Lucidi e setosi, splendidi, perfetti sotto ogni possibile punto di vista. Non presentano neppure l’ombra di un picciolo. Eppure se provi a sbucciarli per affondarci dentro i denti, non potrai fare a meno di scoprire qualcosa d’inaspettato. Perché sono vuoti dentro, e si frantumano come fossero fatti con vetro o ghiaccio! “Per fare il frutto, ci vuole il fiore” diceva un famoso botanico in maniera particolarmente facile da ricordare, usando lo strumento della musica che nello stesso modo può riuscire a risultare utile per favorire la più rigogliosa crescita dei rami. Eppure in tutto questo non è detto che per forza l’albero debba trovarsi a possedere un ruolo, se è vero che la cognizione stessa di quel minimo concetto primordiale, da cui scaturisce ogni sequenza lungo l’arco della crescita situazionale può anche prescindere dalla tangibile materia, venendo inteso come “seme” delle idee, o un “seme” imprescindibile piantato dal destino stesso, come punto di passaggio che non ha bisogno di ripetersi le volte successive alla prima. Una volta che riescono a interporsi quegli agenti straordinariamente utili e operosi, che siamo propensi ad associare al duplice concetto di una coppia di mani umane. E così via a seguire, per 18 successive generazioni rintracciabili fino alla dinastia Ming, quando gli antenati di Chen Shouxiang, a quanto lui stesso ci racconta, ebbero modo di trasferirsi presso il villaggio montano di Chenlou, nella regione di Laiwu all’interneo della vasta provincia settentrionale dello Shandong. Portando qui attorno al 1717 una semplice tecnica, molto diffusa nello Hebei di provenienza, per bollire l’orzo ed il riso trasformandolo in una sorta di sciroppo semi-denso, rapido a solidificarsi una volta raggiunta la temperatura ambiente. Nonché caratterizzato da una singolare propensione a lasciar emergere la componente zuccherina di quel cereale o qualsiasi altro incluso nel calderone, creando vie d’accesso a strade culinarie letteralmente inesplorate. Che fosse possibile creare un cibo particolarmente dolce, anche prima dell’importazione in quantità industriali della canna da zucchero dall’Indomalesia, o senza un accesso diretto alla barbabietola di concezione europea, è un concetto largamente trascurato dal senso comune dei gastronomi senza un preparazione che risalga nel tempo, benché appaia straordinariamente chiaro nella realizzazione di questo cibo molto distintivo, strettamente associato alla ricorrenza del capodanno lunare o cinese. Tutto ciò per una ragione pratica, oltre che tradizionale, vista la tendenza inevitabile allo scioglimento del prodotto finale, una volta che il termometro dovesse superare un certo numero di gradi. Il che rende ciò che viene chiamato il celebre tianggua (甜瓜) di Chenlou (陈楼) una diretta risultanza della rara commistione di luogo, momento e circostanze irripetibili nella sua particolare cognizione, molto probabilmente fatta derivare da primizie stagionali dalla provenienza assai diversa e interconnessa a costose filiere d’importazione da terre remote. Così che oggi, a quanto ci viene spiegato nei materiali di riferimento, soltanto tre produttori ancora esistono di questo cibo unico al mondo, di cui due a conduzione familiare ed una fabbrica situata anch’essa all’interno dello stesso singolo villaggio cinese. Dove le regole della natura, come niente fosse, vengono letteralmente ribaltate, sostituendo i rami alle radici…
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L’ambiziosa evoluzione tecnologica dei cavoletti di Bruxelles
Sfere verdi come la foresta, uova di un caviale dalle profondissime radici, all’interno dello scivolo contorto che le porta a perdersi nel meccanismo della Realtà. Durante il gioco giapponese del pachinko, migliaia di palline metalliche discendono all’interno di un tabellone, popolato di ostacoli e diversi tipi di cellette che incrementano il punteggio finale. Il caratteristico suono tintinnante, accompagnato da particolari musiche ed effetti sonori, costituisce la colonna sonora facilmente riconoscibile delle sale giochi dedicate a questo passatempo, che nonostante le stringenti leggi in materia finisce spesso e irrimediabilmente per sconfinare