La ciambella che potrebbe rivoluzionare la fusione nucleare

Wendelstein

Ci sono ben poche macchine a questo mondo, intese come sistemi complessi mirati alla risoluzione di un problema, che possano definirsi senza il timore di smentite, straordinariamente, radicalmente impressive: conglomerati ineccepibili d’ingegno e precisione tecnica, una visione omnicomprensiva dei dettagli e del tutto. Tra queste, figura certamente l’ultima realizzazione del concetto di uno stellarator, inventato negli anni ’50 dal fisico americano Lyman Spitzer, più volte assemblato con variabile successo, dapprima all’Università di Princeton dallo stesso professore, poi presso quella di Wisconsin-Madison a dimensioni maggiorate, infine in un laboratorio della prefettura di Gifu, in Giappone, dove come dal nome dell’oggetto, gli scienziati si prefiguravano di replicare almeno in parte “I processi che si verificano dentro al nucleo di una stella!” Ma mai con la ponderosa e presumibile potenza del Wendelstein 7-X, il coronamento di oltre 10 anni di ricerche (con qualche contrattempo) da parte dell’istituto Max Planck per la Fisica del Plasma di Greifswald, in Germania, il quale, se tutto continuerà a svolgersi secondo i piani, procederà alla prima accensione entro la fine della presente settimana. E il mondo, della scienza o meno, dovrebbe trattenere il fiato. Perché? Ve lo dico subito: se l’esperimento riesce, come senz’altro ritenuto probabile da un’ampia fascia delle personalità coinvolte, questo mostro metallico costituirebbe, nei fatti, il primo reattore a fusione nucleare in grado di produrre un’energia maggiore di quella necessaria a farlo funzionare. In quale quantità, non ci è dato di saperlo. Ma basterebbe anche un surplus di entità trascurabile, magari sufficiente per accendere una lampadina o duecento, a cambiare radicalmente il corso futuro dell’ingegneria applicata a questo punto fermo possibile del nostro immediato futuro. Perché tale corrente elettrica, nei fatti, proverrebbe da una fonte totalmente pulita, eternamente rinnovabile, inesauribile e quasi totalmente priva di controindicazioni.
Una commistione di elementi che mai avevamo ritenuto possibile, questa, almeno finché non fu scoperto ancora in precedenza (si parla degli anni ’30, con ricerche finalizzate alla creazione della bomba termonucleare) che non soltanto la fissione distruttiva dell’atomo, con il suo pericoloso bagaglio di emissioni e scorie radioattive, ma anche la sua giunzione forzata in strutture conglomerate e complesse di nuclei multipli e neuroni, risultava nei fatti inefficiente, ovvero soggetta al rilascio di una certa quantità di potenziale di calore, più che adeguato alla generazione dell’elettricità. A questo punto il problema era “soltanto” capire come indurre un tale processo in maniera continuativa ed efficiente, ovvero che potesse essere sostenuta senza soluzione di continuità. E sono stati molti, i tentativi sia teorici che pratici fatti nel campo in questione, incluso quello dell’ipotetica fusione fredda, la sostanziale utopia ipotizzata inizialmente da Friedrich Adolf Paneth e K. Peters, che consentirebbe il verificarsi del fenomeno attraverso una catalisi spontanea dei muoni nucleari. Ma nella realtà dei fatti, soltanto un approccio diametralmente opposto ha funzionato: l’impiego brutale di sistemi di riscaldamento di potenza inusitata su una miscela di gas, in grado di superare i 100 MILIONI di gradi grazie all’impiego delle microonde, campi elettromagnetici di risonanza o l’introduzione di particelle ad alto potenziale d’energia. Ciò perché in simili condizioni, in cui manca la forza gravitazionale di una stella ma sussiste un calore di diverse volte superiore, le particelle di materia si trasformano in una sostanza dalle particolari caratteristiche, definita plasma in quanto, come avviene con gli additivi contenuti nel sangue umano, vi persiste una commistione indistinta di elettroni, ioni ed innumerevoli altre componenti largamente ignote. Tale brodo è tuttavia talmente sottile ed intangibile che, nei fatti, non esistono pareti in grado di contenerlo. In parole povere, metterlo dentro a un recipiente di cemento armato, dello spessore di molti metri, sotto terra, oppure in una fantascientifica gabbia di titanio energizzato, avrebbe lo stesso effetto che lasciarlo libero nell’aria di un campo fiorito. L’unica speranza di trovargli un impiego strutturato passa, dunque, tramite la forza dei magneti.

