La laboriosa marcia di una Torre Eiffel sdraiata in Lusazia Meridionale

Durante una fresca sera nel mezzo dell’estate del 2004, sulle note dell’opera scritta da Giuseppe Verdi, Nabucco il re di Babilonia chiamava a raccolta i suoi soldati per marciare su Gerusalemme, di fronte alla struttura piramidale edificata per rappresentare il suo palazzo, a sua volta sovrastata da un qualcosa d’inusitato. Come una struttura di metallo, sviluppata in larghezza, capace di sembrare l’alto scheletro di un grattacielo; l’enorme residuato di una breve epoca, a Lichterfeld-Schacksdorf, che in vicini luoghi e su una scala lievemente minore, continua tutt’ora. Il Besucherbergwerk o Ponte Trasportatore del Materiale in Eccesso a questo scopo utilizzato, come si è soliti chiamare tali macchinari. è in effetti un residuato mantenuto in alta considerazione, al punto da considerarlo alla stregua di un antico monumento, castello o luogo di culto, dedicato alla realizzazione di un’industria che in passato riuscì a fare la fortuna di questa nazione.
Siamo nella regione nota come Alta Lusazia (aggettivo riferito all’elevazione, non la latitudine) ove da un tempo prossimo al millennio, oramai, l’uomo ha saputo trarre beneficio dai copiosi depositi del tipo di carbone fossile noto come lignite, particolarmente noto per la sua collocazione negli strati geologici prossimi alla superficie. Il che ha consentito la creazione di un particolare tipo di miniere, molto rappresentative di questi luoghi. Vaste ferite nel territorio presso cui lo scavo si sviluppa in larghezza piuttosto che profondità, mediante l’impiego operativo di alcuni dei macchinari più imponenti e impressionanti mai costruiti dall’uomo. Molti ricorderanno, ad esempio, lo scavatore a secchio (BWE) MAN TAKRAF RB293 normalmente chiamato Bagger 293, celebre su Internet per la sua capacità di assomigliare a un mostruoso dinosauro meccanico sovradimensionato. Mentre forse in molti meno, fuori dalla Germania, avranno familiarità con quello che potremmo a pieno titolo definire il suo fratello maggiore, un’entità meccanica di cui esistono ben cinque versioni (quattro ancora operative) che rappresenta il più assoluto perfezionamento tecnologico del braccio di un bambino che raccoglie la sabbia di un parco giochi. Dove “la sabbia” è ovviamente il più prezioso carburante fossile locale ed il bambino in questione, se vogliamo, avrebbe dovuto misurare la grandezza approssimativa di una montagna. Questo perché ciò a cui mi stavo riferendo in apertura, identificato con la sigla F60 e prodotto dalla stessa azienda con sede a Lipsia, la Tenova TAKRAF, seppe raggiungere nel 1991 la misura esatta di 502 metri di lunghezza contro i 324 della Torre Eiffel o i 456 della nave più lunga (la Seawise Giant) pur assomigliando vagamente alla prima in funzione della sua struttura metallica reticolare. Apparirà chiaro, in altri termini, che stiamo parlando della maggiore macchina semovente fino ad ora costruita nella storia dell’uomo.
Già, semovente, poiché nella sua interezza poggia su due carrelli ferroviari nei fatti più simili a dei veri e propri edifici, dotati di 760 ruote, metà delle quali alimentate grazie a poderosi motori elettrici dalla potenza complessiva di 27.000 kW. Eppure nonostante questo, in grado di portare a termine lo spostamento (o “processazione”) di un metro cubico di materiale per ciascun 1,2 kWh speso, una quantità risibile capace di dimostrare la sua sorprendente, notevole efficienza. A sempiterna riconferma che talvolta, anche i titani possono essere gentili…

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Il treno sui trampoli che superò i confini del mare