abusivamente nel gioco d’azzardo. Molte persone con problemi d’autocontrollo, e le loro intere famiglie, sono andate incontro alla rovina finanziaria nel vacuo tentativo di conseguire un qualche tipo di guadagno, e mantenerlo nel tempo, dalle imprevedibili macchinazioni della Dea del Fato. Così come interi imperi agricoli, sono sorti e poi caduti nella polvere, in base alle umane preferenze di ciascuna epoca per quanto concerne la consumazione di una pianta. Brassica oleracea, questo il nome della specie, sebbene in forza delle numerose variazioni coltivate grazie alle diverse cultivar, non molti tra i non iniziati avrebbero l’ispirazione di riuscire a ricondurle tutte al cavolo selvatico da cui proviene. Chiamandola, piuttosto, broccolo, cavolo riccio oppure rapa, gallego e chiaramente cavolfiore, a seconda di quale delle rilevanti parti vegetali, tramite i molti anni di selezione artificiale, sia stata massimizzata nelle dimensioni e l’arbitraria preferenza gastronomica degli umani. Fino al caso assai particolare, del germoglio stesso che diventa il più apprezzato dei tesori, estensivamente replicato in grande numero lungo l’intero estendersi del gambo centrale. Dando luogo alla definizione in lingua inglese di sprout, mentre l’appellativo nel nostro idioma preferisce il più descrittivo termine di cavoletto, per l’aspetto direttamente riconducibile a un qualcosa d’identico, ma più grande. Mere distinzioni semantiche, per quanto concerne un qualcosa che per lungo tempo ha continuato a rotolare nella grande macchina del progresso verso l’ottimo successo, oppure il fallimento dell’imprenditoria pertinente. Finché progressivamente, al trascorrere di un tempo sufficientemente lungo, siamo giunti a questo: la filiera operativa, documentata per il nostro interesse, della compagnia olandese Gebr. Herbert Zeewolde, tra i principali produttori odierni di quel cibo che pur trovandosi convenzionalmente associato ad un contesto belga, riveste in realtà un ruolo di primo piano nelle diete dei paesi dell’intera parte settentrionale d’Europa. Inclusa l’Inghilterra, che ne risulta essere il maggior consumatore al mondo. O almeno risultava esserlo, prima che le restrizioni imposte all’importazione di cibo dal continente aumentassero esponenzialmente, al ripristino di divisioni che si era tanto faticosamente riuscito ad accantonare.
“E dopo tutto… Meno male?” Sembrerebbe quasi di sentir echeggiare nel vento, per il contributo di una gestalt dei bambini di mezzo mondo, notoriamente poco inclini ad apprezzare l’indesiderabile pietanza, mentre ciò dovrebbe in chiari termini costituire un vetusto retaggio di tempi ormai lungamente trascorsi. Laddove l’effettiva realtà apprezzabile dei fatti, com’è possibile ricostruire con lo storico pregresso delle circostanze, è che i gusti cambiano ed assieme ad essi possono cambiare loro stessi, i nostri smeraldini cavoletti di Bruxelles. Grazie all’adozione di particolari accorgimenti nella loro coltivazione, coadiuvati dal superamento della convenzione ormai del tutto superata che l’unico modo per prepararli in modo per così dire “tradizionale” fosse bollirli in ammollo, fino all’acquisizione di un conseguente gusto amaro e caratteristico odore tanto intenso quanto difficile da definire appetitoso. Una diretta risultanza dell’alto contenuto di glucosinato del tipo sinigrina, un composto chimico a base di zolfo che si libera con la cottura troppo lunga. La cui acredine può essere adeguatamente ridotta, e combattuta, mediante l’adozione di una serie di piccoli ma precisi accorgimenti… Alcuni dei quali traggono l’origine dall’immagazzinamento in apposite banche dati, e conseguente utilizzo all’interno dei campi, di particolari ceppi genetici dalla maggiore palatabilità…
Gli antichi segreti della grande pentola di ferro coreana
