L’esperimento della cattedrale sigillata nel deserto dell’Arizona

Alcune delle migliori scoperte derivano dal semplice verificarsi di una situazione casuale. Come lo strano lucore individuato in una stanza chiusa dal fisico tedesco Wilhelm Röntgen nel 1895, a poca distanza dalla postazione in cui stava energizzando alcuni tubi catodici, che lui attribuì a una nuova forza che scelse di definire “raggi X” rendendosi soltanto successivamente conto della loro capacità di fotografare la pelle e le ossa umane. O l’impiegato della compagnia Raytheon che nel 1945 entrò in una sala di test dei sistemi radar con una tavoletta di cioccolata in tasca, soltanto perché quest’ultima si squagliasse, dimostrando chiaramente il processo di cottura tramite l’effetto delle microonde. Altre volte, d’altronde, i più sinceri e profondi sforzi possono essere fatti nel tentativo di raggiungere un nuovo stato della conoscenza, soltanto perché problemi tecnici, imprevisti o altre questioni fuori dal nostro controllo rendano ogni sforzo vano, con conseguente grande dispendio del tempo e dell’impegno umani. Per non parlare delle finanze. Esistono tutt’ora due visioni contrastanti, sull’esito effettivo e l’impatto misurabile dell’esperimento Biosfera 2, condotto per la prima volta tra il 1991 e il 1993, con un secondo tentativo per otto mesi nel 1994, secondo le linee guida dell’imprenditore, ingegnere e filosofo statunitense John P. Allen, a cui riuscì di ottenere la partecipazione di un gruppo di sponsor per la cifra considerevole di circa 200 milioni di dollari. Roba da nulla, dinnanzi all’opportunità di salvare letteralmente la razza umana dall’estinzione, se non oggi in un momento futuro che fortunatamente, non ha avuto ancora modo di palesarsi. E tutto considerato, neanche poi così tanto dinnanzi all’effettivo sforzo tecnologico messo in campo dalle diverse compagnie coinvolte, per la costruzione di un sistema complesso di edifici, interconnessi tra di loro e completamente sigillati rispetto all’ambiente circostante, con una perdita di meno del 10% di aria l’anno. Sufficiente, sostanzialmente, a simulare la vita in un habitat chiuso sulla superficie di un altro pianeta e tanto efficace, da richiedere dei veri e propri “polmoni”, sale sotterranee per far sfogare l’aria espansa a causa del calore, durante le ore diurne. Ma l’obiettivo reale, al tempo della prima concezione dell’esperimento, era molto più di quanto fin qui dichiarato: ovvero dimostrare in maniera inoppugnabile, l’influenza che la razza umana può avere sull’ambiente terrestre, e conseguentemente l’importanza di sviluppare ulteriormente una coscienza comune impegnata nel campo dell’ecologia. Avendo più che altro a che fare con lo studio delle dinamiche che avrebbero permesso, ad un gruppo eletto di appena una decina di persone, di sopravvivere successivamente all’impellente apocalisse finale. Questo non fu chiaramente detto, all’inizio, né alcuna testata riuscì ad effettuare il collegamento concettuale tra “la seconda biosfera” (laddove la prima era, ovviamente, la Terra stessa) ed il Synergia Ranch, l’ecovillaggio nel Nuovo Messico gestito dallo stesso Allen, all’interno del quale venivano praticate all’epoca alcune dinamiche tipiche delle sette, tra cui l’isolazionismo ed il culto della personalità. Ma la facciata era valida, così come la portata delle promesse fatte ad un grande pubblico, se non propriamente convinto, per lo meno affascinato dalle idee proposte.