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Quando i tedeschi sognavano l’Isetta

Hoffmann car

Dalle profondità dei sotterranei del Museo Automobilistico di Lane, a Nashville, Tennessee, riemerge una creatura che l’intero mondo aveva già dimenticato: è la Hoffmann del ’51, questa che Jason Torchinsky del blog Jalopnik, parte del famoso network Gawker.com, ci dimostra nel primo episodio della sua nuova serie Jason Drives. E dopo che avrà portato a termine il suo giro di prova, bisogna riconoscerlo, nulla sarà ancora come prima. Nella comprensione di quante cose, davvero, possano andare per il verso sbagliato nella progettazione di un automobile. Nonché nell’attribuzione dei meriti di coloro che vennero subito dopo, Renzo Rivolta con la sua Iso di Milano, assieme ai progettisti Preti e Raggi. Perché in terra di Germania, come in Italia, Francia ed Inghilterra, nasceva in quegli anni del secondo dopoguerra un’esigenza nuova, di acquisire l’abilità di spostarsi su ruote senza scialacquare le proprie risorse finanziarie, sempre più scarse e preziose. E in molti, provenienti dagli strati sociali più diversi, tentarono di approcciarsi al problema con finalità di arricchimento personale, giungendo talvolta alla creazione di un prototipo, o una prima serie limitata di veicoli provenienti da qualche fabbrica in periferia, che poi piazzavano tra i propri vicini.  Ma questa macchina, frutto della mente e delle mani operose dell’omonimo ingegnere di Monaco (di cui Internet conosce il solo cognome, oltre all’altra iniziale, M.) resta tuttavia diversa da ogni altra prodotta nel suo tempo ed in effetti, della storia.Tre sole ruote, di cui quella posteriore si occupa di sterzare, per appena 340 Kg di carrozzeria spiovente in alluminio, dalla coppia di vistose prese d’aria per il radiatore, ma il cui retro rassomiglia stranamente al casco di un supereroe. Una forma che Jason descrive come “inadatta al corpo umano” mentre si contorce faticosamente, per fluire fino al posto del guidatore, dove procede nell’illustrarci le fenomenali meraviglie del veicolo: finestrini sollevabili grazie all’impiego di una striscia di cuoio, che veniva bloccata a mezza altezza grazie a perni verso la metà della coppia di sportelli. Un serbatoio posto in alto e dietro, con il condotto della benzina che, inspiegabilmente, passa dentro l’abitacolo, che a causa delle guarnizioni vecchie e consumate, inonda quest’ultimo di esalazioni maleodoranti e irrespirabili. La leva del cambio, sequenziale, che prevedeva intenzionalmente, una posizione intermedia tra ciascuna coppia di marce, corrispondente al folle (1-F-2-F-3-F…) senza nessun tipo di risposta tattile al passaggio dall’una all’altra condizione. Con conseguenze sull’effettiva guidabilità che vi lascio facilmente immaginare: durante il suo faticoso ma breve giro per il parcheggio del museo di Lane, un ex panificio, l’improbabile pilota rischia quasi di scontrarsi ben due volte, per non parlare del pericolo costante di cappottamento.
Il grande progettista Hoffman aveva ben pensato, infatti, di posizionare le tre ruote della sua automobile piuttosto lontane dai paraurti, con quella posteriore, in modo particolare, che sembra più che altro messa al centro esatto del veicolo, mentre l’abitacolo prosegue per un metro abbondante. Inoltre, e questo è forse l’aspetto più incredibile, alcuni pesanti componenti del motore si trovano montati su un’apposita parte del telaio che (per qualche ragione) sterza assieme alla ruota, inducendo un costante spostamento del baricentro da destra a sinistra, anche con il veicolo fermo. Alla fine, più che altro per appesantire il mezzo, l’inviato di Gawker finisce per fare il suo giro accompagnato da un addetto del museo, trasformatosi in zavorra umana per l’occasione, onde evitare conseguenze infauste quanto cupamente attese. Eppure questa strana creatura non fu probabilmente un pezzo unico, visto come da una rapida ricerca online se ne scopre almeno un altro esemplare al Microcar Museum di Madison, Georgia, oltre ad alcuni articoli che la confondono con un’altra trovata tedesca di quegli anni, la Hoffmann Auto-Kabine, in realtà l’opera di Jakob Oswald Hoffmann di Düsseldorf, che a questo àmbito dei trasporti ad uso personale scelse di dedicargli la vita e tutte le sue finanze, fino all’imprevisto finale del 1954. Ma ben prima che accadesse questo…
 

