Pochi modi di dire hanno la stessa potenza dialettica della figura retorica nota come ossimoro: lucida pazzia, ghiaccio bollente, dilettoso male, tacito tumulto, convergenze parallele. Come se nel riferirsi a questo incontro degli opposti, l’autore volesse scardinare ogni grado residuo di logica pre-esistente, cambiando le carte in tavola con il gioco di un temporaneo prestigiatore delle idee. Guanti bianchi e lunghe maniche al servizio della letteratura e della poesia. Già e che dire, invece, della scienza? Quel particolare universo dello scibile umano dove tutto è certo, ogni cosa dovrebbe risultare dimostrabile e acclarata. Per cui la fisica non è un’opinione, come pure la matematica applicata alle reazioni chimiche e di conseguenza, il movimento stesso di quell’energia che siamo soliti definire “luce”. Del fuoco nero ha più volte parlato l’immaginario contemporaneo post-moderno, spesso come un chiaro segno di forze sovrannaturali all’opera, con obiettivi tutt’altro che provvidenziali. Poiché la privazione della possibilità di vedere al buio, in situazioni di sprigionamento calorifero e ossidazione irreversibile di un materiale, è talmente contraria alle nostre regole della norma precedentemente acquisite, da generare un senso quasi istantaneo di disagio ed incertezza continuativa nel tempo. Eppure, sebbene tale fenomeno appaia come una contraddizione in termini, nelle giuste circostanze è possibile avvicinarsi notevolmente alla sua effettiva, tangibile esistenza. Basta operare affinché si verifichi la migliore confluenza di cause ed effetti. In altri termini e per usare una terminologia suggestiva, entrare nel regno magico del gesto e della parola.
Personalmente, non saprei dire come a TheActionLab, autore di YouTube famoso per i suoi video a tema scientifico concepiti per dimostrare un vasto catalogo di concetti e teorie, sia venuto in mente questo particolare esperimento. Forse qualche libro di testo scolastico o altro materiale di tipo analogico, visto che altre notizie in merito sembrano decisamente scarseggiare online. Oppure, chi può dirlo, magari un grimorio, il libro stregonesco di un’antica tradizione ereditaria, in grado di far mettere momentaneamente da parte le aspettative lecite di ogni legittimo osservatore. L’insolita esperienza visuale trae origine da un particolare tipo di luce, che potreste conoscere come la più utilizzata nel campo urbanistico, a causa dei suoi consumi limitati al costo di un’unico punto a sfavore: un tempo di accensione piuttosto lungo. Ma nei lampioni stradali, che vengono accesi soltanto una volta la sera e spenti di nuovo ad almeno 10 ore di distanza, ciò tende a non costituire un problema. Ragione per cui il sodio, metallo volatile e altamente reattivo, trova normalmente collocazione in simili lampadine, per essere sistematicamente eccitato mediante l’impiego di piccole quantità di gas neon e per questo trasformato in vapore luminescente, all’interno di quella che viene considerata normalmente una miscela di Penning. In questo modo, il moto degli elettroni diventa preziosa energia fotonica, ovvero trasformazione istituzionalizzata della notte in giorno. Senza inoltrarsi eccessivamente nel merito del loro funzionamento di base, vi basti sapere che la colorazione naturale di queste lampade sarebbe il giallo con lunghezza d’onda 589.3, un effetto contrastato, almeno in parte, mediante la creazione di una pressione particolarmente elevata all’interno di tali bulbi, che in funzione di questo diventano “in technicolor” ma ogni qualvolta cadono a terra, generano una considerevole deflagrazione