Il cavallo di Blucifero e la svastica sull’aeroporto alieno

Ci sono luoghi, sparsi in giro per il mondo, presso cui le forze trascendenti paiono convergere, attraverso la rete di collegamento delle vene del grande Drago. Ley lines, vengono chiamate, oppure strane corrispondenze tra i rapporti geografici, o ancora la dimostrazione che esseri supremi ed invisibili hanno condizionato lo sviluppo e l’attuale situazione della Terra. In luoghi come le cascate del Niagara, il massiccio roccioso di Ayer’s Rock a Uluru, il vulcano di Parícutin nello stato messicano di Michoacán, la baia di Ha Long nel golfo di Tonchino… Ma anche siti costruiti dalla mano dell’uomo: pensate a Stonehenge, le piramidi egizie, Chichen Itza. In determinati casi, l’unico modo per emulare lo splendido mistero della natura è costruire qualcosa d’enorme ed intramontabile, la massima espressione dell’ingegneria dell’epoca corrente. In altri casi, può bastare il simbolismo ed il veicolo dell’arte: pensate ad esempio alla piana di Nazca con gli 800 disegni tracciati sul suolo del deserto peruviano attraverso spostamenti delle pietre ricche d’ossido di ferro. Ecco, sotto svariati punti di vista, l’Aeroporto Internazionale di Denver (abbreviato convenzionalmente come DIA) appartiene a questa ultima categoria; in primo luogo, perché occupa un vasto territorio nel mezzo del quasi assoluto e vertiginoso nulla. Fatta eccezione per l’alto cavallo del demonio, definito dai locali Blucifero per il suo colore e l’unica possibile provenienza…
Sito ad oltre 30 Km dall’estremo angolo nord-est dell’eponima capitale del suo stato, tra le svettanti Montagne Rocciose e i remoti altopiani del Colorado, la struttura occupa un territorio di 136 chilometri quadrati, equivalenti ad una volta e mezzo quello dell’intera Manhattan. Per lo più, completamente vuoti, esattamente come aveva previsto il progetto originario degli anni ’80, finalizzato a sostituire l’aeroporto pre-esistente di Stapleton, impossibile da espandere per la presenza tutto attorno di terreni ad uso militare e privato. E questo fu il primo problema: come puoi giustificare, agli occhi dei contribuenti, una spesa di 4,8 miliardi di dollari per costruire qualcosa che la città già possedeva, nell’ottica di una crescita futura che potrebbe ipoteticamente, un giorno, verificarsi… Oppure non farlo mai? L’equipe del sindaco Wellington Webb, che ereditò il progetto ancora incompleto quasi 10 anni dopo nel 1991, parve non avere (stranamente) alcun dubbio in materia: chiamando a collaborare un gruppo disparato di creativi di fama, provenienti dai paesi ed i background culturali più diversi, per impreziosire le infrastrutture con alcune delle loro espressioni più personali e caratteristiche, nella probabile speranza di ottenere un riconoscimento del pubblico e la fama su scala internazionale. Il primo risultato di tutto ciò, in ordine di commissione benché non di completamento, è sotto gli occhi di tutti coloro che passano da quelle parti, o per meglio dire, sopra le loro sconvolte teste: Blue Mustang, il cavallo in fibra di vetro con intelaiatura di metallo, gli occhi rossi che risplendono la notte, perennemente impennato a un’altezza di 10 metri e dal peso superiore alle 4 tonnellate, il prodotto di 10 anni di lavoro da parte dello scultore americano di discendenza messicana Luis Jiménez, morto nel 2006. Volete sapere come? Proprio mentre ultimava la testa del cavallo destinato a diventare Blucifero, nel 2006, dando finalmente soddisfazione alle cause minacciate dall’aeroporto per il ritardo della consegna, una parte di essa si staccò e cadde, recidendogli l’arteria femorale. Ma questo non è che l’inizio delle sinistre leggende di malaugurio che circondano l’inquietante e rabbiosa creatura, in realtà versione ingigantita di un’opera precedente dell’artista custodita presso l’Università di dell’Oklahoma, ricoperta di vene nerastre ed anatomicamente corretta sotto ogni punto di vista, genitali inclusi, che i viaggiatori in arrivo a Denver hanno avuto modo di ammirare dall’alto a partire dall’11 febbraio del 2008, data della sua inaugurazione. Ben presto iniziò a girare la voce, tra ampie fasce della popolazione, che tale mostruosa presenza fosse in effetti un riferimento simbolico al cavallo di Morte (o Pestilenza) il quarto cavaliere dell’Apocalisse. Portatore di spada, fame, malattie, belve feroci! Non propriamente la migliore suggestione da associare ai viaggi volanti, specie nell’attuale clima globale, come ampiamente fatto notare dai principali detrattori della controversa e costosa creazione. Finché a qualcuno dei più attenti di essi, scrutando dall’alto la forma del DIA, non ebbe modo di scoprire qualcosa di ancor più terribile ai suoi occhi. Ovvero che le piste principali dell’aeroporto, se guardate attentamente, riprendevano chiaramente la forma di uno dei simboli più odiati dal mondo moderno: la svastica hitleriana.