E come non esserlo, d’altra parte? Stiamo qui parlando di una versione più estrema dello show televisivo del Grande Fratello, in un’epoca in cui il concetto di reality attivo 24 su 24 era ancora ben lontano dall’essere concepito. Con la differenza che ogni notizia per il pubblico sarebbe giunta dopo attente valutazioni, e soltanto dopo il trascorrere di intervalli temporali rilevanti. Già c’era tuttavia il gruppo, non necessariamente affiatato, di 8 persone apparentemente scelte per la loro competenza in diversi campi della scienza (non sempre coadiuvata da titoli di studio effettivi) costrette a vivere assieme per un periodo molto, molto lungo. E la serie di sfide, benché non ancora scelte da una regìa disturbatrice, bensì derivanti dalle effettive necessità di far funzionare l’esperimento. Su una cosa, tuttavia, nessuno poteva esprimere dubbi: la struttura teatro delle operazioni costruita nei pressi di Oracle, a Pinal County, avrebbe avuto spazio a sufficienza per tutti. Costruita secondo il principio di un sistema interconnesso di biomi (aree ambientali distinte) e per inciso ancora in condizioni perfettamente operative, il complesso di Biosfera 2 fu concepito per includere sotto la sua struttura reticolare con ampie vetrate 1.300 metri quadri di savana, 1.400 di deserto, 1.900 di foresta pluviale, 450 di palude con le mangrovie e persino un piccolo “oceano” con pesci, molluschi e una mini-barriera corallina. Ulteriori 2.500 metri quadri furono invece devoluti allo spazio vitale per gli umani, includendo ampie aree coltivate che avrebbero dovuto permettere il raggiungimento dell’autosufficienza alimentare. In aggiunta a quella respiratoria, garantita dall’ampia presenza di vegetazione in grado di riconvertire l’anidride carbonica prodotta dai bionauti e i loro numerosi animali. Sulla carta, un sistema perfetto, che semplicemente non poteva fallire. Mentre nella realtà dei fatti, i primi problemi non tardarono ad arrivare…

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La nuova moto dell’Uomo Volante

Il vento che vi scompiglia i capelli, mentre procedete a filo dell’acqua a una velocità approssimativa di 35 Km/h. Per uno spettatore di passaggio, potrebbe sembrare che state pilotando un normale jetski, il mezzo di trasporto che stanno sempre di più sostituendo le piccole imbarcazioni da diporto. Finché, sull’onda dell’entusiasmo, non fate l’impensabile, tirando a voi con decisione il manubrio: ecco che a partire da quell’attimo, un poco alla volta, iniziate a sollevarvi, mentre gli spruzzi del mare lasciano i vostri fianchi, per trasformarsi nell’approssimazione di una scia d’idrogeno che si estende alle vostre spalle. Il volo è perfettamente stabile, la sensazione di controllo, assoluta. Dopo aver fatto un gran respiro, premete col guanto da motocross il pulsante che si trova in corrispondenza della vostra mano destra. Ed è allora, che inizia l’avvitamento.
