L’antico dhole, cane democratico delle foreste d’Asia

Ancora una volta la natura era stata generosa con il branco e per questo andava ringraziata. Così l’intera congrega dalla rossa livrea volpina, le zampe lunghe ma non troppo, i musi a punta ma non troppo, la coda folta e orecchie tondeggianti coronate da un gran paio di ciuffi bianchi, rendeva manifesti quegli atteggiamenti che, in maniera altamente distintiva, caratterizzavano la piccola festa che precede quella grande della caccia. Lì un gruppo di maschi, emettendo il suono fischiante che caratterizza la loro intera genìa, giocava e dava sfogo all’emozione tentando di montarsi a vicenda. Lì le femmine, giocando coi propri piccoli proprio dinnanzi al cunicolo d’ingresso nella labirintica tana sotterranea di famiglia, mimavano i gesti e le movenze necessarie per buttare a terra un esemplare di sirau, la temibile capra cornuta delle nevi. E più in generale, tutti si strofinavano l’un l’altro, contro gli alberi e per terra, urinando in equilibrio sulle zampe anteriori, in attesa che potesse ritornare quel momento, dell’estasi e la furia della guerra, la complessa strategia d’assalto messa in atto dopo anni, per non dire secoli o millenni, di approfondita integrazione nel complesso codice genetico della specie.
Dhole è il loro nome, oppure cane rosso e lupo di montagna. Benché non appartengano, nei fatti, a nessuno dei due insiemi di creature bensì a un’eredità diversa, quella degli antichi cuon del Pleistocene, creature diffuse fino alla Spagna e con un antenato comune ai guaenti ed abbaianti branchi di licaoni, le iene e gli altri canidi africani. Rispetto ai quali rappresentano, sostanzialmente, un approccio differente alle stesse metodologie di sopravvivenza, che includono l’assalto in gruppo, sistematico e perfettamente organizzato, di una vasta serie di creature, e quando dico questo, intendo LETTERALMENTE qualsiasi cosa cammini, produca suoni o un qualsivoglia tipo di movimento. Non per niente, tra le etimologie teorizzate per il loro nome comune d’origine incerto, c’è quella della parola proto-germanica dwalaz, che significa per l’appunto “sciocco, stupido, imprudente”. Come quando, in casi pienamente documentati, un corposo gruppo di questi predatori carnivori dal peso unitario di non più di 12-15 Kg, hanno attaccato elefantesse con il piccolo, riportando significative perdite tra i propri famelici componenti. O tutte le volte in cui, data la coesistenza negli stessi territori, interi colossali branchi di fino a 100 esemplari hanno inseguito tigri come fossero gattini, spingendole fin sopra un albero con la speranza di salvarsi il pelo a strisce arancioni e nere. Eppure, ciò è un aspetto chiaramente distintivo della specie, senza nessun tipo d’imposizione messa in pratica da un esemplare dominante, il capo branco che conduce i giochi e può, in totale solitudine, decidere di riprodursi, bensì tramite una sorta d’istinto collaborativo naturale, nella più totale assenza di disciplina o comandi venuti dall’alto. Un approccio molto umano ma la cui efficienza nel contesto della vita selvatica, per chi è predatore e preda al tempo stesso, potrebbe facilmente essere messo in dubbio, vista l’esistenza corrente stimata di appena 1000-2000 esemplari in età riproduttiva rimasti, a causa della riduzione degli habitat ma soprattutto le malattie, per loro spesso letali, contratte durante incontri accidentali con i cani domestici della nostra umana società. Ma di un così crudele fato, a coloro che partecipano alla festa, comprensibilmente ben poco importa…

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Il suono raro che proviene da un milione di farfalle