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Candid al museo: il prestigiatore le fa credere di aver scoperto gli alieni

The Crab Effect

Al di là delle ipotesi sul velo d’illusione che tentacolari organizzazioni pseudo-governative avrebbero disposto innanzi ai nostri occhi per tenerci all’oscuro sul ritrovamento di questo o quel disco volante, è indubbio che gli extraterrestri potrebbero già essere fra noi. Per il semplice fatto che non possiamo sapere come siano fatti e dunque, come potremmo mai riuscire a riconoscerli? L’esistenza della Terra è più lunga di molti milioni di anni rispetto all’esistenza degli umani, per non parlare della nostra storia registrata: poco più che un foglio di appunti, risalenti appena all’altro ieri. Dunque basandoci su quanto possiamo conoscere per certo, ogni singola specie vivente tra tutte quelle che ci circondano, potrebbe essere giunta nella nostra tiepida atmosfera grazie a un seme custodito sulla superficie di una mistica cometa, proveniente dai recessi periferici della vasta nube di Oort. Voglio dire, perché no… Potremmo essere persino noi, gli alieni. Esseri la cui coscienza, trasferita grazie a macchine inimmaginabili, è stata intrappolata dentro al cranio dei primati. Mettendo in moto quel processo evolutivo sregolato che, per quanto ne sappiamo, potrebbe essere ancora in corso di realizzazione. Purché altre specie, nostre nemiche fin dall’epoca del viaggio fin da Andromeda, non sopraggiungano a nullificare i nostri sforzi, condannandoci a restare eternamente incatenati ai nostri limiti di forma.
Perché un “mostro” può essere qualsiasi cosa. Presentarsi come un ibrido di multipli animali, un drago, un grifo, una chimera. Oppure presentarsi come un semplice sussurro di energia invisibile, in grado di lasciare un segno indelebile nei nostri sogni. O ancora una creatura in qualche modo familiare, tuttavia dotata di un potere totalmente nuovo. La… Trasformazione. “Erano granchi, Michael, erano granchi!” Esclamò la giovane donna:”Li ho visti bene. Ed invece, adesso sembrano proprio dei…” Siamo al museo Tellus di Storia Naturale del Northwest della Georgia, dove la protagonista era stata assunta per un lavoro di una singola giornata: soldi facili, da guadagnarsi come assistente del custode in occasione di un convegno. Il cui punto focale si trovava guarda caso, proprio in quella stanza, sotto la tipica teca di plexiglass per i reperti scientifici di ogni tipo, nonché sopra un pavimento che necessitava di una rapida pulita a mezzo mocio regolamentare. I due quindi, prima di mettersi all’opera, si intrattengono per qualche momento in una gradevole conversazione. Lui, apparentemente dotato di un sincero interesse personale per l’argomento, le racconta di come quelle strane pietre fossero state trovate qualche tempo fa, in prossimità di un cratere nel deserto del Mojave, lasciando del tutto spiazzati i geologi del gruppo di ricerca. Inizia quindi, alquanto stranamente, a riordinarle. Ma sembra all’apparenza ben sapere ciò che fa. Tali pietre, spiega alla ragazza, sono totalmente lisce ed insolitamente leggere: “Vuoi toccarne una? Prova, prova.” Difficile resistere alla tentazione. Peccato solo che al momento di rimetterlo nella sua teca, il sasso venga urtato accidentalmente, finendo per cadere dentro al secchio di acqua e detersivo. Per tornare a galla, soltanto un istante dopo, a dimensioni sensibilmente ingrandite! Ed iniziare quindi, con un suono netto ed improvviso, a schiudersi dinnanzi agli occhi spalancati dei presenti!
Perché il fatto, ecco, è che costui non si era presentato onestamente alla collega d’occasione. Perché non poteva certo dire di essere Michael Carbonaro, famoso illusionista da strada di origini italo-americane, che da qualche tempo imperversa sugli show della Tv statunitense, spesso mettendo in scena le sue rinomate candid camera. Delle quali, in tutto il palinsesto, non c’è eguale.