È strano come un uomo o una donna possano realizzare, nel corso della propria esistenza, qualcosa di così incredibile da eclissare quasi del tutto i loro traguardi precedenti e, in misura minore, anche quelli successivi. Quando ad aprile del 2016 l’inventore e sportivo francese Franky Zapata salì, come aveva fatto molte altre volte prima di allora, su una piccola piattaforma in grado di sollevarlo dal terreno e dall’acqua, Internet fu scossa da una sorta di brivido trasversale, in grado di trasportare la discussione su milioni di pagine social e blog. Perché per la prima volta, tale dispositivo non era connesso tramite un tubo flessibile al motore di una moto d’acqua, per sollevarsi grazie all’effetto-reazione di un getto rivolto verso il basso, bensì funzionava grazie all’impiego di una turbina elettrica con 10 minuti di autonomia, capace di trasportarlo, teoricamente, fino a 10.000 piedi d’altitudine con una velocità di 150 Km/h. Cifre da far girare letteralmente la testa, e che non avrebbero sfigurato nella dotazione di gadget di un supereroe. Dalle quali non tardarono ad arrivare i problemi e le opportunità: dapprima la proposta di acquisto da parte di un’azienda militare, interessata a fare dell’Hoverboard Air un veicolo da combattimento e perlustrazione, poi ritirata verso dicembre dello stesso anno. Quindi il divieto categorico da parte del governo francese, a marzo del 2017, di sollevarsi da terra mediante l’impiego del rivoluzionario veicolo, pena l’immediato arresto per aver messo in pericolo le persone. Un contrattempo tutt’altro che indifferente, per un inventore etico come lui, che ha sempre fatto un punto d’orgoglio dell’essersi affidato principalmente a fornitori ed aziende di supporto della sua stessa nazionalità. Ma anche l’occasione di tornare a dedicarsi, per qualche tempo, alla stessa classe di veicoli che l’aveva reso ricco e famoso a partire dal 2012, grazie a un successo spropositato nel campo dei resort d’intrattenimento e degli spettacoli sul lungomare: gli idrogetti volanti. Il suo Flyboard (di nuovo quello stile nella nomenclatura) in effetti, è sempre stata una di quelle visioni che non può fare a meno di sollevare il senso dell’empatia umana, generando pressoché istantaneamente il desiderio di andare a provarlo, almeno una singola volta nella vita. Raggiungendo, o persino superando, l’attrazione più tradizionalista del kitesurfing, ovvero la pratica del parapendio velico mentre si viene trainati da un piccolo mezzo a motore. Una diffusione, coadiuvata dalle molte apparizioni televisive inclusa quella del 2013 presso il popolare talent La France a un incroyable talent, che l’ha indotto negli scorsi anni a declinare l’idea in alcune interessanti varianti. Tra cui vanno citati l’Hoverboard (oggi distinto dalla sua versione volante, in realtà più simile al Flyboard) ispirato dalle antologiche tavole da skateboarding del film Ritorno al Futuro e il Jetpack by ZR, di più facile impiego grazie alla configurazione a zaino tenuto in posizione da una pratica cintura di sicurezza a cinque punti d’aggancio. Strumenti in grado di coprire ogni grado possibile di preparazione fisica ed esperienza pregressa, se non che mancava ancora un qualcosa che potesse rispondere ad uno dei bisogni primari di tutti coloro che cercano l’adrenalina: andare (ragionevolmente) veloci. Ed è stato proprio ragionando su una simile questione, che si è profilata l’occasione di lasciar sbocciare la nuova idea.

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Il villaggio turco che comunica fischiando

Se doveste visitare uno di questi giorni la comunità montana di Kuskoy, nella parte settentrionale della Turchia, non troppo lontano dalle coste del Mar Nero, potreste rimanere colpiti da un insolito suono. Come il verso di un uccello, che riecheggia da una valle all’altra, modulato in infinite varianti che cambiano in base al momento della giornata. Non si tratta del canto di un pappagallo, o la melodia diseguale di un corvo particolarmente creativo. Bensì della gente che parla il ku__ş diliun idioma il cui nome potremmo tradurre, alquanto appropriatamente, con l’espressione di “lingua degli uccelli”. Di certo questa è la prova che la comunicazione umana, lungi dall’essere un costrutto artificiale, è la risposta ad una primaria necessità e come tale, soggetta ai meccanismi spontanei dell’evoluzione. Che nel caso specifico, più che prevedere la sopravvivenza dell’uno o dell’altro individuo, comporta un processo di selezione dei morfemi. C’è una chiara corrispondenza, in tutto questo, con i metodi espressivi di chi svolge un particolare lavoro in luoghi inadatti alla trasmissione auditiva di parole complesse, come moli portuali, opifici o pubblici mercati di scambio. Costui inizierà, ben presto, ad esprimersi in modo conciso e preferibilmente, a voce alta. Ma cosa pensate che succeda piuttosto, se la problematica di fondo è la distanza? Questo luogo ameno, dove i prodotti principali sono il tè e le nocciole, presentava uno scenario piuttosto atipico: ecco un sistema di calli e promontori immerso nella natura, dove la cacofonia di fondo è letteralmente inesistente. Ma lo zio, la moglie, il nonno, si trovano a dover dire qualcosa ai loro famigliari, che si trovano due o trecento metri più sopra a svolgere faccende nel cortile di casa. Cosa fare, dunque…. Mettersi di buona lena, camminando fin lassù per poi tornare al punto di partenza: impossibile. Segnali di fumo: geograficamente fuori dal contesto. Perché non mettersi, piuttosto, semplicemente a parlare? Difficile, dopo tutto, negarlo: l’apparato fonatorio umano è in grado di fare molte cose. Compreso stringere le labbra, posizionare adeguatamente la lingua e i denti, per emettere, quindi, un flusso continuo d’aria dai polmoni. È l’atto universale del fischio, finalizzato a produrre un suono acuto e perfettamente udibile, in condizioni ideali, fino a un chilometro di distanza. Come per il caratteristico e non più udito suono dei modem 56k, diventa quindi difficile non porsi la spontanea domanda, relativa a quanti e quali significati possano nascondersi all’interno di una simile attività.