fiammeggiante. Ragione per cui, a partire dalla loro invenzione nel 1920 ad opera di Arthur H. Compton, di simili apparati esiste una versione più maneggevole e meno pericolosa in ambienti domestici, nota come lampada LPS (Low Pressure Sodium). Ed è indubbio che vederla comparire a quel modo, in un video contemporaneo di Internet, faccia una certa impressione: un oggetto tanto anacronistico da sembrare un fusibile gigante, con all’interno una soluzione in cui galleggiano i grumi di sodio pronti ad essere vaporizzati dall’elettricità. Ora, nei fatti la luce realmente monocromatica non è un’esperienza che a noi capiti di sperimentare con particolare frequenza. Poiché ogni fonte di tale espressione energetica, generalmente, tende a irradiarsi verso una pluralità di regioni dello spettro osservabile, o quanto meno ricevere l’apporto funzionale di altre fonti distanti, come la luna, le stelle o quel po’ di luce filtrante dalla finestra di un palazzo distante. Esiste tuttavia la possibilità decisamente retrò, qui chiaramente dimostrata, di chiudersi in una stanza in cui l’unica possibilità di vedere sia quella che scaturisce da una lampada LPS. Si tratta di un’esperienza surreale al giorno d’oggi, capace di trasformare l’intero mondo in bianco e nero, o per meglio dire, gradazioni sfumate tendenti al giallo e all’arancione. Una situazione in cui ogni certezza sembra ritirarsi ai margini dell’inquadratura, mentre lo stesso concetto del sovrannaturale, un poco alla volta, acquisisce spazio all’interno delle vulnerabili cognizioni umane. Ed è proprio allora, nell’assottigliarsi del confine tra i diversi mondi, che basta un semplice gesto, per far confluire concetti in contrapposizione verso un’unica, miracolosa escursione nel mondo dell’impossibile apparenza.
Storia del crostaceo che appallottola sabbia da mattina a sera
Dopo aver familiarizzato con il terzo pianeta della stella Sol-1, ci rendemmo ben presto conto di qualcosa d’inaspettato. Contrariamente a quanto ci aspettavamo sulla base del nostro luogo di provenienza, in questo luogo la vita riusciva a prosperare praticamente ovunque. Esiste un luogo estremamente rappresentativo di tutto questo, che i nostri scienziati scelsero di chiamare piano mesolitorale, in cui la più impressionante massa d’acqua che voi possiate riuscire a immaginare (“oceano o “mare” che dir si voglia) incontra un territorio granulare generato dall’erosione dei minerali a base di silicati (“spiaggia”). Questo habitat surreale viene alternativamente colpito direttamente dalle radiazioni stellari, oppure inondato per l’effetto gravitazionale del grande satellite in cielo (“Luna”) creando l’equivalente di un tormento invivibile dove nessuno di noi potrebbe resistere per più di pochi minuti. Eppure, proprio qui riesce non soltanto a esistere, bensì prosperare la più impressionante collezione di mostruose creature. Vermi oblunghi dalla forma appiattita, dotati di una pletora di minuscoli peli locomotori (“turbellaria“); letterali sacche tentacolari composte da uno stomaco sovradimensionato, capaci di estrarre il nutrimento dal fluido che le circonda (“cnidaria“); esseri a otto zampe in grado di saltare e afferrare le proprie vittime con gli appuntiti cheliceri (“acari”); quadrupedi corazzati dall’espressione perennemente accigliata, capaci di resistere a qualsiasi tipo di radiazione spaziale o impatto accidentale (“tardigradi”). E che cosa direste a questo punto, miei cari amici Centauriani, se vi dicessi che c’è una creatura talmente grande e potente da riuscire a dominare su tutto questo, facendone il proprio cibo prediletto?