E i venti dell’industria soffiavano nell’antro fiammeggiante della Creazione; fuoco, fiamme, il traffico dei materiali trasportati da un lato all’altro dell’officina. Mentre una tecnica cooperativa, frutto di molteplici epoche di pratica, si concretizza nella realizzazione e fisico assemblaggio di un’idea: che l’antica conoscenza tecnologica, col progredire della civiltà, non ha perso il proprio valore intrinseco. Ed ogni minuto, ogni ora, ogni generazione spesa nella fabbrica delle opportune soluzioni può trovare ancora un senso nella pratica del vivere odierno. Anche se all’interno di una scala differente; sebbene se al confronto di quei tempi andati, possa costituire una cosa da niente. Eccome! Se così esordiscono gli articoli in materia: “Il grande calderone gamasot (가마솥) ha la sua origine dal chung (충) di bronzo dei tempi antichi ed è strettamente interconnesso al concetto pre-moderno di famiglia allargata. Con il progressivo ridursi del nucleo domestico, esso è stato infine sostituito del tutto dalla macchina elettronica per cuocere il riso.” Una frase in apparenza semplice & diretta, che nasconde tuttavia i notevoli conflitti, culturali e sociali, subiti da una popolazione che passa nel giro di appena un secolo dagli arcaici sistemi di governo ed amministrazione ad una delle economie più potenti dell’attuale panorama internazionale. Ed all’interno della quale, in luoghi privilegiati interconnessi con l’epoca trascorsa, taluni approcci, certi metodi si trovano tutt’ora messi in pratica fino alle loro più notevoli conseguenze. Certo: come descrivereste, altrimenti, questo breve video chiarificatore, offerto dal canale “Mr. Process” che parrebbe presentarsi come una versione locale del popolarissimo “Come è fatto” ed offre una finestra approfondita all’interno di una delle poche fabbriche rimaste ancora intente nel mettere in pratica la complicata serie di passaggi, che attraverso una ragionevole giornata di lavoro, porta alla creazione di una delle più imponenti e culturalmente significative pentole dell’Estremo dell’Oriente.
Gamasot è un termine che nasce dall’unione delle due parole significanti “utensile per la cucina” e “ciotola per il riso” per una definizione estremamente semplice e concreta che trova attestazione linguistica fin dalla lontana epoca del regno di Gogureyo (37 a.C. – 668 d.C.) Benché nella misura in cui sia possibile desumere dai ritrovamenti archeologici, simili soluzioni metalliche per cuocere ed immagazzinare il cibo dovessero essere state utilizzate nella penisola coreana fin dalla scoperta dei più antichi metodi per lavorare il rame e lo stagno. Quando quella lega risultante, così importante agli albori della tecnologia umana, era ancora utilizzata per la creazione di spade ed armature, trovando un tipo di battaglie ancor più significative nella vita civile di tutti i giorni. Sotto questo aspetto, l’originale percezione del chung fu quella di un importante oggetto simbolico all’interno dei rituali del potere e determinati momenti religiosi, in quanto simbolo d’abbondanza legato al mondo femminile capace d’incarnare, al tempo stesso, l’ideale maschile della forza e la potenza guerriera. In tal senso, il possesso di una grande pentola simboleggiava il benessere di una famiglia, fosse anche costituita da nobili o membri della corte. Mentre personaggi quali il re Goguk Cheon, alto 9 cubiti e vissuto nel IV secolo d.C, vengono descritti come fisicamente prestanti al punto da poter sollevare la propria stessa pentola gamasot; un’impresa assolutamente non da poco, quando si considera come una moderna e più ridotta interpretazione di tale oggetto possa agevolmente raggiungere i 40 Kg di peso. Mentre in ambito religioso viene tutt’ora detto che in Corea dovranno per sempre continuare ad esistere tre dottrine, confucianesimo, taoismo e buddhismo, alla stessa maniera in cui una pentola può reggersi sopra tre zampe durante l’utilizzo sul fuoco vivo. Il che d’altronde non doveva capitare troppo spesso per il calderone di ghisa, quando si considera la sua integrazione quasi inamovibile all’interno della tradizionale stufa in mattoni refrattari, da cui del resto non sarebbe stato in alcun modo facile spostarlo. D’altra parte, versioni maggiormente maneggevoli dello stesso apparato vengono oggi prodotte in quantità tutt’altro che insignificante, proprio perché il gamasot fornisce alcuni benefici assai particolari al processo di preparazione del riso…
L’oscuro paradosso del miele creato dalla putrefazione della carne
