzione: l’incubazione orale. È un metodo privo di vulnerabilità evidenti: le madri o i padri (nel caso del primo continente, soprattutto le prime) che si avvicinano alle uova appena deposte, quindi spalancando l’apertura frontale che dovrebbe convenzionalmente consentire loro di nutrirsi, le risucchiano diligentemente l’una dopo l’altra per tenerle fuori dalla portata dei predatori. Si crede che i pesci dalle dimensioni ridotte non siano particolarmente intelligenti, ma detto questo il loro istinto materno deve essere davvero straordinario. Altrimenti, come sarebbe possibile giustificare il digiuno totale di 15-20 giorni successivo a un simile fondamentale momento, da cui il pesce esce generalmente indebolito fin quasi allo stremo? Portata a termine una simile ordalìa, quindi, la vicenda non è affatto giunta alla sua risoluzione finale. Entrando, piuttosto, nel suo momento più notevole a vedersi: molte specie di ciclidi, tra cui questo Tyrannochromis macrostoma dalla livrea striata (anche detto big-mouth hap) perseverano nell’importante mansione anche dopo la schiusa, continuando ad agire come baluardo per i piccoli appena nati, che resteranno vicino alla madre fino al raggiungimento della più totale indipendenza. Esiste una serie di segnali, configurati su particolari movimenti a scatti o certi modi di nuotare, che lei può inviare quindi all’avvicinamento di una creatura ritenuta pericolosa. Alla ricezione dei quali, senza un attimo di esitazione, i pesciolini tornano rapidamente al luogo da cui sono venuti, ovvero l’interno della sua cavità orale.
Questo sistema per garantirsi un seguito generazionale costituisce un tratto di distinzione molto importante per un pesce appartenente a una simile nicchia ecologica, dove la convenzione prevede come salvaguardia della prole il più semplice approccio di produrre una grande quantità di figli, perché almeno “qualcuno sopravviverà”. Portando l’intero insieme di pesci possessori di quel segreto nello stesso spazio concettuale dei mammiferi di terra, all’estremo opposto dello spettro dinamico riproduttivo. Pensate che in alcune specie i figli possono addirittura nutrirsi di un muco che viene emesso appositamente dalla loro guardiana e genitrice, nell’attività più simile all’allattamento che abbia modo di verificarsi tra i pesci. Il che accresce le probabilità di sopravvivenza, con un inerente vantaggio: le femmine costrette ad impiegare una quantità minore di risorse al momento della riproduzione per le poche decine di piccoli, sono pronte quasi subito ad accoppiarsi di nuovo. Benché debbano necessariamente attendere la loro maturazione e il raggiungimento dell’indipendenza, che in questo modo diventa il fattore di limitazione temporale principale. In un singolo caso, quello della specie dell’Africa Occidentale Sarotherodon melanotheron, sono addirittura i maschi ad incubare e proteggere i piccoli, lasciando le femmine libere di accoppiarsi con più partner, mentre ciascuno di essi resta impegnato a proteggere il prodotto del loro incontro. Il che viene definito dalla biologia come il fenomeno, estremamente raro in natura, della poliginandria (sia maschi che femmine cambiano partner più volte nel corso di una singola stagione riproduttiva).
Ma sono i ciclidi monogami e solitari, con la loro solenne fedeltà al compito, di un sesso che tutto sembra tranne che debole, a colpire maggiormente la fantasia dei documentaristi, che amano dedicare lunghi segmenti alla loro vicenda individuale e la maniera in cui sembrano sacrificare ogni cosa, pur di proteggere quello a cui tengono più di ogni altra cosa. Con un successo… QUASI totale. Già perché se il nostro mondo di superficie può apparire talvolta crudele, esso è praticamente un paradiso, rispetto agli abissi di perversione e malvagità raggiungibili dalle creature che agiscono sott’acqua, nascoste allo sguardo e ai sentimenti di coloro che avrebbero la mansione di giudicare. E se vi dicessi che per i poveri ciclidi nessun luogo, neppure la bocca della propria madre, è sicuro?