Visibile soltanto raramente oltre i confini dell’Oceano Atlantico, attraverso le regioni geografiche del più Vecchio (e stanco) dei continenti, la vivace farfalla monarca (Danaus plexippus) rappresenta d’altro canto una presenza pressoché costante nel territorio degli Stati Uniti, dove per anni si è pensato fosse solita sparire, misteriosamente, durante l’intero corso dei mesi invernali. Tutto questo, almeno, finché negli anni ’30 dello scorso secolo all’entomologo Fred Urquhart non venne in mente un metodo ingegnoso per applicare una targhetta adesiva sulle ali di un grande numero d’esemplari, cominciando quindi ad annotarne gli spostamenti nel corso di un giro completo delle stagioni. Scoprendo, grazie a questo, come le suddette volatrici riuscissero ricomparire, a giorni o settimane di distanza, in luoghi estremamente lontani l’uno dall’altro, con una progressione verso la parte meridionale del Nord-America e destinazioni largamente incerte. Raggiunto quindi il confine messicano, i figli dei figli delle prime viaggiatrici (raramente, una volta compiuta la metamorfosi, questi insetti raggiungono i 20 giorni di vita) furono di nuovo tracciati con l’aiuto dei due abitanti locali Catalina Trail e Kenneth C. Brugger, che riuscirono a localizzare la loro destinazione finale presso alcune foreste dello stato di Michoacán, presso cui effettivamente, trova oggi lo svolgimento questo video, dal contenuto visuale ed auditivo assolutamente degni di essere commentati.
L’azione viene documentata e descritta dal naturalista Phil Torres, in tale occasione investito del ruolo di capo spedizione per il portale scientifico e divulgativo Atlas Obscura, che nelle presenti circostanze sembrerebbe trovarsi pienamente a suo agio. Questione non propriamente facile da dare per scontata, vista l’impressionante quantità d’insetti, vivi e morti, che sembrano inconsapevolmente minacciare il suo diritto ad uno spazio personale in cui muoversi senza schiacciarne o urtarne svariate dozzine. Benché l’effetto, nel suo complesso, risulti essere innegabilmente ed esteticamente affascinante: non per niente alla lepidottera Monarca, il cui nome deriva da niente meno che il re Guglielmo III d’Inghilterra (detto per l’appunto in funzione del suo stemma, d’Orange) viene anche assegnato il termine maggiormente generico di farfalla tigre, in funzione delle quattro ali caratterizzate da una notevole livrea a strisce arancioni e nere, coronate da una striscia di puntini bianchi alle estremità. Motivo, questo, ripetuto apparentemente all’infinito qui nel santuario di Sierra Chincua, dove come ogni anno svariati milioni di queste piccole creature discendenti dall’intera popolazione della parte occidentale degli Stati Uniti, e persino il Canada, si stanno risvegliando per compiere il loro avventuroso ed epico viaggio verso i luoghi di un’estate maggiormente ricca di risorse alimentari e in funzione di ciò, propedeutica alla riproduzione. Ma è in funzione di uno stato delle cose tanto insolito ed appassionante, che all’esperto documentarista viene in mente un’idea, largamente priva di precedenti nel suo settore. “E se provassimo…” Suggerisce “…Soltanto per un attimo, a restare completamente in silenzio, impiegando un microfono ad alta sensibilità per registrare e in funzione di questo, farvi finalmente sperimentare a distanza, l’incredibile esperienza auditiva di questo luogo? Avete mai sentito il suono che deriva non da una, né 50 ali di farfalle, bensì dozzine di migliaia delle stesse, solennemente unite in un concerto privo di termini di paragone nell’intero vasto regno della Natura?”

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L’impressionante popolo dei fantasmi con la maschera di fango