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Un viaggio virtuale a bordo dell’icosaedro volante

CableRobot

Laboratorio Max Planck, nella città di Tubingia, Baden-Württemberg centrale: sospesa in un hangar da 200 metri cubi, la cavia umana da laboratorio siede sul più comodo dei seggiolini forniti di cintura di sicurezza a quattro punti, la classica “bretella” usata nelle auto da corsa. Sul suo volto campeggia un visore per immagini stereoscopiche, modificato ai fini dell’esperimento tramite l’inclusione di alcune antenne sulla parte frontale, ciascuna sormontata da una sensore sferico per gli infrarossi; grazie ad essi, il computer potrà fornire delle immagini perfettamente calibrate in base ai movimenti del collo, della testa….Soprattutto, della speciale piattaforma sopra cui si trova la ragazza in questione: il CableRobot Simulator. Un’astronave letterale, oppure la figura geometrica creata da un qualche abile stregone matematico, in grado di sostenere facilmente il peso di un individuo adulto, mentre oscilla liberamente all’interno di uno spazio definito, tramite l’impiego di sei cavi ad alto potenziale, ciascuno collegato ad un potente mulinello. Un parallelepipedo senza finestre, che tuttavia può diventare, grazie all’impiego della moderna computer graphic, la vertiginosa curva degli anelli di Saturno, il fondo degli oceani, oppure l’orizzonte degli eventi di un enorme buco nero. Non ci sono limiti alla fantasia. Il problema, piuttosto, è convincere l’oggettività di ciò che giunge fino ai recettori del cervello; tutti, nessuno escluso.
La vista è un senso fondamentale nella guida di un qualsivoglia veicolo, estremamente sviluppato nei buoni piloti. Ma si dice pure, a torto o a ragione, che quelli davvero ottimi non si affidino poi tanto ai punti di riferimento esterni al velivolo, quanto al senso d’accelerazione che deriva dai sommovimenti del sistema vestibolare, sito all’interno dell’orecchio umano. Come una sorta di sesto senso. Sarebbe questa una definizione fondata sulla realtà, o il mero veicolo di un senso d’appartenenza, che si fonda su ciò che “non può essere insegnato, né simulato”? Difficile da dimostrare l’una o l’altra ipotesi, per il semplice fatto che la concorrenza tra gli stimoli opera nel mondo dell’inconscio, ovvero ciò che l’individuo stesso interpreta per dare fondamento al proprio ego. Mentre la scienza vera, da che è stata reinventata alle soglie del XVII secolo, ha preso una fruttuosa via che si basa sulla pura e inscindibile oggettività, quando possibile, altrimenti sulla statistica a campione. E sembrava impossibile, fino a poco tempo fa, ricreare le condizioni di un’estrema esplorazione dell’ambiente siderale in un contesto attentamente calibrato, sempre uguale a se stesso ed utile ad interrogare un alto numero di persone, il più possibile diverse tra di loro. Finché al Prof. Dr. Heinrich H. Bülthoff, capo di un gruppo di ricerca sulla percezione, cognizione ed azione umana, non è venuta l’idea di questo meccanismo, che ponendo i propri ingombranti motori al di fuori dello spazio soggetto al movimento, per un totale di 467 cavalli applicati ad una singola gondola creata in tubi di fibra di carbonio, può essere mossa con estrema precisione, oppure lanciata nel quasi perfetto equivalente sensoriale di una folle montagna russa. Il che, unito ai moderni strumenti di elaborazione in tempo reale delle immagini, permette di fare un significativo passo avanti non soltanto nella tecnica applicata, ma anche nella ricerca scientifica più pura sul cervello umano. Le applicazioni di quanto creato da questo istituto specializzato in biologia cybernetica, parte di una vasta associazione internazionale con oltre 17.000 dipendenti e la sede a Monaco di Baviera, sono relativamente remote, ma già stanno dando i loro frutti: si potrà ad esempio giungere ad una migliore diagnosi dei disturbi medici che causano disorientamento spaziale, attraverso la creazione di uno standard medio delle doti del nostro cervello, tutt’ora inesistente. E se anche nel perseguire un tale nobile scopo, tramite la concessione di brevetti o l’ispirazione diretta di un qualche abile ingegnere, dovesse nascere un’attrazione da parco giochi oppure due, noi futuri utenti saremo di certo gli ultimi, a lamentarci!