Di certo, è tutta una questione di dimensioni. Se la “Terra” fosse ancora abitata, nella maniera in cui abbiamo avuto modo di desumere, da esseri intelligenti alti all’incirca 160-210 cm, talmente grandi da poter ospitare una delle nostre astronavi sul palmo di una singola mano, tutto questo sarebbe sembrato loro poco più di un interesse passeggero, approfondito unicamente dagli studiosi che crearono l’arcana terminologia fin qui utilizzata. Ma questo “granchio” ai nostri occhi, non può che apparire come l’espressione più terribile di una belva completamente spietata. Il nostro primo contatto con la creatura avvenne all’incirca attorno alla seconda settimana dall’arrivo, dopo aver stabilito una base operativa e inviato gli esploratori a creare un perimetro difensivo. La capsula gravitazionale, in quel momento fatidico, scorse qualcosa d’inaspettato: nella cosiddetta “spiaggia” compariva un pertugio tenebroso dalla forma perfettamente circolare, evidente creazione artificiale di qualcuno… O qualcosa. Eccitati per la scoperta, i militari decisero quindi di sostare per qualche tempo a mezz’aria, puntando i loro cannocchiali verso la strana caratteristica del terreno. E fu allora che sotto i loro occhi spalancati, una pinza colossale, seguita dal carapace indistruttibile del terrore di queste terre, cominciò ad emergere con un movimento lievemente rotatorio. Estratte i rimanenti nove arti, tra cui l’altro simmetricamente conformato come un’arma d’offesa invincibile, la bestia ricadde pesantemente sulla sua schiena. A quel punto venne percorsa da una sorta di tremore, prima di voltarsi con un rapido volteggio e iniziare una lunga camminata. Ciò che apparve chiaro, a quel punto, agli osservatori, era che lo scopo di tale essere consisteva nel fagocitare cambiarla “sabbia”, cambiarla e sputarla fuori. Cambiarla profondamente nel suo modo di presentarsi al mondo…
La storia sconosciuta della grande muraglia indiana
Questa è guerra. Il chiaro segno di un conflitto, impresso nel paesaggio rurale del nord dell’India non come una cicatrice, bensì la testimonianza a rilievo, costruita nella pietra e con dispendio significativo d’impegno, manodopera e potere, di un intento profondo e irrinunciabile: preservare la propria religione, cultura e società. Un’impresa, se vogliamo, straordinariamente difficile verso la metà del XV secolo tra i confini geografici di quella che oggi siamo soliti chiamare, semplicemente, la regione del Mewar. Ma che allora costituiva, sopra ogni altra cosa, il regno tutt’altro che inviolabile del vecchio clan Sisodia dei Rajput, a maggioranza Giainista con significative fasce di popolazione ancora devota al culto degli dei Indù, proprio là, dove ogni zona limitrofa vedeva l’alterno predominio dei sovrani che, di lì ad un secolo, si sarebbero riuniti nel sempre più vasto impero dei Moghul. Uno stato, questo, di conflitto stabile e duraturo nel tempo, come quello capace di condurre alla costruzione di grandissime muraglie nella storia dell’umanità. E di certo non sarebbe poi così tremendamente azzardato, un paragone trasversale tra il grande imperatore e unificatore della Cina Huangdi, costruttore tra le altre cose dell’esercito di terracotta, e Kumbhakarna (regno: 1433-1468 d.C.) colui che assunse il titolo informale di paladino, contro il dilagante potere del sultanato della città di Delhi in questo particolare risvolto storico del subcontinente d’Oriente. Entrambi personaggi capaci di riunire dinastie sconvolte dalle lotte interne, amanti delle arti e della filosofia, capi guerrieri di potenti eserciti. E inoltre, costruttori di un agglomerato di mattoni capace di serpeggiare tra gli erbosi colli, agendo al tempo stesso come strada di collegamento e baluardo per l’avanzata nemica. Utile non tanto a mantenere fuori lo straniero. Quanto a scagliare verso le sue armate un nugolo di frecce, giavellotti e pietre, come sarebbe puntualmente capitato più e più volte, nell’immediato periodo successivo alla costruzione del Kumbhalgarh (trad. Forte di Kumbha).