Strisciante riesce ad essere il sospetto, tanto spesso parte di una chiara rimembranza, per cui esistono tra cielo e terra una maggiore quantità di… Cose. Superiore per numero, e l’effettiva varietà di premesse, rispetto a quelle concepite in mondo innato dalla nostra umana filosofia d’intenti. Cose magnifiche. Cose terribili. Creature sia magnifiche, che orripilanti. Api: sono mai vissute, in mezzo a noi, creature maggiormente degne di un senso di stima reciproca, per la capacità di dare un senso dolce all’esistenza di una collettività indistinta? Fatta sia di esseri piccoli, e ronzanti, che dei loro “amministratori” e “padroni”, dalle dimensioni comparabilmente spropositate. Ponderosi apicoltori, che già molti secoli prima d’indossare la tuta protettiva che costituisce la loro divisa, e senza che nessuno avesse avuto modo d’imparare il metodo per estrarre e raffinare lo zucchero, poterono in tal modo assaporare il gusto futuribile che riesce a dare assuefazione. L’aurea sostanza appiccicosa che colora, poco a poco, ogni possibile sentiero per l’accesso alla felicità. Purché si riesca a trarre fuori dal contesto quel processo generativo che, partendo dal nettare dei fiori, include assieme ad esso il prodotto collaterale dei parassiti delle piante, masticato e attentamente rigurgitato dall’insetto “superiore” che noi tanto amiamo. Per poi essere colato, con estrema cura ed attenzione, all’interno della pratica struttura di un favo pronto ad essere raccolto, filtrato e servito in tavola per l’ora della colazione. Fatto sta che con un processo simile ma sostanzialmente collaterale a questo, un tipo diverso di appartenente all’ordine degli Imenotteri può riuscire a saltare alcuni di questi passaggi. Aggiungendone uno in particolare, che potrebbe riuscire a cambiare drasticamente le vostre impressioni in merito all’intera faccenda.
Il primo a notarlo fu il ricercatore ed entomologo dello Smithsonian Tropical Institute, David Roubik, che nell’ormai remoto 1982 raccolse i dati di una serie di spedizioni e ricerche sul campo effettuate in America Centrale da suoi colleghi, notando linee guida comuni ad esattamente tre specie di api appartenenti al genere Trigona, note per il colore nero e l’assenza di un pungiglione capace di far male all’uomo. Le quali apparivano anche prive, in maniera precedentemente ignorata dai suoi colleghi, dei caratteristici peli sulle zampe normalmente utilizzato da queste creature al fine d’intrappolare il nettare floreale da riportare fino all’alveare. Possedendo invece grandi mandibole, abbastanza forti da riuscire a intaccare materiali fibrosi e resistenti. Lasciando sorgere un sospetto che nel corso dell’articolo stesso, lo scienziato chiarisce riportando un’osservazione effettuata nel territorio panamense: di alcune carcasse di lucertola e rospo, nei dintorni di un grande sito abitato, letteralmente ricoperte da un numero tra 60 ed 80 di queste api ciascuna… Così ridotte allo stato di meri scheletri entro un periodo di appena 8-12 ore. Ora il concetto d’insetti che mangiano la carne putrefatta non è certamente nuovo. Le stesse vespe, non poi così diverse dal punto di vista morfologico, sono notoriamente solite mettere in pratica simili battute di caccia, che mirano a riportare presso i loro nidi validi apporti proteici per favorire lo sviluppo delle larve (quando non arrivano a deporle, direttamente, nel corpo della loro preda designata). Ma l’aspetto particolarmente interessante dell’intera faccenda, ulteriormente approfondita negli anni successivi ma realmente chiarita soltanto nell’ultimo decennio, è che il ciclo vitale di queste tre particolari specie d’api non è affatto diverso da quello delle più famose volatrici che vediamo riprodotte sulle scatole dei corn flakes. Riuscendo a prevedere la stessa costruzione di un ambiente in materiale termoplastico di origine organica all’interno del quale custodire le proprie larve. La cui assenza di un apparato boccale realmente funzionale prevede l’assunzione esclusiva di quell’aurea e ben nota sostanza, che copiosamente cola dai cucchiai vegani dei comuni giorni. Se non che, mettendo assieme i pezzi di un simile puzzle, non è poi così difficile capire cosa, esattamente, possa certe volte esserci all’interno!