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Due droni si confrontano coi mostri del vapore

Steam engines

Come volano, sparvieri dal ronzìo insistente, tre o quattro eliche ciascuno, in mezzo alle volute del vapore. Le scintille fatte dalla segatura nel motore, appositamente aggiunta alla miscela, per accrescere ulteriormente i meriti di questa scena. Fuoco e fiamme alla fiera di Pickneyville, in una tiepida notte d’agosto che parrebbe appartenere a molto, molto tempo fa. Ciò perché al centro dell’inquadratura, così poetica e leggiadra, incede la macchina a vapore per antonomasia, quella ad uso agricolo, il trattore. Ma non uno come tutti gli altri, nossignore. È un Case, questo, rappresentante vivido di quella grande corporation statunitense, fondata nel 1843, che nel giro di 80 anni sarebbe arrivata a vendere 100.000 trebbiatrici. Oltre a 30.000 mezzi semoventi simili a questo qui, così straordinariamente restaurato, eppure non considerato pronto ad un museo. Bensì ancora utile, vecchio ferro ma non stanco, sospinto fino al sito della prova e messo in moto innanzi a un pubblico di esperti del settore. E sotto l’occhio di… Siamo di fronte, per intenderci, a una delle competizioni organizzate dalla prestigiosa Illinois Tractor Pulling Association, in cui macchine agricole di ogni foggia e dimensione devono sfidarsi in varie specialità, tra cui gare di velocità e potenza di traino. Proprio a tal fine, dietro il drago d’altri tempi è stata collegata un’apposita slitta con un complesso meccanismo, che nel corso del tragitto sposterà il suo peso gradualmente verso le due ruote anteriori, portando il piatto di metallo sito innanzi al semiasse fino al suolo, al fine di rendere il compito progressivamente più difficile, ancora e ancora. Si poteva spostare più velocemente, questo ponderoso arnese? Forse. Ma difficilmente, più lontano. Perché alla fine, tale approccio è stato studiato per un preciso scopo: dimostrare che l’erogazione di potenza, misurata in cavalli, non è determina la forza bruta, ma è bensì la coppia motrice (momento meccanico applicato) a determinare l’entità del compito a portata di un qualsiasi trattore. Ed in questo, il vecchio sistema del vapore non ha nulla da invidiare al vertiginoso avanzamento della tecnica moderna.
Basta guardarlo, dopo tutto: il mezzo in questione, proveniente dalla tarda epoca classica della produzione della Case, è il magnifico punto d’incontro tra funzionalità ed estetica, con un boiler lungo ed aggraziato, sormontato da una gran cabina decorata. Sulla quale campeggia in bella vista la dicitura 110 hp, piuttosto vicina a quella dei modelli top di gamma, che giungevano ad un relativamente impressionante valore di 150 hp, grosso modo equivalente a quello di una moderna berlina stradale, ma applicato su di un peso tra le 15 e le 20 tonnellate. In effetti, probabilmente in questo caso pesa più il trattore, che la slitta. Il fatto stesso che l’accoppiamento di oggetti riesca a muoversi, secondo i crismi della nostra epoca di un altro tipo d’efficienza, può facilmente suscitare un senso di spontanea meraviglia. Eppure, non soltanto le ruotone impressionanti del veicolo continuano a girare, ma riescono facilmente a far presa sul suolo sterrato, senza neanche l’accenno di uno slittamento. Sul suo davanti dell’eroica locomotiva fuori-strada, campeggia nel frattempo l’emblema dell’aquila, che il fondatore Jerome Increase Case (1819–1891) aveva dichiaratamente ripreso dal profilo della vecchia Abe, uccello simbolo di un reggimento del Wisconsin dell’epoca della guerra civile. Un simbolo che sarebbe rimasto legato a questo marchio almeno fino all’epoca dell’acquisto dello stesso da parte della Tenneco (1984) e il successivo ingresso nel gruppo internazionale Case IH, oggi controllato dalla nostra Fiat. E quale miglior modo, dunque, per riprendere la scena, che impiegare un punto di vista elevato, così come quello che avrebbe avuto il leggendario volatile, testimone di almeno una mezza dozzina di altre epocali battaglie…

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