Il potente veicolo fuoristrada in grado di trasportare fino a 10, 15 turisti sembra frenare improvvisamente, avendo raggiunto la sommità del sentiero che conduce fino al famoso panorama del monte Gurupoka. La guida c’invita quindi, con gesto magniloquente, ad avvicinarci tutti al grosso sportello laterale, valico capace di condurci verso il vasto panorama promesso. Eppure, è mai possibile? Nello sguardo dell’uomo sembra figurare l’espressione e lo strano sorriso di colui che mantiene un segreto, di gran lunga troppo inopportuno per essere condiviso coi presenti. Dopo un attimo d’esitazione, scendo anch’io sul suolo sterrato, in mezzo ad una notevole macchia di felci mamaku, l’arbusto dalla forma paragonabile ad una palma altresì detto felce nera (Cyathea medullaris). Ma non faccio in tempo ad avvicinarmi al bordo del baratro al di là di una simile finestra naturale, che ai margini del campo visivo scorgo un inqualificabile movimento. Il quale poco a poco, si trasforma nella sagoma di una persona, con la pelle tinta di bianco. O meglio quella che potrebbe anche esserlo sotto ogni punto di vista, fatta eccezione per l’enorme testa cornuta, dai lineamenti appena visibili paragonabili a quelli di un gorilla, le zanne prominenti prelevate direttamente dalla carcassa di un cinghiale. Un dettaglio che mi sarebbe probabilmente sfuggito, nella penombra della foresta, se non fosse stato per il lieve rumore prodotto dalle due grandi foglie che costui, per motivi tutt’altro che chiari, agita rumorosamente su e giù, fino all’altezza delle spalle. Si tratta di una maschera, ovviamente, o come appare fin troppo evidente nel giro di pochi secondi, la prima di una pluralità di simili orpelli. Altre figure si affiancano infatti alla prima con una strana andatura ritmica e cadenzata, tutte evidentemente armate: lì un arciere col dardo pronto ad essere scagliato al nostro indirizzo, in opposizione al guerriero dotato di preoccupante lancia dalla punta presumibilmente avvelenata…. A chiudere la fila, un energumeno con la mazza, ricavata direttamente da quella che sembrerebbe essere la tibia di un grosso e non meglio definito animale. Da un rapido conteggio dei nostri assalitori, concludo che debba trattarsi di una quantità grosso modo equivalente a quella dei turisti presenti, ciascuno altrettanto drammaticamente e letteralmente impreparato all’incontro. Ma quando mi volto per avvisarli, scorgo una scena del tutto inaspettata: la coppia di anziani viaggiatori giapponesi con cui avevo conversato amabilmente durante la trasferta che stringono in mano le proprie macchine fotografiche, con un ampio sorriso in volto. “Sono loro, sono arrivati!” Gridano in un inglese dal forte accento: “Gli uomini del fango hanno fame, e stanno per cucinarci nel pentolone!”
Cos’è dopo tutto, il terrore? Nient’altro che un apostrofo insanguinato tra le parole “ti” ed “odio”, un qualcosa che nasce dal fondamentale senso di colpa per aver fatto, detto o prodotto una situazione in qualche modo inopportuna. E gli abitanti dei dintorni del villaggio di Goroka presso le rive del fiume Asaro, nella provincia delle Highlands Orientali della remota isola della Papua Nuova Guinea non hanno mai, per loro e per nostra fortuna, avuto ragione di temere le navi provenienti dalle masse continentali d’Oriente ed Occidente. Ragion per cui, nell’evoluzione della loro cultura contemporanea, l’antica metodologia degli accesi conflitti tribali un tempo costati la vita ad una quantità innumerevole di connazionali è stata trasformata in una sorta di spettacolo truce, usato per favorire il turismo ed incrementare, nel quotidiano, i fondi disponibili per garantirsi una ragionevole dose di comodità moderne. Essendo questa una tribù che si affida esclusivamente alla trasmissione tra le generazioni in forma orale, ad ogni modo, esistono diverse storie sull’origine dell’insolita tenuta da guerra (se così vogliamo chiamarla) tutte riconducibili, grosso modo, alla stessa vicenda: il momento indefinito nel tempo a seguito del quale gli uomini più combattivi della tribù, sconfitti durante un sanguinoso conflitto coi loro vicini, si ritirarono per cercare rifugio in prossimità del fiume, dove iniziarono a pianificare la propria vendetta. Quando uscirono quindi al calare della sera, erano completamente ricoperti dal fango chiaro dell’Asaro, che per qualche ragione veniva per di più ritenuto essere velenoso. Inoltre avevano il proprio volto con delle maschere spaventose, create riscaldando l’argilla sul fuoco nella profondità della notte, capaci d’incutere il terrore nel cuore dei propri nemici. Fatto ritorno al villaggio usurpato, quindi, la loro semplice vista risultò talmente terrificante che i vincitori non soltanto si ritirarono, sentendo addirittura il bisogno di mettere in atto una cerimonia per scacciare gli spiriti nella speranza di non incontrarli mai più. Ma da quel momento, così prosegue la leggenda, tutti i nemici degli uomini del fango avrebbero conosciuto il pericolo d’incorrere nella loro ira, strettamente interconnessa con la terribile apparizione dei morti viventi oltre i confini della loro terra.
Ora tutto ciò non può che essere ricondotto, incidentalmente, a dell’ottimo marketing contemporaneo: ci sono, in effetti, tutti gli stereotipi che il moderno abitatore dei contesti urbani ama vedere associati ai suoi simili rimasti legati a stili di vita primordiali: violenza, magia, ingegno… Qualcosa di quasi troppo perfetto, e schematico, per essere vero. Ragion per cui nel mondo accademico, da lungo tempo ormai, sono state cercate spiegazioni alternative tra cui la più accreditata, allo stato dei fatti attuali, resta quella degli antropologi danesi Ton Otto e Robert J Verloop che tentando di sfatare l’occulto mistero, fanno risalire la tradizione a un periodo grosso modo corrispondente agli anni ’50 dello scorso secolo…