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Google porta il suo migliore alieno “virtuale” su YouTube

Google Help

Conseguire risultati tangibili in un tempo ragionevole, quindi cambiare il proprio target, l’obiettivo. È questo un metodo operativo che, per quanto possa sembrare all’opposto di un tipico iter creativo, non può che essere alla base di qualunque impresa commerciale del contemporaneo. Che poi vorrebbe dire, il gesto proficuo o la missione di qualsiasi grande compagnia, sia questa operativa nell’ambiente tecnologico, ludico oppure cinematografico. Ed era quindi naturale e inevitabile, ad esattamente un anno dal suo rilascio in esclusiva per alcuni cellulari Motorola poi allargato all’intera area degli Android, che il cortometraggio interattivo ad alto tasso di effetti speciali HELP giungesse infine presso la più celebre ed aperta piattaforma di distribuzione video, usata fianco a fianco dalle major dell’entertainment e dai proprietari di… Micetti, che fanno cose carine. Proprio così: c’è qualcosa di nuovo su YouTube, che non è un felino, e che potreste anche non avere visto. Ed è un kolossal nel suo settore, dei video di effetti speciali lunghi poco più di tre minuti, un vero genere creatosi negli ultimi anni per dare soddisfazione alla curva d’attenzione dei moderni, che sempre più spesso incorpora una gobba brusca come quella di un cammello; sarebbe a dire, irrimediabile entusiasmo, seguito da immediata noia e un cambio di canale. Ma vi sfido, io, a guardare soltanto una parte di questa vicenda a 360 gradi! Definibile in tal modo, non tanto nel modo in cui disanima la familiare questione della bestiolina aliena, un tema che comunque affronta con stile, quanto per la maniera in cui lo spettatore era chiamato, per lo meno nella sua versione originale, a riorientare l’inquadratura grazie a bruschi movimenti del suo smartphone, tanto per, nell’idea pubblicamente nota della sua istigatrice a capo del dipartimento Google ATAP (Advanced Technology and Projects) “Sfruttare finalmente il processore video e gli accelerometri fin troppo spesso trascurati” Beh, si. Da chi non gioca affatto ai videogame, aggiungerei. Ora, nella versione proposta al pubblico dell’ormai vecchio web cliccabile col mouse, questo particolare aspetto funzionale è ovviamente venuto a mancare. [Per] ora, si controlla con il mouse. E forse è anche meglio così! Una tale meraviglia visuale, ridotta alla grandezza di 7, al massimo 10 pollici di schermo, magari posizionati dinnanzi agli occhi grazie all’uso di una scatoletta di cartone? Quale indubbia crudeltà. Soprattutto con l’incombente tecnologia dei nuovi splendidi visori virtuali all’orizzonte, vedi Oculus, HTC Vive e tutto il resto della compagnia.
Definito brevemente l’interessante fenomeno, passiamo ora al corto propriamente detto. Che è l’opera per una volta, va notato, di comprovati professionisti di Hollywood, tra i quali spicca niente meno che il regista di Fast & Furious 4, 5, e 6, nonché del prossimo film in uscita appartenente all’interminabile serie di Star Trek. Il quale, accogliendo con gioia la proposta e la sfida del colosso delle ricerche online verso l’inizio del 2014, ha affrontato l’occasione creativa come una sorta di sfida, cercando un piglio emozionale che potremmo definire quasi Spielberg-iano. È dopotutto innegabile che la breve vicenda di HELP, infarcita d’azione ultra-moderna nello stile del franchise Man in Black, presenti anche degli evidenti richiami ai due classici del maestro Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) ed E.T. l’extra-terrestre (1982) sopratutto nei momenti d’apertura e nel suo epilogo, in qualche maniera, positivo. Anche la scelta del luogo dell’azione è significativa: niente meno che Los Angeles, la vasta città simbolo dell’industria cinematografica occidentale, tra le cui strade, e nei cui canali di drenaggio, si sono svolti alcuni dei più fantastici e memorabili inseguimenti nella storia della cellulosa narrativa. Ma forse mai prima d’ora, con questa specifica metodologia stilistica…

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Tutto molto bello, ma c’è vita su Keplero 452b?