Risultano ancora visibili mentre si passa sulla Strada Costiera verso Rottingdean, nel distretto di Brighton & Howe, poco oltre i confini del bagnasciuga segnato dall’alta marea: una coppia di lunghe piste, come cicatrici incancellabili del paesaggio, punteggiate dall’occasionale blocco quadrangolare di cemento. E sarebbe certamente difficile, al giorno d’oggi, trovar qualcuno che abbia memoria diretta del loro impiego all’inizio del secolo scorso. 1896-1901 è il periodo. Durante il quale un oggetto non propriamente facile da identificare, sorgendo maestoso tra i flutti di Nettuno, spingeva il suo unico vagone dalle dimensioni piuttosto significative verso la meta all’altro capo del promontorio costiero, per poi tornare indietro lungo lo stesso identico tragitto, trasportando un carico d’ulteriori 30 passeggeri. “Ferrovia Elettrica Costiera” o Pioneer era il suo nome ufficiale, volendo riferirsi al veicolo solamente, benché vigesse l’abitudine collettiva di definirlo per antonomasia “Papà Gambalunga”. Un probabile riferimento al ragno dal corpo piccolo e le zampe sovradimensionate (fam. Pholcidae) largamente diffuso nell’intero territorio inglese. Questo perché, diversamente da qualsivoglia tipo d’imbarcazione, il surreale veicolo fuoriuscito direttamente da un romanzo di retro-futurismo speculativo restava perennemente a contatto con il fondale, mediante quattro affusolate colonne tubolari all’interno delle quali trovavano posto ben due alberi di trasmissione, capaci di connettere un singolo motore elettrico ad altrettante ruote motrici non del tutto dissimili da quelle di una qualsivoglia locomotiva. Barca? Treno? Difficile capirlo; per quello che era all’epoca, e sostanzialmente sarebbe ancora, un esempio totalmente privo di precedenti di trasporto tecnologico umano, frutto tangibile di quel periodo verso la fine dell’epoca Vittoriana in cui l’ingegneria britannica sembrò aver raggiunto il punto di gran lunga più elevato della sua storia pregressa, lanciandosi conseguentemente verso territori pindarici che mai nessuno, prima d’allora, avrebbe mai tentato di concepire all’interno della propria mente. Spazio virtuale utile a perseguire vie di rinnovamento, come quello nel cranio pensante di Magnus Volk (1851–1937) inventore talvolta definito l’Alessandro Volta o il Nikola Tesla dell’East Sussex, responsabile, tra le altre, cose della prima casa alimentata elettricamente della sua città oltre alla popolare, nonché redditizia, ferrovia elettrica di Brighton & Hove. Una soluzione di trasporto relativamente convenzionale e che tale sarebbe rimasta, almeno finché maturando l’intenzione di estendere i propri interessi commerciali fino a Rottingdean, il fondatore e amministratore unico non si sarebbe trovato a fare i conti con le difficoltà di un paesaggio poco collaborativo. Dovendo trovare un sistema, economicamente proficuo, per superare l’alta collina sul tragitto da compiere mediante l’impiego dei motori elettrici non particolarmente potenti dell’epoca, possibilmente scavando una costosa, profonda galleria, oppur passando coi suoi binari a ridosso di un pericoloso baratro sopra i flutti del Canale. Al che, giunse il principio della notevole idea: perché non passarvi, piuttosto, attraverso? Come una torre magica di stregoni, capace d’avanzare indefessa tra le nebbie del tempo. Come un antico dinosauro, trasformatosi in criptide avvistato nel mezzo del lago scozzese. Veicolo concepito per svolgere un compito e soltanto quello, per cui l’avrebbe svolto (si spera) eccezionalmente bene…

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La pilotina elettrica: silenziosa rivoluzione degli approdi portuali?

Lo sciabordio perfettamente udibile dell’acqua che s’infrange contro il molo, più e più volte, mentre il palazzo trapezoidale con il ponte di comando in bella vista sembra muoversi spontaneamente come l’ombra di una meridiana, virando in modo perpendicolare alla torre d’osservazione portuale. Un poco alla volta, il tratto di mare oscurato diviene impossibilmente sottile, poi scompare del tutto, con l’apparizione improvvisa di una forma verde, rossa e azzurra, le antenne a protendersi ordinatamente verso il cielo. Con un sussulto sincronizzato al grido sovrastante dei gabbiani, la piccola imbarcazione ruota agilmente su se stessa ed appoggia meglio la prua contro il bersaglio. Nessun suono, fumo o vibrazione, mentre ricomincia a spingere il possente bastimento con la precisione geometrica che viene dall’esperienza…
Nello svolgimento di un viaggio spaziale tra un pianeta e l’altro o perché no, interstellare, un’interpretazione realistica della fisica newtoniana prevede un dispendio di carburante concentrato principalmente in due momenti: la partenza e l’arrivo. Così che negli effettivi spostamenti effettuati da sonde o velivoli storicamente realizzati, per non parlare delle rappresentazioni plurime opera dei molti sfoghi della fantascienza, esiste quel momento in cui il pilota accende soltanto per qualche minuto i motori principali, “bruciando” carburante in fase di accelerazione o in modo speculare, decelerazione, mentre le piccole alterazioni di rotta vengono effettuate unicamente mediante l’impiego di piccoli ugelli ausiliari. Un qualcosa che possiamo ritrovare, fatte le dovute proporzioni, anche nella navigazione acquatica sulla superficie dei mari di questa Terra. Particolarmente al termine di un lungo viaggio che potrà condurci, dopo aver attraversato buona parte dell’Oceano Pacifico, fino a un punto d’approdo sicuro presso il continente d’Oceania, in quell’isola ecologicamente felice che ospita la città di Auckland, principale porto della Nuova Zelanda. Eppure, ha davvero senso impostare meccanismi di produzione dell’energia principalmente da fonti rinnovabili, quando uno dei principali ingranaggi della propria economia, il commercio marittimo, non può prescindere in alcun modo dal più copioso consumo di carburante diesel? Al fine di accompagnare ciascuna nave container, petroliera o altro mastodonte in acciaio e metalli vari fino al punto prefissato, manovrando quell’enorme stazza tramite l’impiego di strumenti piccoli, ma potenti!
Esatto: la pilotina (o rimorchiatore) quel natante dallo scafo simile alla forma di una vettura per l’autoscontro del luna park, la cui apparente stranezza risponde invece all’esigenza di appoggiarsi alle svettanti murate di vascelli assai più imponenti, agendo in maniera comparabile alle succitate variazioni di velocità stellari da parte degli astronauti in viaggio al di là del grande vuoto interplanetario. Il che storicamente non ha procurato grandi problematiche o dilemmi di natura etica, a meno finché in epoca recente, le importanti considerazioni climatiche e sul mutamento dello status quo ambientale hanno portato all’introduzione di stringenti norme sulle emissioni prodotte da tali fondamentali strumenti, verso l’introduzione di speciali filtri anti-particolato o motorizzazioni ibride, paragonabili a quelle delle locomotive “elettriche” in uso sulla terraferma. Ma che dire di un’azienda come Ports of Auckland, amministratrice degli omonimi due punti di sbarco nella celebre città sull’istmo strategicamente fondamentale dell’Isola del Nord, che da una decade ormai ha promesso di raggiungere, entro il 2040, il difficile obiettivo di un’impronta ecologica pari allo zero? Come cancellare del tutto quel tipo di consumi carboniferi che, a discapito di chiunque, sono stati sempre inevitabili nelle operazioni di carico e scarico di un qualsivoglia porto moderno? Strano, insolito persino sorprendente: nessuno avrebbe mai pensato che la soluzione potesse venire dall’altra parte del globo, ovvero da una particolare azienda situata entro i confini d’Olanda…