Affermare che la storia di un personaggio storico tanto fondamentale per il Mewar possa essere dedotta da quella del suo principale castello sarebbe certamente riduttivo, eppure è indubbio che, a suo modo, il complesso costituisca un contributo emblematico al patrimonio archeologico dell’intero paese. Sia per lo svettante edificio principale costruito sulla cima di un colle, arricchito ed ingrandito svariate volte nel corso dei secoli a venire dalle successive generazioni dei Rajput Sisodia, che per l’impressionante cinta muraria che si estende a partire dal suo perimetro, lungo 38 Km ed alto tra i 4 e 14 metri a seconda del punto considerato, e sufficientemente spesso affinché secondo le cronache, otto cavalieri potessero galopparvi l’uno a fianco all’altro, senza nessun rischio di cadere giù nel precipizio antistante. L’effettiva funzione di una simile opera ciclopica, ovvero proteggere i luoghi di culto sanzionati dal potere dinastico, non potrebbe quindi essere resa maggiormente chiara che dalla presenza di ben 360 templi all’interno del suo perimetro, quasi tutti dedicati all’antica dottrina Giainista indiana. Come per gli altri cinque forti di collina del Rajastan, iscritti collettivamente alla lista dei patrimoni dell’umanità tenuta dall’UNESCO, non fu tuttavia sempre così. Basta infatti un mero intento di approfondimento, per venire a conoscenza di come la prima forma di una simile fortezza, definita all’epoca Machhindrapur, risalga almeno all’epoca del tardo impero dei Maurya (321-187 a.C.) come narrato nei testi e nei poemi epici del credo Indù, per poi assumere di nuovo un ruolo difensivo al tentativo d’invasione del sultano Alauddin Khalji durante buona parte del XIV nei confronti del regno di Chittaur. L’importanza strategica di un tale luogo, d’altra parte, è palese sotto gli occhi di tutti: stiamo parlando dell’unico colle di un ampio territorio pianeggiante, lontano da altri grandi centri abitati ma non dal fiume Banas, potenziale fonte d’acqua necessaria a resistere a lunghi e spietati assedi. Un’impresa che sarebbe riuscita più volte a Kumbha e i suoi generali a partire dal 1457 nei confronti dello Shah Ahmed I del Gujarat prima e l’anno successivo, dei guerrieri del terzo imperatore dei Moghul, Akbar I. Tanto che nel giro di poco tempo, iniziò a circolare la voce che il castello fosse protetto dalla dea Ban Mata in persona, sacra protettrice del Mewar. Ma neppure devastare i suoi templi, e perseguitare ogni qualvolta fosse possibile i sacerdoti devoti all’antico culto, avrebbe mai concesso la vittoria ai molti nemici della dinastia dei governanti del clan Sisodia. Soltanto l’uso di una tecnica disonorevole come il veleno avrebbe, un giorno ancora lontano, permesso di conseguire una vittoria di breve durata….
La strana passione degli architetti cinesi per gli organi genitali giganti
Lo scorso 24 settembre, la cospetto dei responsabili aziendali, i rappresentanti di partito e il popolo entusiasta dell’intera città di Nanning, capoluogo provinciale del Guanxi, si sono raccolti al cospetto del nuovo edificio del network televisivo locale di stato, per assistere a una spettacolare celebrazione della sua costruzione ormai prossima al completamento. Con un notevole dispendio in termini energetici e operativi, l’intera facciata dell’edificio da di 31 piani, 114.000 metri quadri di superficie, costato circa 2 miliardi di yuan (249 milioni di euro) è stato colorato da un sistema di luci al led, tramite cui è stata riprodotta l’immagine della Luna. Per molti dei presenti tuttavia, poco propensi ad apprezzare le qualità maggiormente formali di un simile momento storico, è stato impossibile scacciare dalla mente un’immagine di tutt’altro tipo. Chiamatela, se volete, una sorta di sconcia pareidolia, la tendenza della psiche a individuare dei volti laddove un convergere di linee o forme casuali sembrava darne appena l’accenno, retaggio dei nostri antenati primitivi alla perenne ricerca di predatori mimetizzati tra gli alberi della foresta. Soltanto che oggi, in assenza di un tale pericolo, gli atavici istinti cercano sfoghi di un’altra natura. Ovvero appartenenti a quello specifico ambito della privata Natura, che in molte circostanze guida e sostiene il complesso sistema di relazioni pubbliche e sociali che sono il fondamento stesso della società globale.