452b

Sono spesso le piccole cose, che riescono a colpirci maggiormente. Non l’intera sequenza di complesse relazioni causa-effetto che conducono all’evoluzione, bensì la pecora, forse l’ape regina. Non la luce abbagliante di un’alba epica d’Agosto, che s’imprime nella retina impedendo di ammirare il mondo immerso nelle fiamme metaforiche d’estate, ma il suo geometrico riflesso dai contorni nitidi, sulla candida parete innanzi alla finestra. E non tanto gli enormi osservatori spaziali, come il vecchio Hubble da 11 tonnellate, con lo specchio iperbolico da 2,4 metri, o l’ancora più potente Herschel, che con i suoi 3 metri e mezzo è l’obiettivo più grande che sia mai stato messo in orbita dall’uomo, ma un qualcosa di molto più piccolo, lontano e specifico nel suo funzionamento. Nella logica del desiderio collettivo di conoscere lo spazio cosmico, la missione Kepler è certamente sempre stata poca cosa: “solamente” 18 milioni di dollari l’anno per un periodo tre/quattro anni, più la cifra non facilmente reperibile (si stimano i 500 milioni) richiesta per portare questo oggetto da 3.000 Kg appena in orbita solare, ovvero il più possibile lontano dalle interferenze di un pianeta uguale a quelli che avrebbe dovuto ritrovare, ma così tremendamente rumoroso e luminoso, un fastidio veramente duro da ignorare. Dunque, nel vuoto cosmico ha fluttuato, come fluttua ancora, a partire dal 2009 e lietamente ci ha fornito dati di alta qualità sul suo soggetto d’indagine, almeno fino ad Agosto del 2013, quando la NASA giunse darci la notizia: si, Keplero non funziona (bene) ormai da qualche tempo. Era in effetti un anno fa, quando uno dei quattro giroscopi al suo interno, usato per puntarlo verso la zona del centro galattico attorno alla costellazione del Cigno, si era guastato, smettendo di rispondere ai segnali inviati tramite la doppia banda radio a microonde per due volte la settimana, mentre la ruota di un secondo di questi dispositivi, a danno di noi tutti, stava sviluppando per motivi ignoti un certo grado di frizione. Nulla di eccessivamente significativo, in termini generali, ma più che sufficiente ad impedire il corretto funzionamento dell’intero apparato e continuare a svolgere efficientemente il ruolo per cui era stato portato fino a lì. Difficile, del resto, immaginare una missione di servizio e riparazione, come quelle effettuate a più riprese per il suo insigne predecessore Hubble, posizionato tanto più vicino a noi. Così, a partire da quella data, il telescopio è stato messo in stand-by, nella speranza di trovare nuovi metodi d’impiego (la futura missione, denominata K2, consisterebbe dell’osservazione di asteroidi e comete).
Eppure, la leggenda di Keplero vive ancora. Questo perché il suo compito principale, quel minuto strumento d’osservazione siderale riuscì a compierlo davvero molto, quasi troppo bene. Ed è un concetto che ormai diamo per acquisito, anche perché il senso comune era propenso a confermarlo, ma che dal punto di vista scientifico potrebbe dirsi una scoperta rivoluzionaria: noi (intesi come la Terra in qualità di pianeta) non siamo soli, là fuori. Anzi, tutt’altro! La prima ipotesi sull’esistenza di pianeti al di fuori del sistema solare fu formulata, neanche a dirlo, da quel gigante degli albori della scienza che è stato Isaac Newton, nell’ultimo libro del suo magnum opus, il Philosophiæ Naturalis Principia Mathematica (1687) mentre il primo che pensò di aver effettivamente osservato un simile corpo astrale fu soltanto Peter van de Kamp nel 1963, prima di essere smentito da John Hershey a distanza di 10 anni, che rilevò un errore sistematico nel funzionamento del suo telescopio. La prima scoperta confermata di un pianeta extrasolare fu invece quella degli astronomi canadesi Bruce Campbell, G. A. H. Walker e Stephenson Yang, che ne rilevarono l’esistenza da osservazioni sulla lunghezza d’onda della luce emessa dalla stella Gamma Cephei. A tutto questo, negli anni successivi fecero seguito altre timide e sofferte scoperte, sempre difficili da confermare, per lo più riguardanti corpi affini alla classe del gigante gassoso, ovvero troppo grandi e pesanti (pensate alla gravità folle di Giove) perché potessero ospitare qualsivoglia forma di vita. Per rinverdire l’interesse pubblico nella questione, ci voleva una svolta e quella svolta fu più che altro una catarsi.

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