Gli ubiqui funghi di cemento che dovevano proteggere l’Albania
L’oggetto strisciante non identificato avanzava accanto alla rocciosa spiaggia dell’Adriatico, un metro alla volta, con un suono stridente di superfici che strofinano l’un l’altra. Un piccolo capannello di persone, provenienti in parte dalla vicina città di Tirana, osservavano con interesse, mentre il simbolo di un defunto regime stava per abbandonare il luogo che gli era appartenuto da almeno un paio di generazioni. Quindi, come per un segnale percepito all’unisono, gli sguardi si spostarono verso l’agente di un simile complesso spostamento: un carro armato Type 59 preso in prestito dalla Cina, la cupola emisferica contrassegnata dalla familiare stella rossa, un lungo cavo di traino legato al suo carico da un alto numero di tonnellate. Lasciata la strada asfaltata, il mostro meccanico s’inoltra sulla sabbia, facendo affidamento sulla notevole capacità di trazione dei suoi cingoli corazzati. Con un’abile manovra del pilota, quindi, si ferma, gira su se stesso e torna indietro. Piuttosto che continuare a tirare l’oggetto prefabbricato, ora lo sta spingendo. Avanti, e innanzi, e fino alla scogliera, dove procedendo nell’operazione in modo lento e inesorabile, scarica l’oggetto oltre il bordo della Nazione. Il piccolo edificio resta in bilico per meno di un secondo, quindi in un attimo si capovolge. Cappello ormai inutile al suo proprietario, precipita verso le onde e con un tonfo sordo, si aggiunge alla collezione derelitta sottratta allo sguardo appassionato degli ultimi nazionalisti albanesi. Era il 2009. Missione finalmente compiuta: questa la zona litorale di Golem, fatta eccezione per alcuni casi storicamente rilevanti , sembrava essere del tutto de-bunkerizzata.
Chiunque abbia visitato, per interesse personale o impegni lavorativi, il paese che si trova al di là del tratto di mare condiviso con la Puglia, li conosce in qualche maniera. Forse già a partire dal negozio di souvenir dell’aeroporto, dove modellini adibiti all’uso di portapenne, posacenere o soprammobili vengono scherzosamente venduti ai turisti, accompagnati da scritte sulla falsariga di “Benvenuti nella terra dei bunker. Pensavamo che non poteste comprarne uno vero”. Ma lo strano problema edilizio di questo paese dal potenziale economico limitato, oggi, costituisce una tangibile nonché costante presenza nelle sue campagne, in mezzo ai campi coltivati, nelle città. Praticamente tutti qui, da bambini o adolescenti, ricordano di aver giocato attorno e all’interno di questi piccoli edifici a forma di cupola, capaci di contenere al massimo tre o quattro soldati armati di fucile o mitragliatrice. Gli agricoltori hanno dovuto manovrare i loro trattori attorno agli ostacoli del tutto inamovibili, mentre i tecnici urbanistici avevano costruito i nuovi edifici e strade seguendo la disposizione a raggiera dei baluardi ormai abbandonati. Con una quantità stimata di almeno 170.000 esemplari (il progetto iniziale ne prevedeva 700.000) l’improbabile sistema di fortificazione avrebbe dovuto, nell’idea del loro committente, costituire la prima ed ultima linea di difesa contro l’imminente invasione dei molti nemici del suo paese, che sarebbe stato protetto secondo la dottrina ipotizzata per la prima volta da Mao Zedong, dalla sua risorsa più preziosa e insostituibile: il popolo stesso.
Non che i suoi discendenti, o quelli degli altri paesi del cosiddetto Blocco Orientale, avrebbero mosso un dito per proteggere il regime quarantennale dell’incontrastato Enver Hoxha, l’ex-partigiano, ex-venditore di libri, perpetuo capo del partito comunista albanese, che dopo aver assunto il potere a seguito della seconda guerra mondiale, si era pubblicamente dichiarato l’ultimo praticante della vera dottrina socialista, rifiutando di allinearsi con qualsiasi coalizione esistente, nella paranoica convinzione che più o meno tutti, nel vasto mondo, avrebbero fatto di tutto pur di controllare la fertile terra dei suoi genitori. Inviso alla Jugoslavia di Tito, successivamente alla loro rottura con Stalin del 1948 e diventato nemico dell’Unione Sovietica stessa a partire dal 1960, a seguito del famoso discorso di Nikita Chruščëv al ventesimo congresso del suo partito, l’amato “zio” Hoxha era convinto che ogni tipo di convivenza pacifica sarebbe stata impossibile, per il semplice fatto che “Fino ad oggi nessun movimento del proletariato è mai riuscito a prendere il potere senza copiosi spargimenti di sangue.” E fu più o meno allora, circondato dall’elite dei suoi sicofanti nell’opulenta fortezza del quartiere Blloku a Tirana, protetto dall’elite della polizia segreta Sigurimi, qualcosa d’inusitato scattò nella mente del potente dittatore, convincendolo istantaneamente che soltanto coloro che aveva protetto, nutrito e guidato fino ad allora, potessero ricevere il sacro mandato di proteggere la sua persona e con essa, l’insostituibile status quo. Dunque in assenza di un vero e proprio esercito coordinato, tutti coloro che sarebbero stati in grado di tenere in mano un fucile al momento dell’inevitabile invasione l’avrebbe fatto, potendo contare per la prima volta su una risorsa priva di precedenti: fortificazioni sufficienti per uno ogni quattro abitanti, capaci di contrastare col ferro e il cemento l’imminente avanzata dell’odiato nemico, indipendentemente dalla sua nazionalità.
					