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L’idea innovativa di un monopattino a forma di sfera

Dieci soldati dalla candida uniforme, il colletto rosso, la testa bulbosa, una forma fisica che lascia intendere l’assunzione di qualche caloria di troppo prima dell’ora di colazione. Un colpo risuona sulla distanza, seguito dalla furia rotolante che avanza. Nove soldati dalla candida uniforme aspettano il proprio turno, prima di cadere. In origine, l’uomo preistorico faceva una grande fatica nell’organizzazione del suo gioco preferito, il bowling. Questo poiché, per quanto potesse risultare semplice trovare pietre dalla forma relativamente sferoidale, esse dovevano necessariamente essere impugnate con due mani sopra la testa, prima di essere scagliate nella direzione generica della pista di gioco. Il che portava inevitabilmente a una quantità piuttosto elevata di tentativi, prima che il suddetto pegno potesse realisticamente riuscire a colpire bersagli multipli, ottenendo un punteggio degno di essere annotato sulla tavoletta d’argilla di giornata. Almeno finché a un uomo, chiamiamolo “Atouk”, non venne in mente di praticare nel sasso tre fori per le dita, mediante l’impiego del suo pratico trapano a mano. Non c’è dubbio, in effetti, che la sfera sia la forma più elegante nonché efficiente in natura: una pletora di punti equidistanti dal centro, il nesso esatto della questione. E un involucro ragionevolmente resistente, in grado di deflettere gli urti e giungere rapido verso il traguardo. Ma prima che un tale solido possa dimostrarsi utile all’umanità, ciò resta innegabile, occorre che sia dotato del giusto tipo e quantità di appigli. Oppure, perché no… Sostegni.
Jyroball! Ne avevate sentito parlare? Ci avrei scommesso, dopo tutto, si tratta dell’ultima diavoleria (con campagna di finanziamento su Indiegogo) proveniente dal fervido incubatore aziendale dell’irlandese Thomas O Connell, già promotore di una serie di monopattini a tre ruote ed altri giocattoli “mobili” per bambini di ogni età, questa volta alleatosi con Marc Simeray, nient’altro che uno dei pionieri, nonché primi costruttori, di un effettivo veicolo monoruota a batteria. Poco dopo che, all’inizio degli anni 2000, il successo in campi altamente specifici del Segway bastò a dimostrare al grande pubblico come l’impiego di un giroscopio coadiuvato dal baricentro basso potesse garantire il mantenimento automatico dell’equilibrio nella maggior parte delle situazioni, fatta eccezione quella di un utilizzatore particolarmente inetto o spericolato. Ragion per cui, una volta miniaturizzati per quanto possibile batteria, pneumatico e motore, tutto ciò che sarebbe rimasto era un oggetto altamente trasportabile che poteva, a sua volta, spostare in giro il suo bipede proprietario umano.
Ora per chi conosce la storia di un tale ambito, l’effettiva presa di coscienza in merito al funzionamento dell’avveniristica Gyroball non potrà che ricordare almeno in linea di principio il veicolo personale dal ragionevole successo creato dall’inventore di origini cinesi Shane Chen nel 2010, noto col nome di marketing “Solowheel” (vedi precedente articolo sull’argomento) benché la sua forma geometrica presenti effettivamente un maggior numero di punti di forza in comune con un qualcosa di prodotto soltanto successivamente, la cui bellezza e semplicità estetica, tuttavia, potrebbero risultare soggettivamente inferiori…

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