La prima tentazione è di dire: parecchi. Sarebbe difficile non considerare, a tal proposito, l’efficienza del telegrafo, che dalla semplice ripetizione ed interruzione di un segnale può brevemente riprodurre le 26 lettere dell’alfabeto, i dieci numeri e svariati segni diacritici utili alla trasmissione di un qualsivoglia messaggio. Ma ridurre la lingua degli uccelli ad un semplice codice unidimensionale sarebbe decisamente insoddisfacente, vista la sua capacità di trasmettere, assieme ai contenuti, informazioni contestuali come il senso d’urgenza, l’enfasi o il sentimento. Questo perché, persino sulle lunghe distanze attraverso cui viene utilizzata, gli interlocutori possono generalmente vedersi, interpretando quindi i rispettivi linguaggi del corpo e l’atteggiamento generale del parlante. Rendendo l’idioma in questione un metodo di comunicazione intrinsecamente superiore a svariate alternative digitali, quali l’SMS o l’E-mail. Ma non, purtroppo, della semplice telefonata. Ragione per cui la pratica, un tempo diffusa in tutta la regione rilevante del Giresun, è andata progressivamente riducendosi, fino al solo ambiente del villaggio isolato di Kuskoy. Perché proprio in questo luogo, non è facile da determinare. È forse possibile che proprio qui fosse vissuta la persona che, qualche secolo fa, codificò formalmente un sistema che vigeva nei fatti almeno dall’epoca dell’Impero Ottomano (ogni linguaggio trae certamente vantaggio da un promotore innegabilmente autorevole) oppure che, una fondamentale necessità di sottrarsi allo scrutinio da parte delle autorità costituite, avesse portato gli abitanti proprio di questo luogo a farne un’uso più assiduo, al fine di comunicare ai vicini di casa l’arrivo di eventuali ospiti in divisa. Ma l’aspetto più significativo è che poiché una lingua in corso di utilizzo difficilmente può restare immutata nel tempo, anno dopo anno, un lessema dopo l’altro, la lingua si è trasformata in una sorta di arte popolare, ampliata dagli abitanti con l’inclusione di nuovi e sempre più sofisticati termini in uso nel mondo contemporaneo. Ma prima che tale affermazione possa trarvi in inganno, vediamo di analizzarne brevemente il funzionamento…

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I soli vermi che capiscono il Natale

Tutti sanno che il nemico naturale del piccolo arbusto ricoperto di addobbi in occasione della principale ricorrenza invernale, nella maggior parte delle abitazioni, è il gatto. Il quale semplicemente non potrebbe mai fare a meno, neanche volendolo, di cercarne il punto debole con gli artigli, afferrare il tronco, arrampicarsi tra le palle con la massima probabilità di far danni. Ma chi è, nell’ambiente sottomarino della barriera corallina, il felino dispettoso della situazione? Personalmente non ho alcun dubbio: dovrà necessariamente trattarsi del pesce tetrodontide, il più velenoso vertebrato al mondo. Agile nuotatore, perennemente alla ricerca di una preda, che sa come difendersi anche da creature molto più grandi di lui: incamerando l’aria fino a gonfiarsi, anche se al posto del pelo, frappone al mondo un manto di sottilissime spine. Per le sue abitudini, usano chiamarlo pesce palla. Anche l’albero di Natale che tende ad essere l’oggetto delle sue