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Niente rane in mezzo ai rami: questo è il verso della scimmia di Siamang

Avete mai incontrato una persona la cui voce sembrasse istintivamente quella di qualcun altro? Individui bassi con un tono da baritono, giganti che si esprimono in falsetto, anziani che si esprimono col tono, e qualche volta le preferenze lessicali, di un alunno di terza liceo? In un certo senso, avventurarsi nelle giungle di Malesia, Indonesia e Thailandia può dar adito ad un esperienza di questo tipo. Che si prefigura molto spesso grazie all’insistente ripetersi di un suono distante. Un canto, un lamento e a voler essere precisi, l’espressione in rima di una sorta di poesia. Che oscilla sopra e sotto, sopra e sotto quella nota inesplicabile che potremmo definire la frequenza di un possente gracidio. “Espressione generica di fastidio!” potrebbe a questo punto rendere palese l’ipotetico turista impreparato, subito aggiungendo “Apprezzamento generico sul valore del silenzio” mentre la sua guida, spalancando leggermente gli occhi, estende il dito della mano ad indicare verso l’alto. Un’ombra nera si fa largo in mezzo agli alberi. Non è un aereo, né un uccello, anche se si muove alla velocità di Superman: circa 40-50 Km/h; adesso 30; adesso 20, grazie al supremo sistema di frenata concesso al metodo della brachiazione (salto di ramo in ramo); ora si trasforma, da una sagoma sfocata, in quello che realmente è. L’essere peloso alto all’incirca un metro, senza coda, dal peso di 14-17 Kg, con le braccia lunghe molto più del corpo e un’espressione pensierosa. Grande o media scimmia, potrebbero chiamarla i non iniziati. Mentre gli esperti sanno molto bene, che si tratta del gibbone di Siamang (Symphalangus syndactylus) un tipico abitante (quasi) a rischio di estinzione di questi luoghi. Che apre lentamente la sua bocca, mentre lo strano palloncino grigiastro che si trova incorporato sotto il mento assume proporzioni comparabili a quelle della testa di un bambino. Ed è allora, senza saper leggere ne scrivere, che lo spettatore medio tende portare istintivamente le proprie mani in corrispondenza dei padiglioni auricolari…
Il verso di quello che viene comunemente italianizzato in siamango, da un appellativo in lingua malese di etimologia incerta, è stato decritto in molti modi: stridulo, enfatico, ansiogeno, penetrante. Il che permette di comprendere istantaneamente il suo scopo, di essere udito a svariate centinaia di metri di distanza, trattandosi essenzialmente di un metodo efficace nella marcatura del territorio. Quello spazio, o terreno di foraggiamento primariamente erbivoro che dir si voglia, a cui ciascuna famiglia di queste creature sceglie di affidarsi per definire i confini effettivi della propria esistenza. Diversamente da altri primati più famosi in Occidente, infatti, il siamango non vive in grandi comunità ma piccoli e più dinamici gruppi di quattro elementi al massimo, tra cui maschio e femmina dominante, accompagnati dai loro eventuali cuccioli o talvolta uno/due esemplari sub-adulti. Eppur nonostante questo, riescono a vivere una vita sociale piuttosto intensa e sofisticata, grazie al telefono senza fili della loro voce, in grado di trasmettere una straordinaria varietà di segnali, quasi paragonabili a quelli di un rudimentale linguaggio umano.

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