“Pene!” Ha gridato qualcuno. E in breve tempo, grazie alla magia di Internet, pene fu. Risate pronte a propagarsi come un fulmine dalle molte ramificazioni, pronto a percorrere il cielo plumbeo del social network nazionale Weibo, verso le molte testate internazionali, dove l’elaborazione con fotomontaggio in oggetto è stata istantaneamente data per vero, spesso sovrascrivendo completamente ogni possibile intento divulgativo in relazione all’insolito e affascinante edificio. Nel breve video, lungo appena 14 secondi, si vede il palazzo dalla forma oblunga con due strutture vagamente sferoidali alla base illuminarsi completamente, per poi essere incoronato da uno spettacolo di fuochi artificiali che scaturisce dalla sua sommità, con l’apparente scopo d’imitare lo zampillo di una fontana. L’analogia, a questo punto, diventa semplicemente troppo difficile da ignorare. In una serie di comunicati stampa dal tono progressivamente più nervoso, gli addetti alle comunicazioni della Guangxi Radio & Television Information Network si sono quindi affrettati a smentire l’effettivo verificarsi di un simile show pirotecnico, senza apparentemente rendersi conto o affrontare il tema di come la bufala fosse stata realizzata con l’obiettivo di evidenziare quanto ciò che oramai, doveva apparire palese agli occhi di tutti. Esorcizzare la forma fallica, come sanno bene gli abitanti di Londra, non è una missione facile per chi disegna palazzi per professione. Specie se si tratta di edifici al di sopra di una certa altezza e quindi, come loro imprescindibile caratteristica, caratterizzati da una forma sottile e allungata. Basti aggiungere a questo il fatto che una struttura architettonica, come sua imprescindibile prerogativa, debba essere osservata da diverse angolazioni, sia in terra che in cielo, per rendersi conto di quanto risulti essere difficile, talvolta, allontanare questa sorta di arcana maledizione.
E in fondo se lo si guarda dal basso (e possibilmente di fronte) il Guangxi New Media Center, sede di studi televisivi, radiofonici e uffici amministrativi, presenta una forma ondulata che tutto ricorda, tranne lo sconvolgente organo eretto verso l’azzurro cielo. Come nell’intenzione degli ignoti autori, che a quanto è stato dichiarato sul web avrebbero tentato di riprodurre con la forma stratificata dell’edificio i celebri terrazzamenti con le risaie della Cina meridionale e l’intero territorio del Sud-Est Asiatico. Peccato non sia possibile avere un loro commento. Una problematica frequente questa, nel paese del Popolo per definizione, dove tanto spesso gli sforzi collettivi devono preferibilmente restare appannaggio dei burocrati committenti, piuttosto dei creativi che hanno materialmente realizzato i progetti, in assenza del concetto per noi fondamentale di veri e propri auteur del mondo architettonico, intesa come una forma d’arte spontaneamente capace di attraversare le generazioni. E che sussista o meno, in questo, un qualche tipo d’associazione con la strana tendenza a costellare di peni l’intero paesaggio urbano nazionale, resta certamente difficile da definire. Laddove risulterebbe difficile, sotto un ragionevole punto di vista, che una simile suggestione trovi riconferma quasi ogni anno, grazie alle linee guida di una corrente contemporanea trasversale, modernista per definizione, in cui l’estetica funzionale del mero brutalismo è ormai un ricordo privo di conferme situazionali.