indesiderate attenzioni, dal canto suo, è molto diverso da quello di superficie. Innanzi tutto per le dimensioni: 5-10 cm invece che un metro e mezzo oppure due. Dimensione ridotta dalla quale, di contro, deriva una capacità decisamente insolita per le piante, soprattutto quando private delle radici: ritirarsi dagli sguardi indesiderati e nascondersi all’interno del proprio vaso. Vaso o forse dovremmo dire, nel presente caso, tubo. Quello che il colorato alberello, completo di decorazioni variopinte e tutto il resto, secerne all’inizio della sua vita di adulto, dopo essersi aggrappato all’essere che proteggerà la sua esistenza. Già, “adulto” perché a dire il vero, la creatura di cui stiamo parlando non è propriamente un vegetale, bensì uno di quegli anellidi policaeti (vermi!) che attraversano, nel corso della propria vita, almeno un’importante metamorfosi, dallo stato di larve galleggianti nel plankton a creature sessili, ovvero del tutto incapaci di muoversi fino al termine della loro esistenza.
Può così capitare negli ambienti tropicali del vasto oceano, di scorgere il dentone di cui sopra che fluttua con interesse nei pressi di un paio di questi variopinti soggetti, facendosi avanti un centimetro alla volta, finché non si trova a portata di bocca. Ed è allora, generalmente, che avviene l’inaspettato: l’albero coi suoi rami, il puntale e tutto il resto, si richiude su se stesso, prima di ritrarsi e scomparire del tutto dalla sua vista. Questo perché, alquanto inaspettatamente, gli è riuscito di vedere il pericolo prima che fosse troppo tardi. Già perché pur facendo parte della stesso phylum del lombrico di terra, altrettanto bilateralmente simmetrico e metamerico nel susseguirsi dei propri segmenti, le somiglianze sostanzialmente finiscono qui. Lo Spirobranchus giganteus ha infatti sviluppato un modo per notare l’avvicinarsi del pericolo, senza dover mettere degli occhi fuori dalla sicurezza del tubo di appartenenza: stiamo parlando, in parole povere, di molecole sensibili alla luce incorporate nel suo apparato branchiale, facente per l’appunto parte delle appendici simili a rami che lascia oscillare nella corrente, chiamati cheti, da cui il nome della classe di appartenenza: poli(molti) -cheti. Contrariamente al nostro termine di paragone, inoltre, i vermi-albero non hanno mai imparato a scavare. Semplicemente perché sono molto, molto più furbi di così. Nel momento in cui si posano per l’ultima volta lasciando indietro la loro vita di larve trocofore, infatti, fanno in modo di ancorarsi a una superficie “vivente” ovvero un qualche tipo di corallo roccioso come la madrepora o la porite, dalla struttura scheletrica in aragonite. Iniziando quindi a secernere il proprio tubo di calcite non solubile, affinché la colonia di polipi, crescendo nelle dimensioni, finisca inevitabilmente per incorporarlo. Condizione a seguito della quale, praticamente, il rifugio farà in modo di costruirsi da se. Un sistema che non potremmo che definire efficiente, vista la vita media di questi variopinti vermi: fino a 30-40 anni, benché allo stato brado, molto spesso, non riescano a raggiungere neppure i 20. E questo generalmente, a causa di qualche famelico felino di passaggio…

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